33.
DOMANI È SETTEMBRE

Una luce giallastra scende di sbieco sulla strada sterrata del parco, infilandosi tra i rami bassi dei pini, mentre Lena spinge la sedia a rotelle che sobbalza leggermente quando incontra una pietruzza o un piccolo dosso. Fa ancora caldo, ma all’ombra si sta bene e arriva il verso delle cicale insieme al ciangottio degli altri pazienti e dei loro accompagnatori. Si vede anche qualche medico o infermiere, ogni tanto, con un panino o una sigaretta tra le dita.

«Sei silenziosa oggi», dice Corrado appena si fermano al solito posto.

«Dici?» Lena fa per dargli una mano ad alzarsi. «Ti aiuto.»

«No, stai a vedere.» Corrado si aggrappa con le mani ai braccioli e riesce a issarsi in piedi e, mentre Lena tiene ferma la sedia a rotelle, si mette seduto sulla panchina.

«Accidenti, che bravo», dice Lena prendendo posto accanto a lui. «Allora la prossima settimana ti spostano alla clinica per la riabilitazione?»

«A quanto pare sì.» Corrado si sfrega i palmi aperti sulle gambe. «Così mi hanno detto stamattina. Spero non sia una cosa tanto lunga.»

«Se continui così non lo sarà di certo. Ti stai impegnando moltissimo.»

«Ce la metto tutta.»

«Così potrai tornare presto al rifugio, giusto?» Lena si mette a giocare con una piccola scaglia di legno sulla panchina.

«Già.» Corrado si sventola la T-shirt sotto il collo, per farsi aria. «E tu? Ti andrebbe di venire a vedere com’è, quando sarà il momento? Così, se ti piace…»

«Ecco, volevo parlarti di questo.» Lena si passa una mano sulla nuca. «Cioè, non proprio di questo. Ha a che fare, con questo.»

«Dimmi.»

«Domani torno a casa.»

«Ah.» Corrado resta zitto un momento. «È successo qualcosa a tua madre?»

«No, no. Lei sta bene. Mio padre non fa che dirmi che se la cavano alla grande, senza di me.»

«E allora che fretta c’è? Voglio dire, alla scuola mancano un paio di settimane, no?»

«Sì, ma prima ci sono le riunioni degli insegnanti.» Lena si alza in piedi, come avesse bisogno di spazio. «Non è solo quello, comunque.»

«È colpa mia? Quello che ho fatto ieri, intendo. Per favore, lì sulla sedia a rotelle ci sono sigarette e accendino, me ne passi una?»

«Ma non avevi smesso?» Lena gli allunga le sigarette.

«Fumo meno», dice lui togliendo lo strato di plastica intorno al pacchetto.

«Comunque no, non è colpa tua.»

«Bene.» Corrado soffia fuori una lunga boccata di fumo. «Perché sai, io ho pensato che noi due potessimo…»

«No, non credo. Non possiamo.»

«Ho capito.» Si guarda i piedi, le caviglie smagrite. «Di’ la verità: non ti piaccio più, posso capirlo.» Lo dice in un soffio, come qualcosa che non sia riuscito a trattenere, pur avendoci provato.

«No, non è così. Mi piaci. E poi non ne farei una questione di desiderio, alla nostra età.»

«Non credo ci sia un’età giusta, per quello.» Corrado la fissa con il mento alzato, mentre lei guarda lontano, un punto imprecisato dove la strada fa una curva tra gli alberi e non si vede nient’altro.

«Mi piaci, se lo vuoi sapere.» Il tono è imbarazzato. «È che tu finirai la riabilitazione e tornerai al rifugio, mentre io tornerò a Obra, da mia madre, e ricomincerò a lavorare a scuola.»

Passa una coppia di anziani, lui sorregge lei, camminano lentamente.

«Be’, ma un modo lo troviamo. Se lo vogliamo, naturalmente.» Sulla sua faccia la luce che filtra tra i rami fronzuti disegna piccoli cerchiolini chiari. «Quello che dico è: stiamo a vedere. Possiamo provarci, non ce lo impedisce nessuno, non credi?» Corrado spegne la sigaretta sulla parte inferiore della panchina, poi mette il mozzicone vicino a sé. «Io sto bene con te, come con nessun altro. Non sono bravo a dire questo genere di cose, ma sei l’unica persona al mondo che preferisco alla solitudine.»

«No. Io non voglio più starti ad aspettare. È questo. Non voglio più farlo.» Lena raccoglie il mozzicone e fa qualche passo verso il cestino dell’immondizia, poi ritorna.

Corrado respira profondamente, come se cercasse di pescare qualcosa nei suoi pensieri finito troppo lontano, troppo in fondo. «Non è questione di aspettarmi. Sono cambiato, sai, da quando avevo vent’anni.»

«Già, infatti mi hai immediatamente chiamata quando ti è successo l’incidente in montagna.»

«No, ma lo avrei fatto.»

«Anche se non avessi più potuto camminare?»

«Be’, in quel caso…»

Lena si mette ben dritta di fronte a lui e lo guarda negli occhi. «Rispondi, mi avresti chiamata?»

Corrado tace per un po’. «Non ti meriti un uomo che non sia in grado di camminare. Sarei stato un supplizio.»

«Lo vedi? Cerchi di nuovo di capire cosa sia meglio per me, senza chiedermelo. È questo che intendo: abbiamo entrambi fantasmi con cui fare i conti. Forse tutti ne hanno. Ogni persona che abbia superato i vent’anni, almeno. Ma i nostri sono inconciliabili, ecco tutto.»

Corrado le afferra la mano, intreccia le proprie dita alle sue. «È la paura che ti fa parlare, Lena. Lo vedi? La paura che le cose non vadano come vuoi tu. Ma così non ci dai nessuna possibilità. È pazzesco: ti privi della possibilità di essere felice per il terrore di non esserlo. Forse dovresti solo accettare, una volta per tutte, che le cose vanno a modo loro, e non è detto sia peggio di quello che hai immaginato. Solo, diverso.»

Lena ritrae la mano. «Ho deciso. Se mi vuoi un po’ di bene non insistere.»

Tacciono entrambi. Una brezza gentile e tiepida si infila tra le foglie e produce un soffio rigenerante; se alzassero gli occhi al cielo, si accorgerebbero che il sole è stato inghiottito intero da una nuvola.

Lena guarda l’orologio. «Siamo in ritardo, hanno già cominciato il giro della cena scommetto.»

«Non ho molta fame.»

Lena si avvicina e gli offre un braccio per rimettersi sulla sedia a rotelle.

«Quindi? Non ci vediamo più?»

Lena è felice di essere alle sue spalle, e che lui non la veda negli occhi mentre gli risponde. «No, non dico questo. Tornerai a Obra. No? Prima o poi.»

«Già.» La sedia a rotelle sobbalza. «Può darsi.»

«E poi se avrai bisogno di qualcosa potrai chiamarmi e troverò il modo di raggiungerti.»

«Va bene.»

«Anche se so già che non lo farai.»

Il cielo sta scolorendo, tra poco sarà biancastro e poi comincerà a scurire. Là fuori ci sono soltanto loro due adesso, una donna che spinge un uomo sopra una sedia a rotelle verso l’ingresso dell’ospedale, in silenzio. Alcune finestre che affacciano sul parco sono già illuminate.

Quando Lena arriva a Obra è buio. C’è poca gente in giro per il paese – qualche ragazzino a fare le impennate con la bici, una mamma con un passeggino – mentre il grosso dei turisti è già tornato in città. Sente quasi freddo, adesso, dopo tutta quell’afa. Un freddo da brividi, come la sera di un giorno trascorso sotto il sole. Guarda in alto: ci sono le stelle. Se potesse, le cancellerebbe come si fa con un panno sulla lavagna. Le risuona nella testa una canzone che ha sentito alla radio mentre era in macchina, non ricorda il titolo. Vorrebbe mandar via anche quella.

Infila la chiave nella toppa e sale le scale in punta di piedi, ma il legno scricchiola. Quando è davanti alla porta della propria camera si sente chiamare. «Psst.» C’è suo padre sul pianerottolo sotto. Si abbracciano, poi entrano in cucina.

«Non hai fame? Ti preparo qualcosa», dice Aldo. La portafinestra è aperta ed entra un po’ di fresco, insieme al borbottio della fontana e alla luce del lampione.

«No, papà. Non ho fame per niente.»

«Qualcosa da bere?»

Lena non ha sete, ma nemmeno ha voglia di andarsene a letto.

«Mi fai un tè, magari?» chiede.

È il suo modo per dire al padre stai un po’ con me, come una volta gli chiedeva del latte caldo, la sera, per ritardare il momento in cui sarebbe dovuta andare a dormire.

Aldo lo sa, si mette ad armeggiare lentamente con la teiera, prepara le tazze con i piattini, come fosse un invito tra regine, prepara il vasetto con il miele di acacia regalatogli da Anselmo qualche giorno prima.

«Come sta la mamma?»

Aldo si volta mentre accende il gas, alza le spalle. «Così», dice. «Un giorno c’è, il giorno dopo no. Cosa vuoi farci. Ieri sera mi ha scambiato per suo padre. Altre volte si mette alla finestra, aspetta. L’altro mattino l’ho vista salutare con la mano, mi sono affacciato anche io e sotto non c’era nessuno. Ci sarebbe da ridere, quasi quasi.»

Lena guarda dentro la tazza che suo padre le mette davanti, infila un cucchiaino nel miele e lo lecca, mentre si sente sopraffare da un senso di colpa che la divora, per tutte le cose che sa, e suo padre no. Anche se non lo vorrebbe per nulla al mondo, si sente in qualche modo complice della madre, di quelle bugie trincerate per anni dietro un silenzio che si sta sgretolando sotto i colpi di piccone della sua malattia. Ora capisce che è questo, più di ogni altra cosa, questa forzata connivenza, a farle provare risentimento nei confronti di lei.

«Ehi, è tutto a posto?»

«Sì, sì. Sono solo un po’ stanca.»

Aldo arrotola le maniche della camicia a quadri. «Senti, dimmi di Corrado. Continua a fare progressi?»

«Eccome, secondo me tra qualche mese sarà come nuovo, se continua così.»

«E tornerai a trovarlo?»

Lena sa che questo è il modo di suo padre per capire come stanno le cose tra loro, quella domanda segna il limite oltre il quale il suo riserbo non gli permette di spingersi.

«Non credo, no.» Lena passa il dito sui riquadri della cerata che copre il tavolo. «Se la caverà benissimo da solo.»

Nel silenzio che viene, parla il borbottio dell’acqua nel bollitore, il rumore dei cucchiaini contro le tazze, il verso di una civetta che dev’essere di guardia sui rami del noce. Un’ora più tardi si danno la buonanotte e Lena sale le scale con qualcosa di caldo dentro lo stomaco.

Hanno chiacchierato di orsi, dei vicini di casa, delle cose successe mentre era via. Aldo ha raccontato degli ultimi avvistamenti sulla riva del Leno, di Anselmo e di una sua nuova fasciatura alla caviglia, dei turisti che sono quasi tutti andati via e del paese riconsegnato a una nuova quiete.

Del resto, domani è settembre.

«Non mi hai mai perdonato quella cosa.»

Lena e Dina sono sedute accanto al portico, spalla contro spalla. C’è una brezza leggera e insolitamente tiepida.

«Quale cosa, mamma?»

«Quelle poesie, il fatto che non mi piacessero.»

Lena alza le spalle. Di tutte le cose di cui avrebbe voglia adesso, l’ultima è intavolare una discussione con sua madre.

«Ma sì, mamma, non pensiamoci più. È passato tanto tempo.»

Per un po’ non parla nessuno, un’auto sale lungo la strada verso il paese, arriva qualche voce da lontano, una finestra che sbatte.

«E quel tuo amico?»

Lena sospira. «Corrado, intendi?»

«Sì, quello che sei andata a trovare.»

Lena era così felice che fino a quel momento Dina non le avesse chiesto niente; le sembrava già qualcosa, tutto sommato.

«Sta bene, grazie, molto meglio», dice, sperando che sia abbastanza. Prova a cambiare discorso, allunga il braccio per mostrarle le tracce di un’arvicola nell’orto di Anselmo.

Dina gioca con l’orlo della gonna verdina, non l’ascolta. «Come mai non sei restata lì con lui? Non ti ha voluta?»

È troppo. Senza dire una parola, senza spiegare, infuriarsi, sbraitare, si alza e va via. Lascia lì la madre, non si volta a guardare la faccia sorpresa che deve aver fatto per quel gesto di insubordinazione, o a spiarla da lontano per verificare se si sia nuovamente arenata in quel suo mondo di chiaroscuri, a frugare tra i ricordi con smania, come un povero fa con gli avanzi degli altri.

Arrivata a bordo torrente si toglie le scarpe e le calze, le sistema accanto alla piccola ansa che s’allarga sul sentiero prima di rituffarsi a valle in un tripudio di schizzi e riflessi, arrotola i jeans fin sotto al ginocchio e immerge i piedi in quell’acqua gelida, gelida in un modo che sembrano mille piccoli aghi conficcati dappertutto e dopo un attimo non senti le dita e se aspetti ancora non senti la caviglia e poi il polpaccio. Il sangue corre velocissimo da tutte le parti, e lei ancora resiste, pensando: “Al diavolo”.

Cammina sul vivagno del torrente, tra pietre bagnate e ciuffi d’erba, fissa l’acqua che scorre e, dopo poco, quella le sembra ferma e tutto ciò che sta intorno in movimento. “Al diavolo. Non sono stata capace di essere roccia che resiste al flusso né acqua in cammino che sappia la direzione”, pensa. “Sono stata ristagno, fondo limaccioso del lago che s’adegua agli scrosci e alla siccità. Qualcuno di passaggio con la barca ha pasturato gettando ami, arenicola e bigattini, e io ho abboccato, qualche istante di luce accecante prima del dolore dell’esca nella gola, e poi di nuovo il fondo. Cosa sarebbe stato peggio?”

Esce dal ruscello e tutto formicola, non ha gambe, ma arti fantasma. Anche l’assenza di Corrado è così, un’ombra brulicante di piccole esche che torneranno nel chiuso di un barattolo. Dimenticherà la superficie e la luce abbacinante del giorno. Deve solo dare tempo agli occhi di riabituarsi al buio.