Fitte nuvole passavano nel cielo di Vienna. Grigie e pesanti, rispecchiavano l’atmosfera che dominava la città.
Mancava poco al crepuscolo, cosa che gli andava a fagiolo: ci sono faccende che è più semplice sbrigare nel rassicurante abbraccio dell’oscurità piuttosto che alla fredda evidenza del giorno.
Nemmeno durante la guerra la situazione degli approvvigionamenti era stata tanto pessima. I viveri restavano severamente razionati, scarpe e abiti erano merce rara e il tasso di disoccupazione aveva raggiunto nuove vette, a causa della gravissima carenza di carbone che aveva paralizzato le fabbriche di ferro e acciaio. A ogni angolo penuria e povertà: caffetterie e locande, per risparmiare elettricità, di sera venivano illuminate solo da puzzolenti lampade ad acetilene, i teatri restavano aperti per appena tre ore al giorno, e il tram circolava al massimo fino alle nove e mezza.
Faceva freddo per quel periodo dell’anno, un vento gelido soffiava tra le strette viuzze del primo distretto. Tirò su il bavero del cappotto e affondò le mani nelle tasche. Ciò che doveva fare non sarebbe stato una passeggiata, ma non aveva scelta. Avrebbe ucciso un uomo, salvando così un’intera nazione. A patto che tutto filasse liscio.
Le sue riflessioni vennero interrotte da una serie di colpi, e sollevò la testa.
Vide venirgli incontro una sagoma curva che tastava la strada con un bastone mentre si trascinava cauta sul selciato sconnesso – un cieco con indosso un’uniforme grigio-azzurra a brandelli, un ex soldato dell’esercito imperialregio senza dubbio.
Quando l’invalido lo oltrepassò la puzza della miseria gli invase il naso: un misto di sudore, alcol e barbabietole lesse. Lo seguì con lo sguardo, solo uno delle tante migliaia di bisognosi, e si sentì ancora più sicuro della sua decisione. Sì, ciò che stava per fare era giusto.
Le cose andavano male per il giovane stato. L’Austria stentava e languiva, e non si intravedeva la fine di quella situazione – soprattutto da quando, il giorno prima, anche l’ultimo spiraglio di luce si era spento.
In Germania, la rivoluzione di novembre era fallita. Il tentativo di colpo di stato che doveva rimpiazzare la Repubblica di Weimar con una dittatura militare era durato cento ore esatte, concluso da uno sciopero generale. Le forniture di gas, gli acquedotti e le centrali elettriche erano stati chiusi, le comunicazioni e i trasporti interrotti. La vita quotidiana nel vicino stato aveva subìto una battuta d’arresto, le sue sorti erano ormai fuori controllo. Agli eroici combattenti per la libertà non era rimasto che arrendersi.
Lo sapevano, i proletari, a cosa avrebbe condotto la loro resistenza? Per colpa loro non si sarebbe levato nessun vento nuovo, nessun governo pieno d’entusiasmo sarebbe giunto al potere per sostenere la fusione dei due Stati e opporsi a quella pace vergognosa e agli inauditi trattati imposti dalle potenze vincitrici. Tutto sarebbe rimasto com’era.
Inammissibile. Se si fosse andati avanti così sarebbe stata la fine per tutti.
Sempre più convinto di quanto stava per fare si affrettò per la stretta Himmelpfortgasse, rallentando solo una volta che ebbe oltrepassato l’ex palazzo d’inverno del principe Eugenio. Il gioiello barocco conservava la bellezza e la magnificenza dell’epoca che rappresentava, lo splendore della casata degli Asburgo si era invece spento. Al suo posto si era instaurata una miseranda repubblica incapace di garantire un futuro ai suoi cittadini.
Un futuro di cui però le persone avevano urgente bisogno. Nuove prospettive e un po’ di speranza – e adesso ci avrebbe pensato lui a procurarle.
Svoltò in Seilerstätte soffermandosi davanti al palazzo in cui abitava il consigliere Richard Fürst. Si guardò intorno, circospetto.
«Per Dio e la Patria» mormorò infine e suonò il campanello.