La luce di settembre è un sottile filtro giallo.
Il mattino s’infila attraverso le cime aguzze delle Piccole Dolomiti come uno strumento di precisione, si sparpaglia tra le fronde degli alberi, batte sui vetri gentile, galleggia sull’acqua del torrente come piccole monete d’oro gettate lì da qualcuno. L’aria rinfresca e il verde dell’estate vira in tinte più tenui e calde, un giallo mite campisce il paesaggio e lo rende morbido e quando la sera scende tutto acquista la doratura torbida del brandy.
Si sono spenti i rumori che facevano i turisti, il cicaleccio sulla strada che dal villaggio sale in paese, davanti alla chiesa o alla cooperativa, intorno alla vecchia scuola nei giorni della festa. Delle voci estive rimangono indistinti echi e la valle è riconsegnata al silenzio di giorni ovattati. Caprioli e volpi tornano ad avvicinarsi alle case, si spande dall’alto il verso della poiana; sotto i valloni di pietra torna il fischio delle marmotte e la domenica mattina rimbomba lo scampanio delle chiese e ricorda ai fedeli l’appuntamento.
Dina passa sempre più tempo sul balcone, l’ombrellone adesso è aperto di rado perché basta un cappellino sulla testa, un cappellino blu con la visiera e la scritta Giants che Aldo insiste ogni volta per farle infilare. Sta con gli occhi puntati verso nessun luogo e spesso pare masticare qualcosa, al modo dei vecchi, ma a Lena quando la guarda viene in mente un animale al pascolo che anziché erba rumini ricordi, brandelli di passato che nessuna cucitura riesce più a tenere insieme.
Aldo ha cominciato a tagliare la legna per l’inverno. Aziona la motosega nel garage sotto casa e divide i lunghi pezzi di faggio e abete in ciocchi adatti alla stufa. Ogni tanto, quando sa che Lena è in casa e può badare alla moglie, va per funghi, il cesto sottobraccio e il bastone da passeggio. Al ritorno si ferma a parlare con Anselmo che smette di lavorare nell’orto e si appoggia alla vanga o a uno dei paletti che delimitano il suo fazzoletto di terra, mentre accanto a loro girandole di plastica usate come spaventapasseri roteano veloci quando si muove quel po’ di brezza. Ines esce con un vassoio su cui ha sistemato due tazzine di caffè e la zuccheriera e lo appoggia sul tavolo di legno, perché possano servirsi, poi sta lì anche lei a scambiare due parole. Guardando verso la bocca sopra la diga fanno congetture per indovinare il tempo che farà domani, la stellata o la pioggia della notte. Si aiutano con una stazione meteo rudimentale costruita da Anselmo: un sottile ramo di pino bianco con una estremità inchiodata a un’asse dello stesso legno posizionata parallelamente al terreno. L’interpretazione è semplice: quando il ramo si piega verso il basso il clima secco promette sole e quando si piega verso l’alto verrà a piovere.
Mentre i rami del noce ondeggiano e le girandole rispondono al vento, loro studiano il passaggio delle nubi, l’inclinazione del ramo di pino, come se il risultato delle loro previsioni cambiasse qualcosa. Poi Anselmo si passa le mani sulla tuta da lavoro e riprende la vanga. Quello è il segnale che la pausa è finita. Aldo lascia qualche fungo sul vassoio, se ne ha trovati, e torna a casa. Ines raccoglie le tazze vuote e rientra da Maria, che probabilmente dorme – ormai è questo che fa quasi sempre. Sale piano le scale e guarda nella penombra della stanza, sta ferma e zitta il tempo necessario per accertarsi che respiri.
Spesso passa di lì Agnese, chiama Lena perché scenda in cortile e insieme si siedono sul prato dietro casa a raccontarsi qualcosa. Sanno entrambe che con la ripresa della scuola si vedranno con meno assiduità e approfittano di questi ultimi scampoli d’estate per restare sdraiate al sole a provare a distrarre la malinconia e i cattivi pensieri. Parlano ancora degli orsi, della stagione del letargo per cui c’è parecchio da aspettare, anche se nessuna delle due saprebbe dire precisamente quanto. Agnese racconta di aver letto su qualche giornale che le case di alta montagna di un tempo avevano un buco sopra la porta d’ingresso; quando l’orso veniva a battere sul legno in cerca di cibo, gli tiravano addosso una bella dose di brace, per farlo andar via. Funzionava.
A Lena quella storia sembra più una fiaba per bambini o una scena dei fumetti, e si sforza di ridere perché sa che quel parlare di niente è il modo di Agnese di strapparla alla tristezza, è il modo di prendersi cura delle sue ferite. “C’è chi al posto di disinfettante e garze ha bisogno di parole”, pensa, “parole e storie e notizie che dicano altro, che raccontino tutta la vita che non ci riguarda e che pure continua, oltre i nostri buchi neri e il nostro dolore. C’è ancora giovinezza, anche se noi siamo vecchi, e salute, anche se siamo malati, e gente sguaiatamente innamorata, nonostante l’abbandono di cui ci sembrano intrisi i giorni. È stranamente confortante, qualche volta, rendersi conto che c’è così tanto al mondo, e noi siamo così poco.”
Lena ha ripreso le riunioni a scuola, gli incontri con preside e insegnanti per programmare il nuovo anno scolastico. Anche quello l’aiuta a distrarsi, quello e le lunghe camminate quasi quotidiane che ormai sono parte del suo modo per tenersi in equilibrio. Ogni tanto la sera scende dietro casa per godersi la pace di notti incredibilmente limpide, dove le stelle più piccole paiono polvere esplosa e seminata a spruzzo. Là in mezzo c’è tutto e Lena lo sa bene.
Ci sono le strade che avrebbe potuto imboccare, ognuna con un nome e una forma precisa, ognuna con una certa quantità di bene e di male che gliene sarebbe venuto. Quando non riesce a dormire fissa gli occhi lassù e prega di riuscire a lasciar perdere tutto quello che non è stato, capendo infine che ciò che più brucia non è desiderare qualcosa e non averla, ma averla ottenuta, anche per poco, e poi persa. Prega che i suoi occhi si riabituino finalmente al buio.
La scuola è ricominciata da una settimana quando, il sabato mattina, Lena sta ancora dormendo e sente battere con un certo vigore alla porta della propria stanza. Deve aver farfugliato un confuso «avanti» e sta ancora provando a capire cosa stia succedendo – e se qualcosa stia succedendo davvero o non sia piuttosto la coda di qualche sogno – quando Aldo entra nella stanza insieme a un odore di felci e terriccio e ritto in piedi davanti al letto cerca di dirle qualcosa mantenendo la calma.
«Non trovo la mamma.»
Lena si mette bruscamente a sedere. «In che senso non trovi la mamma?»
«Nel senso che non c’è.» Aldo si passa nervosamente una mano dietro il collo. «Nel senso che sono andato a funghi prestissimo stamattina. Mi sono svegliato e visto che non riuscivo a riaddormentarmi sono uscito. Sarò stato via un paio d’ore, due e mezzo al massimo e adesso lei non c’è.»
«Hai guardato bene?» Lena sta prendendo nell’armadio un paio di jeans e una maglietta da indossare in fretta.
«Certo. Cioè mi sembra di sì, di aver guardato dappertutto.»
«Cerca di non agitarti però. Sarà di sotto, o in qualche posto che non hai controllato.»
«Ci provo. Ti aspetto di sotto.»
Pochi minuti dopo stanno cercando insieme intorno alla casa. Lena percorre il prato a ridosso della valletta, cammina lungo il sentiero erboso e poi su, fino alla strada asfaltata. “Non può essersi allontanata troppo”, si dice, anche se il ricordo di quel giorno in cui l’aveva trovata nel bosco le fa crescere un’ansia difficile da controllare. Le viene in mente che una volta Agnese ha raccontato di aver perso Cristiano, quando aveva pochi anni: era sparito sulla spiaggia e aveva dovuto chiedere l’aiuto del bagnino e del gestore dei bagni. Alla fine lo avevano trovato rannicchiato in una cabina, intento a osservare uno strano insetto. Solo che qui non c’è nessuno a cui chiedere aiuto, le strade intorno sono tutte deserte.
«E adesso?» domanda a suo padre, di ritorno dalla cooperativa e dalla chiesa senza alcun risultato.
«Non lo so», dice lui aprendo un paio di bottoni della camicia, mentre gocce di sudore gli scivolano sulla fronte. «Guardiamo se ha portato via qualcosa dalla sua stanza.»
In camera è tutto intatto e anche in cucina, per quello che riescono a notare. Pare sia uscita un’altra volta in ciabatte – con il nuovo paio che Lena le aveva ricomprato – e camicia da notte.
«Chiamo la polizia, qualcuno», dice Lena guardando l’orologio. «Potrebbe essere uscita anche tre ore fa, a questo punto.»
«Aspetta, facciamo un ultimo tentativo da Maria, magari è da lei.»
Salgono le scale più rumorosamente di quanto farebbero abitualmente, Ines capisce subito che c’è qualcosa di strano e si affaccia sul pianerottolo fregandosi le mani sul grembiule. Quando le spiegano l’accaduto scuote il capo: «No, non l’ho vista. Sono rimasta in casa tutta la mattina».
Si affaccia sul retro della casa e urla in direzione del piccolo capanno dove il fratello sta trafficando intorno a qualcosa, forse sistemando uno degli attrezzi per il giardinaggio. Chiede se nei suoi giri in paese gli sia capitato per caso di incontrare Dina, ma quello fa segno di no, e in un attimo molla tutto e sale in cucina, per farsi spiegare.
Ines si offre di cercare nella zona del camposanto, Anselmo al villaggio e Lena, dopo aver avvisato il 112 della scomparsa, si dirige insieme al padre nel bosco vicino a casa. La giornata è incredibilmente calda per essere settembre, sembra quasi un errore del calendario. Loro due camminano in fretta e in alcuni tratti si dividono, sopra e sotto il sentiero, e la chiamano a gran voce. Incontrano l’uomo con il cane che quasi ogni giorno passa dietro alla loro casa, un ragazzone biondo con un bastardino dal pelo ispido, chiedono se per caso gli sia capitato di incontrare una donna così e così. Lo stesso con un anziano che si aggira solo, al braccio una busta di nylon attraverso cui si intravedono alcune mazze di tamburo. Scuotono la testa: «Mi spiace, no». Ma si fanno lasciare il numero di telefono, se per caso la incontrassero, non si sa mai. «La cerco anche io», dice il ragazzo con il cane, «non abbiamo molto da fare in ogni caso, vero?» e stropiccia la testa dell’animale con una carezza. «Butto un’occhiata nel bosco sotto Speccheri», dice l’uomo dei funghi, «stavo giusto andando da quella parte, ho un motivo in più per passarci.»
All’ora di pranzo Lena e suo padre sono di ritorno in paese senza aver risolto nulla. Hanno appuntamento con due carabinieri che li stanno aspettando davanti a casa al loro arrivo. Uno è alto e di stazza robusta, quasi completamente calvo e con un evidente tic nervoso a una spalla che solleva in continuazione. È accompagnato da un uomo più giovane e magro, con i capelli di un rosso acceso e un naso piuttosto prominente sopra un bel sorriso aperto.
Appena saliti in casa chiedono una fotografia di Dina, li interrogano riguardo le sue abitudini. «Usciva poco ultimamente», dice Aldo, guardando un punto in basso, tra le piastrelle, come cercasse di mettere a fuoco le idee. «Passava molto tempo qui, sul balcone», aggiunge indicando con un cenno del capo la portafinestra. Poi racconta della confusione della moglie, dei suoi problemi con la memoria, con l’orientamento, anche se Lena aveva già spiegato la situazione al telefono.
«Era già successo che si perdesse?» chiede il militare passandosi un dito sulla fronte lucida, mentre la spalla si alza con un piccolo scatto.
«Una volta, sì», dice Lena, «qualche settimana fa.»
«Capita spesso che resti a casa da sola?» chiede l’altro, con uno sguardo severo, che a Lena sembra di rimprovero.
«No, praticamente mai.» Guarda suo padre, ha paura che qualsiasi cosa dica possa venire interpretata male. «Non era più successo, da quella volta.»
I due uomini si scambiano un’occhiata e il giovane continua ad annotare qualcosa sul taccuino, tra le cui pagine ha inserito una foto di Dina di pochi anni prima: il mezzobusto di una donna alta con i capelli grigi, un binocolo al collo. Un attimo prima che Aldo gliela scattasse stava osservando con quello le vette squadrate del Pasubio.
I due fanno altre domande, da quante ore sia scomparsa, quanto cammini veloce, quanto secondo loro possa essersi allontanata nell’arco di quel periodo. Aldo mostra segni di impazienza, tutte quelle domande lo mettono a disagio e soprattutto gli sembra più utile uscire da lì e continuare le ricerche.
Per tutto il tempo della discussione sono rimasti in piedi accanto alla portafinestra, mentre un banco di nubi veloci a tratti copre e a tratti scopre il sole, proiettando le ombre fin dentro la stanza. Quando i due uomini se ne vanno, promettendo di dare inizio alle ricerche, Aldo e Lena escono nuovamente e si incamminano verso il bosco oltre la galleria, verso le Giare Larghe, là dove Lena aveva trovato la madre la prima volta che si era persa. I raggi del sole si infilano nella pineta e tra i rami dei faggi facendo somigliare il bosco a una specie di sontuosa cattedrale, ma padre e figlia non notano niente, nemmeno lo splendore delle prime foglie arancioni che stormiscono piano sopra le loro teste, nemmeno il richiamo della poiana che volteggia in un tratto di cielo non troppo distante da loro. Deviano continuamente dal tracciato principale, per paura che la donna abbia perso il senso dell’orientamento, o che magari incuriosita da qualcosa o da un movimento nel bosco, abbia abbandonato il sentiero.
Sono entrambi allenati ma presto hanno il fiatone, per via di quel caldo anomalo insieme all’agitazione che aumenta mano a mano che i minuti passano. Lena riceve continuamente telefonate da persone che hanno saputo la notizia e si mettono a disposizione per le ricerche. Tra le prime c’è stata Agnese, avvisata da Ines mentre scendeva verso il camposanto. Si è messa anche lei a perlustrare ogni tratto del paese e dei dintorni, insieme a Cristiano. Poco dopo ha chiamato Paolino, anche lui venuto a conoscenza della scomparsa, chissà da chi – Lena non ha il tempo né la lucidità mentale per registrare i dettagli. E poi il parroco del paese, il padre di Agnese, la ragazza che serve alla cooperativa e la sua vicina di casa, un paio di amici di Aldo, un altro che lavorava con lui in gioventù e ora si è trasferito dall’altra parte della valle. A ogni squillo del telefonino il cuore di Lena fa una capriola, per la speranza che qualcuno abbia notizie. Invece sono offerte di aiuto, consigli, parole di conforto.
A Lena torna in mente quell’alveare trovato settimane prima in soffitta, il ronzio degli insetti che sembrano muoversi in sincrono, a difesa della regina. Ora vede come somiglia a un alveare la vita di un piccolo paese dove tutti si conoscono e ognuno trova il modo di mettere in fermo la propria vita – le questioni irrisolte, i lavori in sospeso, le piccole e grandi incombenze quotidiane – per dare una mano, spendersi per l’altro, ciascuno per come riesce e come può. Quel giorno sua madre, senza saperlo, è l’ape regina.
A un certo punto Aldo intravede qualcosa muoversi sotto le fronde di un pino in un punto più alto del bosco. «Dina», urla. Si mette quasi a correre in quella direzione, nonostante la faticosa pendenza, annaspando, alzando foglie con gli scarponi, aghi di pino secchi e brandelli di muschio. Lena intravede una sagoma scura e sente le gambe cedere al pensiero che possa essere un orso, enorme e in agguato, nel folto della penombra.
Quando Aldo arriva vicino a quel punto, l’ombra si dissolve con un guizzo, salendo a poderosi balzi verso monte. Torna al sentiero con la testa bassa, le spalle curve, come se la moglie gli fosse sfuggita di sotto gli occhi. Tiene una mano sul petto e respira a fatica.
«Papà, così non va bene», dice lei allungandogli il braccio per aiutarlo a superare una radice che sporge dal terreno. «Adesso ti siedi qui, io non posso pensare anche a te se dovessi sentirti male.»
Aldo fa segno di sì dondolando la testa, ha finito il fiato nell’ultimo sforzo.
Si siedono su un tronco orizzontale, accanto a una radura ariosa. Pian piano il respiro di Aldo si regolarizza. «Possiamo andare adesso», dice.
«Non ci pensare nemmeno.» Il tono di Lena non ammette repliche. «La stanno cercando tutti, una breve pausa non farà la differenza.» Tira fuori una borraccia piena d’acqua che è riuscita a infilare in uno zainetto prima di uscire, gliela passa. «Bevi. Sei tutto sudato e pallido, ti tremano persino le mani.» Si passa un braccio sulla fronte. «E anche io non sono messa molto meglio, per cui, se non vuoi che venga un colpo a tutti e due, adesso ce ne stiamo qui buoni, almeno per un po’.» Lena stira una gamba dritta davanti a sé e ci allunga sopra la schiena, nel tentativo di distendere il muscolo.
«Non troppo però.»
«Il giusto.»
Lena beve a sua volta e guarda il cielo sopra le loro teste, azzurro e terso come topazio nella luce del primo pomeriggio. «Secondo me sta bene», dice. Ma mentre lo dice qualcosa la graffia in gola, all’improvviso, come un grumo di scoramento che non riesce più a salire né a scendere, mentre rivede sua madre sulla schiena di Corrado, le gambe lunghe a penzoloni, i piedi scalzi, le braccia strette forti intorno al suo collo, ultimo aggrappo alla vita.
Aldo si strige nelle spalle. «Speriamo. Secondo te cosa le prende quando fa così? Cosa le salta in testa?»
Lena sospira, come dire: e chi lo sa. Vorrebbe che i sassi, i sentieri, le bisce che fanno capolino dalle tane riprendessero a parlarle, la rassicurassero, le suggerissero qualcosa, un’indicazione, un consiglio. Vorrebbe tornare a sentirli.
«Questa notte, ora che mi ricordo, farfugliava nel sonno», dice Aldo. «Quando si è svegliata le ho chiesto come stava, perché fosse così agitata. “Faccio sempre lo stesso sogno”, mi ha detto. Ma non ha voluto spiegare altro.»
Lena adesso ha la sensazione di qualcosa che le stia dando la caccia, qualcosa che ha le sembianze di un cane con gli occhi rossi, accesi nella notte, due braci tra l’erba altissima di praterie sterminate. Si sente il verso di un uccello selvatico, da qualche parte, un richiamo stridulo e potente, e lei comincia a parlare, a dire tutto quello che sa riguardo Ettore e Dina, il loro essere amanti, il modo in cui lui l’ha lasciata, e come tutto questo ultimamente non le dia pace. Parla senza capire nemmeno perché, non precisamente almeno, e una parte di lei immagina che succeda proprio così a chi si getti nel vuoto, o compia qualche altro gesto sconsiderato: le cose pesano sempre più, lievitano poco alla volta fino quasi a togliere il respiro, fino a che non si trova un modo per tenerle a bada. Lei parla e non sa se lo fa per alleviare il proprio senso di colpa nei confronti del padre o per provare a capire la madre, per trovare in quei suoi ricordi indizi che la conducano da lei, o tutte queste cose insieme, o nessuna.
Aldo ascolta senza dire una parola, guardando per terra, bevendo un sorso d’acqua ogni tanto, socchiudendo gli occhi quando una nuvola scopre il sole e i raggi arrivano fino a lì. Quando Lena tace fa un respiro profondo. «Sapevo tutto.» Ha la voce di uno che abbia dovuto ritrovarla sul fondo di qualche mare. «Quasi tutto, per la verità.»
«Come sarebbe?»
«Non avevo idea di come si fossero lasciati, quello no.»
«E il resto lo sapevi?» Lena non sa se essere sollevata, o arrabbiata, o qualche altra cosa che non le viene in mente.
«Sì.»
«Non me ne hai mai parlato.»
«Avrei dovuto, secondo te?» Aldo si volta a guardarla, con gli occhi stretti, e sottili come bastoncini.
«Probabilmente no.»
«Lo credo anche io. Sono fatti di tua madre.» Aldo riflette per riuscire a dire le cose come vorrebbe dirle. «E miei, al limite.»
«Ma da quando lo sai?»
Aldo prende una foglia secca, se la rigira tra le dita, osservandone le venature sottili. «Ricordi quando stavo organizzando il viaggio in America? È stato allora, poco prima di quando saremmo dovuti partire, che ho trovato un diario di tua madre. Era nascosto bene, eh. Era nascosto in un posto dove pensava che non avrei mai guardato. Forse si era dimenticata persino lei che fosse lì. Comunque. L’ho trovato per caso e l’ho letto. Tua madre a quei tempi aveva la mania di annotare le cose. Era una malattia, quasi, come non potesse farne a meno, anche quando era pericoloso.»
Guarda un punto davanti a sé, dove cadono dritti fili di luce accendendo le foglie per terra in chiazze più chiare. «Forse da qualche parte dentro di sé sapeva che avrebbe dimenticato. Voleva salvare tutto quello che poteva, come quando sai che la tua casa sta per bruciare e porti via quello che riesci.»
«E non ti sei arrabbiato, non l’hai odiata?»
«Certo che mi sono arrabbiato. Eccome.» Aldo infila un’unghia nella venatura del tronco sotto di loro. «Ma a quel punto erano passati tanti anni, comunque.»
«Per quello hai annullato il viaggio?»
«Sì, per quello. Ero così arrabbiato, non sarebbe stato un bel viaggio.»
«Però a lei non hai detto niente.»
«No, le ho detto solo che non mi andava più di partire.»
«E basta? Per il resto tutto come prima?»
«Be’ tutto come prima non so. Probabilmente me ne sono stato sulle mie per un po’, sarò stato più del solito in giro per boschi, sarò venuto a casa di meno, cose così. È passato parecchio tempo anche da allora, ormai.»
«Sei riuscito a perdonarla, comunque.»
«Credo di sì, credo si possa dire così.» Aldo fissa Lena ma è come se la trapassasse e il suo sguardo arrivasse un bel pezzo dietro di lei. «Ma non mi sono posto la questione a quel modo. È passato, come il resto.»
«Però lei ti ha tradito.»
«Già, ha sbagliato. È questo che fanno gli uomini, e le donne, continuamente. Ma adesso siamo qui per riportarla a casa, e basta. Gli errori suoi, e i miei, sono rimasti indietro, insieme al resto.» Si passa le mani sui pantaloni, per scrollarsi di dosso qualcosa.
«E rifaresti tutto allo stesso modo?»
«Più o meno. Magari qualcosa lo cambierei, ma il grosso è quello. Non la lascerei, se è quello che vuoi sapere. E comunque in una coppia c’è sempre uno che ama di più. È naturale. Tra noi sono sicuramente io quello che ha più bisogno di lei, ma non è una cosa che mi spiaccia o mi faccia sentire meno qualcosa. È così e basta.»
Lena riflette, si guarda le mani. «Sai cosa non mi va proprio giù? Che ci avrebbe lasciati. Se le cose con quell’uomo avessero funzionato, voglio dire.»
«Mi avrebbe lasciato, casomai. Certo non te.»
Lena scuote la testa. «Anche me, invece.»
«Non lo avrebbe mai fatto. La conosco tua madre.»
«Dici? È sempre stata così, non so, lontana.»
«Quello è il modo in cui è fatta. Ma si può amare anche senza dirlo.»
«Già, però mi è mancato, che me lo dicesse. Che mi dicesse che mi vuol bene, o che valgo qualcosa. Che è fiera di me, che ne so, cose del genere.»
Aldo si mette a giocherellare con un ramoscello su cui si sta muovendo svelta una formica rossa. «Ricordi quando alle medie la tua insegnante di matematica ha detto davanti a tutti che non capisci nulla?»
«Sì che mi ricordo, ci ero rimasta male. Mi aveva dato della zucca vuota, più o meno.» Ride. «Però è vero che di matematica non ci ho mai capito molto.»
«Lo avevi raccontato una sera, mentre cenavamo. Tua madre non ha commentato, ha continuato a mangiare, in silenzio. Ma il giorno dopo è andata davanti a scuola ad aspettare la tua prof.»
«Davvero?»
«Le ha detto che andava bene tutto: votacci, compiti supplementari, note. Ma che non si permettesse mai più di dirti che non capisci. “Questo non deve più capitare”, le ha detto, “perché nessuno ha più cervello e cuore di mia figlia.” Ed è andata fino a Rovereto per dirglielo, due giorni prima di Natale, con la corriera e tutto.»
Lena infila un dito nel terreno muscoso. «Non ne ho mai saputo nulla.»
«È fatta così.» Aldo si passa una mano a pettine tra i capelli radi. «Non ti avrebbe mai lasciata. È solo che ognuno ama come può.» Si china, si allaccia più stretto uno scarpone. «Adesso dobbiamo proprio ricominciare a cercarla.»
Lena si carica lo zainetto sulle spalle dopo aver riempito nuovamente la borraccia a un ruscello poco distante e si rimettono in marcia. Saranno passati quindici o venti minuti al massimo da quando si sono fermati, ma nella testa di Lena è come fossero trascorsi anni, per come si sente frastornata.
Procedono su una cengia erbosa che per un breve tratto esce dal bosco, per rituffarcisi dopo pochi metri. Le creste delle montagne sporgono sopra le cime degli alberi. Padre e figlia camminano fianco a fianco in una pineta rada e luminosa.
«Se ci tieni a qualcuno, ma davvero, tutto il resto conta poco», dice Aldo. «Le cose che ha fatto o che non ha fatto, il modo in cui le ha fatte, tutta quella roba: conta davvero poco.»
Poi torna il silenzio e nella valle rimbombano soltanto i loro passi, il fischio di qualche uccello che si prepara a migrare e di tanto in tanto il nome Dina.
È tardo pomeriggio quando si rimettono sulla strada di casa. Hanno sentito poco prima il carabiniere più anziano: niente. Lena lo immagina con il cannocchiale appeso al collo, il telefonino tra la spalla e l’orecchio, la spalla che fa un piccolo scatto mentre scuote il capo e dice: «Niente».
«Ripassiamo un momento da casa», dice Lena, «decidiamo cosa fare e mangiamo qualcosa.»
«Non ho mica fame.» Aldo ha le spalle così curve che pare un vecchio pino sotto una nevicata.
«Nemmeno io, ma dobbiamo stare in piedi. È da ieri sera che non mangiamo un boccone.»
Ripercorrono i propri passi mentre soffici nuvole biancastre cominciano a farsi più dense sopra le loro teste. Istintivamente Aldo guarda nella direzione della bocca sopra la diga: è scuro laggiù, una densa foschia si spande verso il basso. Scuote il capo, ma non osa dire quello che sta pensando. Lena gli legge in faccia la paura e anche la rabbia verso quel bosco che ha amato tanto, a cui è stato fedele difendendolo dagli assalti dei taglialegna abusivi e senza regole, dall’irruenza dei ragazzini, dalla sfacciataggine dei turisti e dall’invadenza dei loro rifiuti; lo ha considerato casa e rifugio, un amico, e quello adesso gli nasconde ciò che di più caro ha al mondo. Questo pensa Lena e pensa anche che chiunque sulla terra dovrebbe avere di diritto accanto a sé una persona che, nelle avversità, abbia esattamente l’espressione di suo padre in quel momento.
Stanno salendo le scale di casa quando i primi tuoni si sentono rombare in lontananza, cani rabbiosi in cerca di battaglia.
«Non possiamo proprio fermarci», dice Aldo, pronto a fare dietro front e a uscire un’altra volta.
«Solo un panino, papà, per favore», insiste Lena, anticipandolo in cucina e rovistando rumorosamente nella dispensa per tirare fuori due pagnotte del giorno prima. «Facciamo in fretta», dice, mentre apre il frigo e tira fuori dello speck da infilare nel pane. «Li preparo e se vuoi li mangiamo andando. Tu va’ in bagno intanto.»
Ma solo una manciata di minuti più tardi, quando Aldo esce dal bagno e lei ha finito di imbottire i due panini e li ha messi in un sacchetto di carta marrone, un violento scroscio si abbatte sulla casa, e su tutto quello che sta intorno. I lampi sembrano picchiare a brevissima distanza; sciabolate bianche nel buio accendono pezzi della valle, macchie di alberi scuri, campi, e le case piccole in lontananza. Il vento frusta i rami, li piega in penitenza, solleva e fa turbinare le prime foglie cadute e addirittura sta portando in giro un ombrellone che qualcuno aveva lasciato aperto in un prato o su qualche balcone. Lo scroscio d’acqua fa un rumore così assordante da invadere la cucina, dove Lena ha dovuto accendere la luce, e la temperatura si è abbassata bruscamente.
Aldo è in piedi davanti alla portafinestra e osserva come ipnotizzato quel finimondo. Sembra aver finito le parole, forse persino i pensieri. Appoggia la testa allo stipite.
Lena gli si avvicina. Guarda il balcone lucidato dalla pioggia e pieno di rametti secchi e dei petali rossi del geranio sul davanzale e le sembra di vedere sua madre, lì seduta, lo sguardo assorto, sempre in attesa. D’improvviso – come uno di quei fulmini che ha appena spaccato il cielo in due parti – le viene in mente una cosa semplice che non aveva pensato prima. Una cosa così semplice, eppure così definitiva: potrebbe non rivederla più. Perché lo capisce soltanto adesso?
Tocca una spalla del padre. Sa che adesso spetta a lei fare coraggio, nonostante tutto. «Andrà bene», dice. «Il carabiniere ha detto che stanno continuando le ricerche.»
Aldo scuote la testa. «A mano a mano che passano le ore è sempre più difficile trovarla, lo sanno tutti che più si va avanti e peggio è.»
Si passa una mano sugli occhi, mentre un fulmine gli illumina una metà del viso. «E poi così...» Indica un punto in alto, la mano gli trema. «Sarà così spaventata.»
“Alla mamma piacciono i temporali”, vorrebbe dire Lena. Ma sa anche lei che è una sciocchezza bella e buona. «Andrà tutto bene», ripete.
Sentono battere alla porta. «Avanti», dicono, con il fiato sospeso.
«Abbiamo visto la luce e siamo passati a chiamarvi.»
Sul pianerottolo, coperti da impermeabili sgocciolanti, ci sono Anselmo, un po’ curvo con tutti i suoi acciacchi, il parroco del paese con un buffo cappello a tesa larga, il medico, più serio del solito, e un amico di Aldo che Lena conosce solo per soprannome. C’è anche il ragazzo con il cane che ha deciso di unirsi alla spedizione.
«Ci stiamo dividendo le zone da ricontrollare», dice Anselmo. «È meglio se decidiamo tutti insieme, non credete? Un paio di gruppi sono già andati.»
Mentre scendono le scale, Anselmo si avvicina a Lena e le stringe un braccio. «Forza.»
Lena lo guarda e annuisce, e sorride.
Pochi minuti dopo sono tutti in strada, ognuno a pattugliare una zona più o meno lontana, ognuno con gli scarponi pesanti di fango e i capelli fradici sulla fronte nonostante cappelli, ombrelli, impermeabili. Le persone si sono divise in gruppetti di due, tre o quattro, a seconda del territorio da perlustrare. Ormai è passato molto tempo dalla scomparsa e Dina potrebbe essersi allontanata in qualsiasi direzione. Il suo nome risuona da una parte all’altra della valle. Quando finalmente spiove si aggiunge altra gente alle ricerche, si sente persino il vociare allegro di bambini e ragazzi, che hanno preso quella sfida come un gioco o un’avventura eccezionale. A casa di Ines, che non può allontanarsi per non lasciare sola Maria, si è allestito uno spontaneo punto di incontro. In molti si fermano per avere notizie, venire aggiornati sui movimenti di tutti, riposare un momento e bere un caffè caldo, sempre pronto sulla stufa, e magari una grappa per prendere coraggio.
Qualche ora dopo il buio è definitivo. Lena, suo padre e Anselmo stanno perlustrando i prati e i boschi sopra la casa “del Gamba”, la vecchia tenuta di una famiglia australiana dove anni prima i ragazzini si ritrovavano a giocare a tennis o fare un tuffo in piscina. Lena si ferma un momento per rifiatare, appoggiata al bastone guarda giù, verso Obra e la valle. Il cielo è coperto, ci sono pochissime stelle. Sulle strade e nei prati sotto di loro si notano lampi fugaci: sono le torce delle persone che stanno cercando sua madre. Lena ha male ai piedi e alle gambe, lo stomaco in subbuglio, un braccio tutto graffiato per un passaggio tra i rovi e l’ansia che le pesa addosso come un coperchio. Eppure sa che quel buio sarebbe anche più spaventoso, sarebbe insopportabile senza quei piccoli grappoli di luci sparpagliati laggiù, come costellazioni in movimento.
Sono le dieci ormai passate, Aldo, Anselmo e Lena stanno marciando sul ciglio della strada asfaltata che scende verso casa. Il cielo si è un po’ schiarito dalla parte di Cima Cornetto ed è apparso uno spicchio di luna. Il vento continua a soffiare. I tre sono esausti e camminano in fila indiana, usando il fiato solo per ripetere il nome di Dina. Dina. Mamma. Tra i cespugli bassi, le bacche arancioni del sorbo uccellatore, lungo i pali della luce, a ridosso dei torrenti, dentro le pozzanghere e tra l’erba umida.
Lena si ferma, il suo telefono ha preso a suonare. Lo tira fuori dalla tasca: Agnese.
«L’abbiamo trovata, la stiamo portando a casa.»
«Come?»
«L’abbiamo trovata, venite a casa. È viva.»
Scendono i prati tagliando in verticale, tutti e tre quasi volando nonostante la stanchezza e il dolore alle gambe, ad ampi balzi come quelli degli animali selvatici che hanno sempre osservato di lontano, con il binocolo. Quando entrano in casa Dina è nella sua stanza e il dottore la sta visitando. In cucina ci sono Agnese e Cristiano, con le facce stravolte e gli occhi lucidi come specchi. Cristiano è seduto con le braccia e la testa appoggiate sul tavolo e Agnese, in piedi accanto al fornello, sta scaldando dell’acqua per riempire due boule, come le ha chiesto il dottore. Lena li abbraccia, poi insieme al padre si precipita nella stanza da letto. Dina è avvolta in una coperta calda, gli occhi sono cerchiati di rosso e sembra stia dormendo, la pelle sottile e pallidissima. Ha il respiro pesante, come se qualcosa le comprimesse lo sterno.
«Sta bene?» chiedono quasi all’unisono.
«Abbastanza.» Il dottore le prende il polso e lo stringe tra le dita, guardando un punto sul muro. Sta abbastanza bene, anche se ha preso un bel po’ di freddo. Bisogna tenerla al caldo, lasciarla dormire e domani, ma non prima, cercare di farle mangiare qualcosa di leggero e bere molta acqua. Per fortuna non ha preso il temporale, altrimenti non so come si sarebbe messa.»
«Grazie al cielo.»
«Già. Ha avuto fortuna. Agnese ha tirato fuori un po’ di roba calda dagli armadi e l’ha coperta bene. Domani mattina passo a vedere come sta. Adesso mi raccomando: tenerla al caldo e farla riposare.»
Lena accompagna il dottore fuori dalla stanza e quando rientra trova suo padre steso sul letto, accanto a Dina. Ha la testa tra i suoi capelli sparpagliati sul cuscino, gli occhi chiusi, e con un braccio, lieve, le cinge il busto e le spalle.