27.
IL CUORE NON HA UNA STANZA SOLA

Luglio in montagna è un fiore all’apice dell’antesi. È un girasole giallo e grasso che non sarà mai più così rigoglioso, nel pieno del suo vigore prima di piegare il capo e avviarsi lentamente verso il declino. Le giornate in Vallarsa sono lunghe e assolate, il Leno corre verso valle come un lieve nastro azzurro e i prati si riempiono di covoni e di fiori fucsia.

I paesi si attrezzano per il loro momento di celebrità allestendo sagre, fiere e concerti e i vecchi del luogo un po’ si lamentano per la quiete interrotta, un po’ si riempiono occhi e orecchie di tutta quella vita: servirà per fronteggiare i silenzi e la solitudine che verranno, appena terminata la stagione calda.

A Obra cominciano i preparativi per i festeggiamenti in onore della Madonna delle Nevi, che avranno luogo al principio di agosto. Aldo fa parte del comitato organizzatore e passa qualche tempo in più fuori casa, per presenziare alle riunioni e ai sopralluoghi. Dina ha preso l’abitudine di aspettarlo seduta sul balcone, non lo aveva mai fatto prima. Adesso invece sembra tenersi compagnia con la sua assenza, trastullandosi all’idea di vederlo comparire attraverso il portico, con l’andatura dinoccolata e le braccia larghe lungo il corpo – forse è tornata ragazza e aspetta il fidanzato.

Qualche volta attraversa il cortile e va a fare visita a Maria, si siede sulla seggiola accanto al suo letto e parlano di cose passate, o inventate, e passano lunghi momenti senza dir nulla, ognuna forse inseguendo la scia di certi pensieri, baleni gentili, miraggi, che le conducono in luoghi perduti e tanto distanti da sembrare illusori. Ines di tanto in tanto entra nella stanza in punta di piedi, per offrire caffè e biscotti o accertarsi che non manchi loro nulla, che non ci sia troppa luce o troppo poca attraverso le tende sottili.

Dalla finestra aperta si sentono le mosse di Anselmo nell’orto, la vanga veloce a sradicare erbacce, i passi pesanti con l’innaffiatoio in mano. Nella dispensa in cucina il bottiglione di vino finisce troppo in fretta, Ines finge di non accorgersene quando è ora di portar via il vetro; infila i vuoti nella cassa di plastica, in attesa che il fratello se ne disfaccia, come mettesse in fila i birilli per il gioco del bowling.

Lena trascorre molto tempo con Agnese, le parla della nuova docilità di sua madre e rassicura Cristiano sul fatto che Corrado tornerà presto: il bambino le chiede notizie di lui ogni volta che si incontrano. Quando restano sole, Agnese racconta dell’uomo che sta frequentando, di come la metta di buonumore ricevere i suoi messaggi nel cuore della notte quando rientra dal turno in fabbrica – pensieri semplici, poche parole: “fai bei sogni”, o “mi manchi”. E Lena non può fare a meno di pensare a Corrado che non si è fatto vivo nemmeno una volta. Lo immagina arrampicarsi attraverso salite impervie, su e su per canaloni brulli color antracite, o aggrappato alla corda in un attraversamento orizzontale, il corpo tanto vicino alla roccia da sentirne il segreto cuore pulsante. Poi manda via il pensiero con un gesto della mano e torna a concentrarsi sui batticuori di Agnese, questa sua seconda giovinezza che sembra affacciarsi ardita tra le pieghe dei giorni e che certo non fa per lei; a lei va bene stare proprio come sta, senza passioni a stravolgere la precaria stabilità faticosamente conquistata, che nella sua mente è un sottile banco di ghiaccio sotto il sole.

Quando Corrado tornerà riprenderanno le loro camminate, per quello che potrà durare, certo, prima che lui riparta un’altra volta, e definitivamente. Di nuovo cerca di disfarsi di quel pensiero molesto che fa scendere una patina di fuliggine su ogni cosa dove posi lo sguardo; meglio pensare alle gite che faranno, presto, anche se non sa esattamente quando e si ostina a non guardare il calendario.

Le ore intanto fanno quello per cui sono state inventate: passano. Così i giorni e le notti e infine le settimane. Ne sono trascorse tre e il telefono è zitto. Anche lei s’affaccia al balcone, ogni tanto, voltata verso il portico, ma non viene nessuno.

«Che guardi?» le chiede una sera la madre, mentre la brezza fa muovere le foglie del noce e respirare i muri, vibrare le mollette da bucato sui fili per stendere e dondolare le tortore su quelli della luce. Le ore prima della notte sembrano fremere anche loro in arancio, come ultima fiamma sullo stoppino.

«Niente», risponde Lena, nervosa, appoggiata coi gomiti sulla ringhiera, distogliendo lo sguardo dalla strada al fondo del cortile.

«Niente non sembra», dice Dina muovendo la mano sull’appoggiabraccio della sdraio. «Sembra proprio tu stia cercando qualcuno.»

«Be’, è un’impressione tua. Non cerco nessuno.» Lena riconosce nella propria voce un singulto di rabbia trattenuta a stento. «E tu invece? Si può sapere chi stai aspettando tu? Passi le giornate qui, come se da un momento all’altro dovesse capitare chissà cosa.»

«Già, e siccome sono vecchia non capita più niente. Niente di bello, almeno.» Dina si alza faticosamente in piedi, tenendosi alla ringhiera. «È questo, no, che vuoi dire?»

«No, voglio dire soltanto che io sono qui e papà è di là in camera. Non c’è proprio niente di cui tu debba preoccuparti.»

«Lena, bambina. Ancora non hai imparato.»

«Cosa, mamma? Che cosa non ho imparato?»

Dina addolcisce lo sguardo e sorride in un modo insolito, mentre l’ultima luce del tramonto vibra nelle sue iridi scure. «Che il cuore non ha una stanza sola.»

Trascorrono così tre settimane e poi quattro e l’ansia di Lena diviene palpabile, nonostante non voglia confessarlo neppure a sé stessa. “Quando arriva mi cercherà lui”, si dice svegliandosi il mattino, “tutto qui, devo solo riuscire a non arrovellarmi.” “Io giuro disimparo la matematica piuttosto”, ripete fra sé, “il calendario non lo guardo più e i giorni non li conto.” Una voce anarchica dentro la sua testa, però, lo fa al posto suo: luglio è al termine e Corrado non è tornato.

Una sera non riesce a dormire, un temporale d’aria fa sbattere le imposte e fischia tra gli alberi come volesse metter paura ai fantasmi. “Chissà se gli orsi hanno timore del vento?” si domanda Lena mentre sale le scale per andare in soffitta. “Chissà se si rintanano nel buio delle loro tane, se lasciano che i cuccioli si accovaccino contro i loro ventri enormi o se invece escono per sfidarlo, e, impettiti su due zampe, ingaggiano una prova di forza contro il nemico invisibile, ma così rumoroso.”

Pensa questo mentre sale le scale di legno senza far rumore, decisa a ingannare la mancanza di sonno scavando tra quelle lettere che non frequenta più da molti giorni, nel tentativo vano e non dichiarato di trovare risposte a domande che non osa formulare.

Aprendo la porta sente un ronzio, come di una TV o di una radio desintonizzata. Quando accende la lampadina che penzola dal soffitto, ha una sorpresa: le api sono entrate dalla piccola finestra nel sottotetto a cui mancano gli infissi e in poco tempo hanno costruito un alveare. Per qualche attimo Lena resta incantata a osservare quell’organismo vivo e pulsante, grosso quanto un lampione, che pare muoversi all’unisono, come se ognuno di quegli insetti fosse governato da una stessa mente. Domani dovrà chiamare la disinfestazione, ma prima telefonerà ad Agnese perché accompagni Cristiano a vedere quello spettacolo.

Poi una folata di aria più invadente si infila nel varco, scuote con forza l’alveare e le api sembrano impazzire, muovendosi convulsamente in tutte le direzioni, fino a saturare l’ambiente con il loro fremito. Lena si scuote ed esce dalla stanza in fretta, ma proprio appena richiusa la porta un insetto riesce a pungerla sul polso lasciato scoperto dal pigiama.

Tornata in camera si siede sul letto e controlla che non sia rimasto il pungiglione conficcato nella carne. Mentre si sfrega il braccio arrossato e il vento continua a furoreggiare tra gli alberi facendo vibrare i vetri chiusi, pensa all’ape morta per pungerla, al coraggio incosciente di quel piccolo insetto, al suo sacrificio inutile, e pensa che Corrado non tornerà, nemmeno questa volta.

Passano altri giorni, Lena parte sola per camminate sempre più lunghe.

Si mette in marcia quando l’alba è ancora un segreto custodito bene e si svela senza fretta, come la mano di un bimbo che mostri un piccolo tesoro scoprendolo un dito alla volta.

Tiene gli occhi concentrati a terra, sulla strada sempre più bianca che si snoda nel sottobosco, tra i muschi verde bottiglia e le piante di mirtillo. Il caldo del mattino la coglie impreparata mentre a ogni passo alza polvere e scuote foglie, e con la rabbia di ogni passo fa scappare veloci le vipere che escono a prendere il sole sulle pietre chiare accanto ai torrenti, e scapperebbero anche gli orsi – ne è certa – se se la trovassero davanti, così infuriata per essere caduta un’altra volta nella viscosa ragnatela dell’aspettativa: altri giorni promessi invano.

Il dolore dell’abbandono torna nuovo, ritorna vivo come certi mal di denti che se ne stanno assopiti per anni ma quando vengono fuori capisci che non li avevi dimenticati davvero; la nuova delusione di Lena è un grumo duro e sanguinante in bocca, un male martellante che l’analgesico non lenisce.

Cammina tormentata dal rumore che fanno i pensieri, peggio delle api in quell’alveare che adesso sono venuti a portar via, sono venuti in due con le tute e la maschera, hanno lavorato a lungo per spostarlo senza distruggerlo, hanno portato il lampione di cera a ronzare da un’altra parte e hanno lasciato quell’altro incessante brusio dentro la sua testa, senza poterci far niente.

Come se qualcosa tra lei e il mondo si fosse assottigliato, le sembra di sentire ogni cosa più forte: la marcia delle formiche tra gli aghi di pino, il graffio dello scoiattolo sui tronchi, fuori e dentro le buche, l’aria spostata in alto dall’ala del falco, i percorsi sotterranei delle talpe e il sonno dell’orso.

Poi, la sera, siede vicino alla madre sul poggiolo, cercando di guardare in alto, verso il profilo dentellato delle Piccole Dolomiti, verso un punto imprecisato sopra un banco di cirri. Sarà così da adesso in poi, pensa, mentre rondini vanno e vengono dal nido nel sottotetto e le cicale agitano l’erba: sarà stare seduta qui a non aspettar nessuno.

La domenica della festa per la Madonna delle Nevi, Lena aiuta la madre a prepararsi per la processione. Dopo aver pranzato cerca nel suo armadio una gonna elegante e una camicia a manica corta, con un colletto tondo da collegiale, le calze di nylon color carne e una giacca leggera per entrare in chiesa. Lascia tutto su una sedia. «Vestiti», le dice, «io vado di sopra a prepararmi e poi usciamo.»

Quando torna, Dina è seduta sul letto con la testa tra le mani.

«Mamma, stai male?»

«Ho rotto le calze», dice senza spostare le mani dalla faccia.

Lena le guarda le gambe: una smagliatura si dirama sul ginocchio e, sotto, gli stivali di gomma che metteva anni prima, per i lavori nell’orto.

«Che scarpe ti sei messa?»

«Ho trovato queste», dice, scoprendosi il viso rigato di pianto.

«Non vanno bene queste, non vedi? Sono stivali. Potevi aspettarmi», dice Lena trafficando nel cassetto della biancheria per trovare un altro paio di collant.

«Aspettarti scalza? Non credo.»

«Basterebbe un po’ di pazienza.»

«Senti chi parla.» Dina cerca di sfilare gli stivali, senza riuscire. «Tu non ne hai un briciolo, di pazienza.»

Lena si china ai suoi piedi, per aiutarla.

«Mi hai anche nascosto il quaderno dei ricordi, non credere che non lo abbia capito.»

«Mamma, non ho nascosto un bel niente.»

«Certo che sì, invece.» Dina ritrae bruscamente la gamba e libera il piede. «Mai una volta che tu sia contenta di fare qualcosa per me.»

«Certo. Il fatto che io mi sia trasferita qui ovviamente non significa nulla.»

«Non lo fai per me. È il tuo senso del dovere, quello. La brava bambina che viene fuori.»

«Be’, sai che ti dico?» Lena si alza in piedi e lancia contro il muro uno stivale che cade sul pavimento di legno con un tonfo, prima di uscire sbattendo la porta. «La brava bambina ti saluta.»

Un’ora più tardi sono entrambe alla processione, camminano vicine, la statua della Madonnina bianca e azzurra è portata a braccia da quattro giovani robusti, in testa alla colonna. Una serpentina di persone si snoda per le vie strette del paese, pregano e cantano, mentre Lena ripensa a quando mezz’ora prima è tornata a prendere la madre. Le ha infilato le scarpe nere senza che l’altra opponesse alcuna resistenza. Le ha pettinato i capelli striati di grigio in una treccia, nessuna delle due ha detto una parola e sono uscite nel pomeriggio soleggiato, fianco a fianco, guardando ognuna dritto davanti a sé, ognuna come fosse sola.

È una giornata solenne ma anche di mancanze e tiepide nostalgie, è un giorno di incontri e della conta degli assenti. Vedere i cambiamenti negli altri, gli stessi che immagini gli altri vedano in te: stare alla festa del proprio paese è come trovare gli anni di un vecchio albero contando gli anelli nel tronco. Quando hai un’età di mezzo non puoi fare a meno di guardarti avanti e indietro: i figli delle amiche che si rincorrono nei prati sono gli stessi che fino a ieri stavano aggrappati al seno o dentro carrozzine riempite di sonagli, uomini che un tempo ti portavano sulle spalle per dominare il panorama dall’alto adesso si sorreggono al braccio di qualcuno vicino, che rallenta il passo per dare sostegno. Questo pensa Lena con un groppo in gola mentre scorta la Madonnina bianca e azzurra sotto il sole pulsante in una giornata afosa di nubi basse. Guardando indietro e avanti.

La processione finisce davanti alla piccola chiesa da dove era partita, la gente sciama e comincia a sparpagliarsi verso il punto ristoro allestito per l’occasione. Nel cortile della vecchia scuola, ora utilizzata come ambulatorio medico e come sede della pro loco, sta per iniziare lo spettacolo di Mago Mirtillo, un trasformista a metà tra l’illusionista e il clown, in mezzo alle grida esaltate dei tanti bambini assiepati sotto il palco di legno.

«Vorrei vederlo», dice Dina passandoci davanti per tornare a casa.

Lena prova a dissuaderla: «Sei stanca, fa caldo, ti annoi sicuro», ma senza successo. Così l’aiuta a sistemarsi su una sedia di plastica e si sposta sul fondo, tra i posti in piedi. C’è parecchia gente, per lo più famiglie, il mago entra in scena con uno sgargiante vestito da pagliaccio e una parrucca riccia arancione acceso. Tra le sue gambe, un buffo trabiccolo simile a un triciclo su cui finge di sfrecciare a tutta velocità.

Lena ha sempre odiato i clown, anche quelle poche volte che suo padre da bambina l’aveva portata a vedere il circo. Le piacevano gli animali, tutti, dai cavalli ai leoni, le piacevano gli acrobati e gli sputafuoco, ma appena compariva l’uomo con il naso tondo e rosso avrebbe voluto andarsene seduta stante.

Mentre l’artista sul palco comincia a far roteare una manciata di palline di spugna con la complicità di un ragazzino alto e dinoccolato scelto tra il pubblico, Lena si allunga a guardare la madre, ma ne scorge soltanto una spalla. Le viene il timore che possa fare qualcosa di inaudito, come alzarsi e arrampicarsi sul palco o decidere di tornare a casa senza dire nulla. Intanto è entrato in scena un secondo bambino, biondo e rubizzo, a cui viene affidato un lungo nastro di raso verde.

«Anche tu qui.» Lena si sente toccare un braccio.

«Paolino. Che ci fai da queste parti?»

«Come, che ci faccio? È il mio spettacolo preferito», ride. «Tu piuttosto, appassionata di giochi di prestigio?»

«Come no. Sono mesi che seguo la tournée di Mago Mirtillo in giro per la valle.» Ridono entrambi, mentre dal palco arriva il suono greve di un campanaccio, scosso energicamente dal ragazzino magro.

«Ogni tanto un po’ di allegria ci vuole», dice Paolino sottovoce, «con tutte queste brutte notizie.»

Lena si gira verso di lui con aria interrogativa.

«Be’, hai saputo di Corrado?»

Il pubblico sussulta per un petardo scoppiato sul palco, Lena indietreggia come se fosse un proiettile sparato verso di lei. Comincia una musica da un organetto.

«Corrado cosa?»

Quel nome, il volto improvvisamente serio di Paolino, quel motivetto stupido e allegro: Lena ha la sensazione di essere improvvisamente sbalzata in un luogo di cui non conosce le coordinate.

Si scostano di lato, per parlare senza disturbare l’esibizione. «Scusa, pensavo foste… Non so, mi ero fatto delle idee. In effetti mi è sembrato strano vederti qui.»

«Mi dici cosa è successo?»

«Ha avuto un incidente.»

Lena sente un freddo improvviso nello stomaco, la sensazione di una sventura imminente, ma anche qualcosa che non oserebbe confessare neppure a sé stessa: un piccolo sollievo, una luce che si accende in fondo a un luogo oscuro dentro di lei.

«Che incidente Paolo? Spiegati meglio per favore.»

«So che c’è stato un problema ad alta quota, è scivolato, o qualcosa del genere.»

Mentre sul palco Mirtillo congeda i due bambini con manciate e manciate di coriandoli, invitandoli a tornare tra il pubblico, Paolino spiega di aver saputo del fatto da una vecchia conoscenza, un tale che da ragazzo viveva in Vallarsa e che per un caso faceva parte del gruppo di escursionisti accompagnato da Corrado.

«E adesso?» chiede Lena mentre dal palco si alza una miriade di bolle di sapone di tutte le dimensioni.

«Adesso è in ospedale a Trento, di più non so», dice Paolino. «Ho provato a chiamare al rifugio, ma non mi hanno voluto dire granché. Hanno accennato a un’operazione, forse alla schiena. Pare che non sarà una cosa breve, ecco, questo l’ho capito.»

Uno scroscio di applausi riempie il cortile polveroso della vecchia scuola e l’uomo sul palco coi capelli arancioni si prodiga in una serie di inchini. Una nuova miriade di bolle galleggia nell’aria come schiuma dopo la mareggiata.

«Hai visto che belli i coriandoli», dice Dina dopo aver raggiunto la figlia facendosi largo tra i bambini schiamazzanti, intenti a ricongiungersi con i genitori. Una bolla di sapone scoppia proprio sopra la sua fronte.

Il giorno dopo la festa c’è un silenzio più grande in paese. O almeno quella è l’impressione, svegliandosi il mattino.

Dopo una notte passata a contare pecore che di continuo si trasformavano in Corrado e poi in Corrado all’ospedale e poi in Corrado su una sedia a rotelle, dopo una notte praticamente insonne, Lena scende in cortile. È ancora presto ma non si stupisce di trovare Aldo seduto sulla panca davanti a casa; ascolta la radio a un volume bassissimo, una stazione che trasmette tutto il giorno musica country.

«Già in piedi», dice vedendola arrivare.

Lena gli siede vicino, annuisce.

«Non hai un bell’aspetto, mi sa che non hai dormito granché.»

Lena fa spallucce. «Più o meno.» Indica la radio, da cui esce una canzone di John Denver. «Pensi ancora all’America, vedo.»

«Più o meno», sorride lui.

Il sole nascente fa somigliare la casa gialla a una pepita gettata nel verde e l’aria è fresca e piena dell’odore dolciastro del fieno. Lena racconta di Corrado. Della sua partenza, dell’attesa e delle notizie avute da Paolino, dell’incidente e delle condizioni che potrebbero essere gravi, della sua notte tribolata perché in fondo è un amico – anche se non era solo un amico nel sogno fatto all’alba. Era un indiano vestito di bianco che galoppava attraverso pinete e poi prati, e oltrepassando frontiere invisibili le veniva incontro con il vento dappertutto che quasi lo faceva alzare in volo, o almeno così sembrava, sembrava che gli zoccoli sfiorassero appena il manto erboso, mentre veniva dritto nella sua direzione, fino a quando un tronco, una staccionata, qualcosa che prima non c’era e ora eccola, qualcosa ha frenato la corsa e probabilmente l’ha fatta finire malissimo, ma lei non lo sa con certezza perché si è svegliata di soprassalto, boccheggiando, come se qualcuno le avesse gettato addosso una secchiata d’acqua.

Questo non lo dice a suo padre, questa cosa del sogno, ma gli dice abbastanza perché lui la guardi a lungo, tenendosi in gola quello che vorrebbe domandare, una cosa che – lei lo sa bene – suonerebbe come un: “Ma tu? Sei innamorata, tu?”. A quel punto lei scuoterebbe il capo con foga: “No, no, certo che no” – con troppa foga. Lui sa che risponderebbe a quel modo e così non chiede e solo la guarda serio, e dice: «Qui ce la caviamo benissimo, se credi di andar via per un po’».

Il sole luccica sui suoi scarponi, illumina di sbieco l’erba inumidita dalla notte, si riflette contro i vetri della cucina e accende il blu mattutino della diga. Lena sente gli occhi bruciare – tutto quel sonno accumulato – la musica è bella – «…take my home…» – e adesso sta pensando: “Mi sa che vado”.

«Mi sa che vado.»

Dopo che si è preparata lo zaino e ha salutato Dina, promettendole che sarebbe tornata prestissimo, Aldo la scorta alla macchina, la bacia sulla fronte, le dice «vai piano». Aggiunge due colpetti sulla spalla, segno che il momento merita una certa attenzione, che non è una questione solo di velocità e impegno alla guida.

Lena scende i tornanti, uno a uno, attraverso prati verdi e gialli punteggiati di trattori e uomini chini con cappelli larghi e bambini. Guida con il cuore ridotto a un canarino spiumato e nella mente le risuonano le parole di Aldo, subito prima del bacio e dei saluti, le parole dette mentre con una mano a visiera difendeva gli occhi dalla luce: «Ci penso ancora all’America, sì. Non solo ogni tanto, ci penso spesso».

Accende la radio, prova a cantare per darsi coraggio.

Davanti agli occhi: suo padre che le sistema lo zaino nel bagagliaio. Mentre dice: «Bisogna partire, finché si può».