Te ne sei pentito?». L’ispettore distrettuale capo August Emmerich guardò dritto negli occhi il suo assistente, che gli sedeva di fronte, e si massaggiò il ginocchio destro. Una ferita di guerra gli stava irrigidendo sempre di più la gamba. Presto non sarebbe più stato in grado di piegarla, e anche i dolori non facevano che peggiorare.
«Di averla seguita qui alla sezione Omicidi?».
«Non dovresti rispondere alle mie domande con un’altra domanda». Emmerich si accese una sigaretta che aveva appena finito di arrotolare, l’unico lusso che si concedeva. «Avanti, rispondi: te ne sei pentito?».
Anziché replicare qualcosa, Ferdinand Winter lasciò vagare lo sguardo per quello che da tre mesi era il suo posto di lavoro. Mentre i funzionari da lungo tempo in servizio nella sezione Omicidi si dividevano un ufficio in due o tre nel commissariato di Roßauer Lände, lui ed Emmerich erano stati sistemati nella fureria insieme a segretarie e uscieri. Ufficialmente per mancanza di spazio. I veri motivi nessuno aveva voglia di dirli ad alta voce.
Emmerich osservò le altre scrivanie e le persone che vi sedevano, origliò i loro mormorii e lo scricchiolio di dure matite su carta da poco prezzo, e poi prese un profondo respiro. L’aria era stantia, satura di profumi di infimo ordine, sudore e nicotina. «Rispondimi».
Alcuni mesi fa, quando nonostante il suo parere contrario Winter gli era stato assegnato come assistente, Emmerich gli aveva dato regolarmente del tu in segno di scarso rispetto. E ora, nonostante il ragazzo si fosse abbondantemente dimostrato in gamba e meritasse senza dubbio alcuno di essere trattato come si doveva, l’ispettore continuava a rivolgerglisi in quel modo così informale perché ormai ci aveva fatto l’abitudine.
Winter teneva lo sguardo puntato a terra. Non era per niente bravo a mentire e non lo sarebbe mai diventato. Ci sono cose che non si possono imparare, o le si ha nel sangue o niente, e l’arte dell’imbroglio non gli era stata donata alla nascita. Tutt’altro. «Nessuno poteva immaginare che sarebbe stato così…» le sue palpebre batterono nervosamente mentre cercava un eufemismo più gentile, «così poco piacevole».
«Poco piacevole…» ripeté Emmerich. Dal suo tono era impossibile stabilire se si trattasse di un’affermazione o di una domanda. «Io, piuttosto, lo definirei…».
«Sssst!» con un furtivo cenno del capo Winter indicò un punto alle spalle di Emmerich e si spolverò nervosamente la fascia che gli sorreggeva il braccio.
Dopo il grave incidente dello scorso novembre doveva tenere a riposo il braccio sinistro. Per quanto ancora, lo sapeva solo Iddio. Il medico della polizia gli aveva prescritto riposo assoluto e Winter si atteneva con scrupolo a quelle istruzioni.
Anche un po’ troppo, per i gusti di Emmerich, che si passò a disagio la mano tra i capelli bruni e spettinati guardando dritto in faccia il pallido ispettore superiore scelto Peter Brühl, un tremendo pignolo che gli era sì superiore di grado, ma infinitamente inferiore in quanto a esperienze di vita.
Brühl sbatté una pila di carte sulla scrivania di Winter ed Emmerich – un tavolo vecchio e consunto sistemato nell’angolo più remoto della stanza, dove la luce del lampadario non arrivava e c’era sempre qualche spiffero. «I rapporti del caso Fürst. Da battere a macchina».
«Sono le cinque. Turno finito. Noi…».
«Ordini dell’ispettore capo Gonska». Brühl stroncò sul nascere le rimostranze di Emmerich e si passò la mano sui folti e lucenti capelli neri, pettinati con la riga da una parte e abbondantemente cosparsi di brillantina. «È urgente, dunque vi pregherei di sbrigarvi». Dato che Emmerich non reagì all’istante, l’ispettore superiore scelto si girò verso l’uomo alla scrivania accanto, e con uno sguardo pieno di significato accennò con le labbra a una parola.
Leo Papousek, un bellimbusto e leccapiedi incaricato dello smistamento della posta, annuì con aria saputa.
Brühl si strinse nelle spalle e fece per andarsene quando Emmerich schizzò in piedi e gli si piazzò davanti. «Me lo dica in faccia!».
«Non so di cosa stia parlando». L’ispettore superiore scelto esibì un ghigno, allargò le gambe e tese i muscoli.
Emmerich fece un passo avanti fino ad arrivare quasi a toccare col naso la punta del naso dell’altro. «Me lo dica in faccia!».
Brühl indietreggiò mentre il ghigno gli moriva sul viso. Nella stanza, fino a un attimo prima piena dei soliti rumori quotidiani, calò un silenzio tale che si riusciva a sentire distintamente il ticchettio dell’orologio a pendolo della stanza accanto. «Mi lasci in pace!».
«Crede che sia sordo? O stupido? Crede che non sappia come ci chiama, di nascosto?». Emmerich scosse la testa. «Come se lei fosse migliore di noi…».
Brühl tentò di aggirare Emmerich, ma questi gli sbarrò la strada. Alla fine l’ispettore superiore scelto perse le staffe: «Per la miseria» sputò con volto paonazzo «io sono migliore di voi. In questa sezione tutti lo sono. Per entrare qui dentro abbiamo dovuto superare test attitudinali severissimi e difficilissimi, che uno zoppo drogato e una patetica vittima di incidente non passerebbero mai e poi mai nella vita. Eravamo un’unità d’élite, il meglio del meglio. Finché Horvat… finché lui…».
In effetti Emmerich e Winter non si erano dovuti sottoporre ai complessi test che valutavano l’idoneità psicofisica degli aspiranti. Carl Horvat, precedente capo della sezione, li aveva entrambi accolti a bordo dopo che Emmerich, all’epoca ancora in forze alla polizia, aveva risolto un caso spinoso.
«Lo dica, avanti! Sputi il rospo!» Emmerich era ormai così vicino a Brühl da riuscire a sentire il suo alito caldo e acidulo.
«Finché Horvat non ha ingaggiato la brigata degli storpi!».
«Oh, visto? Non era poi così difficile». Emmerich rimosse degli immaginari pelucchi dalla giacca di Brühl e si fece da parte. «Ex drogato, per la precisione». Tornò con tutta calma alla scrivania, come se nulla fosse. «Adesso sono pulito». Purtroppo, aggiunse tra sé e sé.
In ogni singolo istante degli ultimi quattro mesi aveva sentito bisogno del consolante effetto della sostanza stupefacente. Avvertiva la mancanza del benefico torpore alla gamba e bramava la dolce voce dell’eroina che gli sussurrava all’orecchio che tutto sarebbe andato bene. Ma quella voce era svanita. Si era lasciato alle spalle una dolorosa disintossicazione e, se ci teneva a conservare il posto di lavoro, non poteva permettersi ricadute. Gli erano rimaste solo le sue amate sigarette, e un bicchierino di grappa ogni tanto.
Nell’ufficio il silenzio era ancora più profondo che in chiesa durante la funzione domenicale e fu solo quando un tonante «EMMERICH!» lo squarciò che la solita, intensa attività riprese nel giro di un attimo. L’ispettore Albrecht Gonska, capo della sezione, si stagliava sulla soglia con sguardo severo. «Che cosa significa questa insubordinazione?».
«Tutto a posto». Emmerich sapeva che mettersi contro Gonska non aveva senso, avrebbe solo peggiorato la situazione. Sebbene… poteva forse essere peggio di così? In fin dei conti, lui e Winter non si limitavano solo a condividere la stessa stanza con segretarie e uscieri, no, svolgevano anche le stesse mansioni.
Mentre gli altri funzionari della sezione da quattro giorni si dedicavano al sensazionale omicidio di Richard Fürst, un consigliere comunale benvoluto da tutti, lui e Winter dovevano preparare caffè, sistemare fascicoli e sbrigare commissioni. Lavori da idioti, ben al di sotto delle loro capacità, un vero spreco. Il suo più grande desiderio, quello di far parte prima o poi della sezione Omicidi, l’unità speciale che investigava sui più gravi delitti contro la persona, si era trasformato nel suo peggiore incubo. Emmerich non era fatto per il lavoro da ufficio; voleva dare la caccia ai criminali, e non di certo sulla carta.
Carl Horvat, l’uomo che gli aveva concesso quella promozione nonostante le sue menomazioni fisiche, era stato nominato vicecomandante delle forze di polizia. E da quando Gonska, il suo successore, aveva preso il comando il futuro aveva assunto tinte più fosche per Emmerich e Winter.
O per la “brigata degli storpi”, come li chiamavano.
A differenza di Horvat, Gonska e i suoi non consideravano Emmerich e Winter come detective qualificati, nonostante l’anno precedente avessero risolto un orribile caso di omicidi seriali. Per loro restavano uno storpio bastian contrario e un rammollito di primo pelo, che avevano soltanto avuto fortuna. Merce avariata, che non c’entrava nulla con l’efficiente sezione d’élite e che al massimo poteva occuparsi delle scartoffie. O fare da galoppini e dattilografe. Deficienti per lavori da deficienti.
A meno che non accadesse un miracolo, sarebbero rimasti per sempre a marcire lì insieme a Papousek e alle segretarie.
«Insomma, cosa sta aspettando ancora?». Gonska, un uomo imponente dalle spalle larghe e fedine alla Francesco Giuseppe, si erse in tutta la sua altezza e si aggiustò il panciotto dell’elegante completo. «Quei rapporti non si battono mica a macchina da soli».
Emmerich serrò le mascelle così forte che scricchiolarono. Era cresciuto in un orfanotrofio comunale, aveva trascorso anni per strada ed era approdato in polizia dopo molto tribolare. Proprio in virtù del suo difficile passato era abituato a sopportare le avversità senza lamentarsi. Fame, freddo, paura e dolore… erano tutte cose che riusciva a gestire. Le umiliazioni, però, proprio non riusciva a mandarle giù. Erano il suo tallone d’Achille emotivo, e se le cose non cambiavano alla svelta avrebbe finito per non rispondere più di se stesso.
Si sedette di nuovo alla scrivania dando le spalle a Gonska e Brühl e con le ultime braci del mozzicone si accese un’altra sigaretta. «Io ne sono pentito» sussurrò al suo assistente, che aveva già iniziato a trascrivere i rapporti. Con una sola mano.
Winter non rispose. Si fermò a metà di un movimento, guardando oltre Emmerich con aria imbambolata.
«Che altro c’è, adesso?». Emmerich si voltò, aspettandosi qualche nuova malignità da parte di Brühl e pertanto rimase ancora più stupito quando sulla soglia vide un’elegante signora. Indossava un abito blu zaffiro, scarpe col tacco in tinta e una pelliccia. A completare la mise, un cappello dalla falda così ampia da lasciarle i tratti del viso completamente in ombra e renderla quasi irriconoscibile; ma quel poco che si riusciva a vedere induceva a concludere che fosse bella da mozzare il fiato.
«Vorrei vedere il comandante». Il suo modo di parlare, con voce nasale e scandendo bene le parole, non lasciava dubbi sul fatto che facesse parte dell’alta società. La voce tremante, d’altro canto, tradiva un certo turbamento. Piuttosto intenso.
«È Rita Haidrich» sussurrò Winter.
«E chi sarebbe?». Emmerich fece un lungo tiro dalla sigaretta e osservò la giovane donna. Avrebbe scommesso tutti i suoi averi sul fatto che fosse una tremenda egocentrica. Insomma, non il tipo di persona che lui prediligeva.
«L’attrice». Winter era arrossito in preda a una sincera emozione. Senza perderla di vista neanche per un attimo si diede una rassettata ai capelli biondissimi e alla giacca di velluto a coste beige. «Ha interpretato Elettra al Burgtheater».
«Puah, il Burgtheater… è buono solo per i…» Emmerich trattenne la parola che aveva sulla punta della lingua. Ormai si era così abituato a quel ragazzino che sempre più spesso dimenticava le sue origini altolocate. Winter veniva da una famiglia nobile ed era approdato in polizia solo in seguito a una concatenazione di tragiche fatalità. Prima l’influenza spagnola, che gli aveva falcidiato la famiglia, poi la guerra, che si era mangiata il patrimonio della casata, e infine la legge per l’abolizione della nobiltà, che gli aveva tolto il titolo. Ciò che restava era un giovane uomo, incredibilmente gentile e spaventosamente ingenuo, che adesso doveva confrontarsi con la vita. La vita vera.
«Questo mese la Haidrich era in copertina su Filmwelt, ma nessuna foto le rende giustizia» continuò Winter, zelante.
Emmerich soffiò una nuvola di fumo nella sua direzione e tossì. «E ti pare che una cosa del genere possa mai interessarmi?».
Winter ignorò il commento. «Chissà che ci fa qui… Forse sa qualcosa sull’omicidio del consigliere comunale Fürst?» speculò.
«Certo, come no! Probabilmente le è scappato il cagnolino, o la cameriera le ha fatto sparire qualcosa. Insomma, problemi da gente ricca». Emmerich si incastrò la sigaretta all’angolo della bocca e sistemò un foglio di carta nella macchina da scrivere.
«Credo che si tratti di qualcosa di più grosso. In fin dei conti siamo alla sezione Omicidi».
«Sbagliato» grugnì Emmerich. «Siamo all’inferno».
«Emmerich!». Nel giro di poco Brühl si era materializzato di nuovo accanto alla sua scrivania, il suo ghigno non lasciava presagire niente di buono. «Emmerich!» ripeté a voce ancora più alta.
«Non sono mica sordo!» Emmerich, che stava battendo a macchina la deposizione di un testimone, pigiò così forte la lettera F che il martelletto rimase attaccato al foglio.
«Da Gonska. Subito».
Emmerich alzò gli occhi al cielo e si mise in piedi. Immediatamente, il dolore deflagrò nel ginocchio. Represse un gemito e, sotto lo sguardo curioso degli altri, attraversò la stanza cercando di mantenere un portamento il più eretto possibile.
Zoppicando lungo le porte in noce marrone scuro dietro le quali lavoravano i suoi colleghi si accese un’altra sigaretta. Lavoravano sul serio. Dagli uffici trapelava un mormorio eccitato. Erano in caccia.
Detestava quella sezione, dopo che per tanto tempo aveva anelato a farne parte. Avrebbe più che volentieri voltato le spalle a quella manica di arroganti, ma non poteva. Durante la guerra l’economia era andata a rotoli, non c’era lavoro. Il suo vecchio posto da agente di polizia era stato già preso da qualcun altro, e nessuno aveva bisogno di un invalido. Un menomato. Uno storpio. Ricordava bene la fame e la mancanza di un tetto sopra la testa, e questo lo tratteneva dal darsela a gambe il più presto possibile.
Emmerich scansò un collega della Scientifica che si dirigeva verso l’ufficio di Brühl carico di faldoni, e senza bussare entrò nell’ampia stanza del suo superiore. Lì dentro – al contrario della stanza in cui stava con Winter – c’era sempre un bel calduccio e un gradevole silenzio. Le pareti erano rivestite di un’elegante tappezzeria e sul raffinato parquet in rovere c’era uno spesso tappeto beige. Un lampadario d’ottone a tre bracci in stile liberty sembrava infischiarsene della scarsità d’energia elettrica che vigeva in città e inondava la stanza di una luce soffusa.
«Ispettore Emmerich, eccola qui». Gonska, seduto dietro un massiccio secrétaire, spalancò le braccia con un gran sorriso, come se pochi minuti prima non gli avesse fatto la paternale.
Emmerich sentì subito puzza di bruciato. Qualcosa non quadrava. Neanche un po’. Poi lo sguardo di Emmerich cadde sulla bella attrice, che Winter sembrava ammirare tanto.
«Si segga, prego». Gonska indicò una sedia. «Le presento Rita Haidrich. Di sicuro la conosce per uno dei suoi pregevolissimi ruoli al Burgtheater».
Emmerich prese posto e si tolse un residuo di tabacco dal labbro superiore. «Ma certo» disse in tono lievemente sarcastico, «i miei omaggi». Fissò la mano che la donna gli porgeva. Confuso, la strinse e la scosse.
La Haidrich storse il naso e Gonska si schiarì la gola.
«Al di là delle pessime maniere, l’ispettore Emmerich è uno dei nostri migliori uomini. È in ottime mani».
Emmerich realizzò troppo tardi che un baciamano sarebbe stato il saluto più adeguato, e si appoggiò allo schienale. L’etichetta dell’aristocrazia gli sembrava assolutamente superflua. Altro che espressione di educazione: serviva semplicemente a distinguersi dal popolino. Lui non ci stava, se ne infischiava di fare bella figura.
Rita Haidrich era ancora molto giovane, al massimo sui venticinque anni, e in effetti era estremamente attraente – se piaceva quel tipo di donna. Lui preferiva le bellezze più naturali e discrete – come la sua Luise.
Al dolore nella gamba si aggiunse una morsa al petto. Non è più la tua Luise, si ricordò, adesso appartiene a qualcun altro. Xaver Koch, il marito di Luise, risultava caduto in guerra ed era stato Emmerich a occuparsi di lei e dei suoi figli, diventando un premuroso padre di famiglia e un amorevole compagno di vita. Poi, senza alcun preavviso, Xaver era tornato dalla prigionia e la profonda fede di Luise non le aveva permesso di separarsi dal legittimo marito. Con grande dolore di Emmerich. «Voglio solo te» gli aveva giurato tra le lacrime, «ma ho fatto un giuramento, davanti a Dio e alla Chiesa. Devo tornare con lui».
Maledetto cattolicesimo. I signori del cielo dovevano essere aboliti come quelli della corte. Si sarebbe mai rassegnato all’idea di aver perso il suo grande amore? Mai, gridò una voce nella sua testa, ed Emmerich tentò di distrarsi riportando l’attenzione sulla giovane donna. Sfoggiava un rossetto rosso scuro, e un colorito aristocratico, pallido, quasi traslucido, tipico della gente che non aveva mai dovuto lavorare per sopravvivere. I capelli color sabbia erano acconciati in onde perfette. Era l’emblema della purezza – solo le profonde occhiaie stonavano con l’immagine generale.
«La signora Haidrich ha un problema, e lei, Emmerich, può aiutarla a risolverlo». Con un cenno della mano Gonska invitò l’attrice a spiegare a Emmerich cosa ci si aspettasse da lui.
«Sono in pericolo». Lo guardò dritto negli occhi e sottolineò quelle parole stringendosi una mano sulla gola.
Per un breve momento i cupi pensieri di Emmerich vennero illuminati da un barlume di speranza, e l’ispettore si raddrizzò sulla sedia. Forse Winter ci aveva visto giusto? Forse quella donna sapeva qualcosa sull’omicidio di Fürst, il consigliere comunale? Qualcosa che poteva rappresentare per lei una minaccia? E, in caso affermativo, la sua presenza nell’ufficio di Gonska significava che finalmente anche lui sarebbe stato coinvolto nelle indagini?
Uno sguardo al suo superiore infranse quel sogno sul nascere. Emmerich si accorse che, per qualche strana ragione, Gonska faticava a mantenere un contegno. La bocca accennava un sorriso, e il labbro superiore gli tremava come se fosse sul punto di scoppiare a ridere. Indipendentemente da quale fosse la ragione di tanto divertimento, era di sicuro a spese di Emmerich, che dunque si abbandonò di nuovo contro lo schienale della sedia, accavallò le gambe e incrociò le braccia sul petto. «La ascolto».
La Haidrich inspirò profondamente, poi espirò e si sporse verso di lui. «Si tratta di una maledizione» disse in un sussurro quasi impercettibile.
Gonska tossicchiò ed Emmerich credette di non aver sentito bene. «Come, prego?».
«Pandora, il nuovo film di cui sono protagonista, è stato colpito da una maledizione. Temo che presto succederà qualcosa di brutto».
Emmerich la fissava senza proferire parola.
«Capisce?».
«Ma certo». Capiva benissimo. Quella donna aveva problemi psichici oppure era in cerca di attenzioni. O più verosimilmente, entrambe le cose.
Che non avesse sentito, o non avesse voluto sentire, il tono cinico di Emmerich, la donna proseguì imperturbabile. «Quando abbiamo iniziato le riprese a un certo punto negli studi si è presentata una donna inquietante. Ha gettato una maledizione sul film. E da allora si sono susseguite una catastrofe dopo l’altra. Incidenti, malattie… bisogna porre fine a tutto questo. Mercoledì gireremo la grande scena finale, e giovedì organizzerò un ballo molto importante. E assolutamente non deve succedere niente».
«E secondo lei io cosa dovrei fare? Sono un funzionario di polizia, non certo un esorcista».
«Gli esorcismi non sono serviti a niente. Ho già provato».
«Ma…» Emmerich era a corto di parole.
«Siete addestrati a seguire indizi e rintracciare persone, no? Allora trovi quella donna! La costringa a ritirare la maledizione!».
Emmerich si grattò la testa e fissò Rita Haidrich. «Sta dicendo sul serio, vero?».
Lei annuì. «È come se quella strega avesse davvero scoperchiato il vaso di Pandora. Stanno accadendo cose inspiegabili. Cose brutte. Glielo giuro, sul film aleggia una maledizione».
Emmerich faticava a trattenersi. «Mi ascolti…». Parlò con lentezza e scandendo bene ogni parola, come rivolgendosi a un bambino cocciuto. «Sono certo che il problema si risolverà anche senza il mio intervento. Quella donna inquietante si farà viva presto e proporrà di rimangiarsi la maledizione – in cambio di una bella sommetta».
Haidrich si mise le mani in grembo e cominciò a stuzzicarsi le pellicine. «Però lei…» tentò di ribattere, ma Emmerich le fece cenno di tacere.
«Bugiardi e imbroglioni, che si spacciano per santoni o indovini, spuntano fuori come funghi da quando è iniziata la guerra. Si fidi: prima ero agente di polizia e non c’era settimana in cui non arrestavo ciarlatani che vendevano immaginette di santi o promettevano ai parenti in lutto di metterli in contatto con il caro estinto nell’aldilà. Baggianate, ovviamente. Sono truffatori senza scrupoli, che vogliono trarre profitto dalle paure e dal dolore delle persone».
La Haidrich scosse la testa con tale veemenza che la bella acconciatura sembrò sul punto di disfarsi. «Non sono la sciocca ingenua che lei crede». Ignorò la ciocca che si era sciolta ricadendole sulla fronte. «Anche io all’inizio ho bollato tutto come idiozie belle e buone, ma poi sono successe proprio le cose che quella donna aveva evocato».
«Illusioni. È di questo che vivono, quelle persone».
«Non le sto parlando di semplici giochetti da prestigiatore» insisté l’attrice.
Emmerich sospirò e gettò a Gonska uno sguardo nervoso. «E allora di cosa?».
«Di magia nera, stregoneria… ricordo precisamente le parole che ha usato quella donna. Non le dimenticherò mai, finché avrò vita». Chiuse gli occhi e prese alcuni profondi respiri. «Belzebù, Leviatano, Lilith, Marduk: ascoltate! Dolori, malattie e tormenti scatenate. Ciascun giorno di sventura colmate» recitò. «Acque, inondate! Fiamme, devastate! Terre, tremate! Venti, infuriate! Morte e malora a chi Dio disonora».
Emmerich fece spallucce. «Quella gente si inventa sempre filastrocche per accalappiare le vittime. Di certo nel farlo avrà agitato le braccia in aria come una matta, rovesciando gli occhi all’indietro. E poi avrà sputato per terra. Anche una certa teatralità è parte integrante della loro truffa. E proprio lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro».
«Niente» gridò la Haidrich così forte che Gonska sussultò. «Non ha fatto niente di tutto ciò. Ha pronunciato quelle parole con estrema calma e poi è sparita. E il giorno dopo è iniziato tutto: prima sono spariti importanti oggetti di scena, poi due miei colleghi si sono gravemente ammalati, e infine un riflettore è caduto sopra uno dei tecnici. Problemi, malattie, tormenti. Capisce? Una settimana più tardi si è rotta una tubatura, allagando gli studi, e oggi…». Rita Haidrich si alzò, sollevò l’orlo del vestito e mostrò a Emmerich la parte inferiore della gamba, fasciata. «Oggi, nel bel mezzo di una scena, il set ha iniziato a bruciare. Così, dal nulla».
«Semplici coincidenze» mormorò Emmerich fissando Gonska con un sopracciglio sollevato. «E così dovrei andare a fondo di una maledizione. È questo che lei…?».
Gonska rispose sbattendo una mano sul tavolo. «Basta così, Emmerich! Faccia ciò che la signora Haidrich si aspetta da lei. Rintracci quella donna e metta fine a questa storia».
«Venga subito con me» propose Rita Haidrich. «Tra mezz’ora inizia una soirée per la stampa e i finanziatori, ed è molto probabile che la strega colpisca ancora».
«Ci può lasciare un momento da soli?» disse Emmerich con voce soffocata. «Devo conferire brevemente col mio superiore, una questione di lavoro. Mi aspetti pure all’ingresso».
Cercò un posacenere e, non avendolo trovato, si risolse a spegnere il mozzicone in uno dei vasi di fiori sul davanzale.
La giovane donna non sembrò particolarmente contenta e indugiò un po’ prima di alzarsi. «Se proprio non può fare altrimenti».
Gonska fece un cenno all’indirizzo di Rita Haidrich, Emmerich la accompagnò alla porta e la richiuse in fretta. «Non può fare sul serio» sbottò. «Dovrei fare gli straordinari e giocare alla caccia alle streghe per far contenta questa eccentrica gentildonna? Pensavo di lavorare per la sezione Omicidi, non per l’Inquisizione spagnola».
«Adesso non ne faccia una tragedia, Emmerich. Quell’eccentrica gentildonna, come l’ha chiamata lei, è la figlia di Victor Haidrich. Quel Victor Haidrich. Il magnate dell’immobiliare, nonché intimo amico del capo della polizia. Anche io trovo la sua richiesta alquanto assurda, ma non posso mandarla via come se niente fosse».
Emmerich sedette nuovamente e appoggiò il gomito sulla scrivania. «E perché devo essere proprio io a beccarmi quest’incarico imbarazzante? Sono un funzionario di polizia più che capace. E questo lei lo sa benissimo». Solo quando un tiepido sapore metallico gli si diffuse in bocca si rese conto di essersi morso a sangue il labbro inferiore.
Gonska si raddrizzò e sospirò. «E cosa dovrei fare, secondo lei? Il resto della sezione sta lavorando al caso Fürst, ed è importante accontentare la signora Haidrich. Il padre può crearci grossi grattacapi. Si dia un contegno, trovi la donna, e a posto così. Ho già abbastanza rogne per lo stallo nelle indagini sull’omicidio Fürst».
Emmerich tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di tabacco e cominciò a rullarsi una sigaretta.
Gonska sbuffò, poi riprese: «Qualcosa che non quadra deve pur esserci, in questa faccenda. Scopra di che si tratta, così ci lasceranno in pace».
Emmerich si accese la sigaretta e aspirò un lungo tiro. «Va bene. Me ne occupo io, ma a una condizione: se riesco a risolvere il caso, voglio essere immediatamente coinvolto, insieme a Winter, nelle indagini sul caso Fürst. E non come dattilografo».
Gonska aggrottò la fronte, come faceva ogni volta che si innervosiva. «Adesso sta diventando insolente, Emmerich. La sua impertinenza è del tutto inopportuna». Si sporse sopra la scrivania, tolse a Emmerich la sigaretta dalla bocca, si alzò, aprì la finestra e la gettò fuori. «E sia» disse alla fine. «Esigo però che in presenza della signora Haidrich lei mostri il suo lato migliore. La nostra sezione ha una reputazione da difendere, in fin dei conti!».
Emmerich annuì. «Siamo d’accordo, allora?».
Gonska sbuffò nuovamente. «Sì, e ora fuori, prima che ci ripensi».
Senza perdere un solo istante Emmerich aveva già aperto la porta. «E che non mi arrivi all’orecchio nessuna lamentela! Altrimenti può scordarsi all’istante il nostro accordo» fu l’ultima cosa che udì prima di chiudersi la porta alle spalle e zoppicò verso la sua scrivania.
«Oggi si resta in servizio. Abbiamo un incarico» disse a Winter, che sedeva alla scrivania con un sorriso stampato in faccia.
Gli occhi dell’assistente brillavano, sembrava quasi felice. Erano settimane che Emmerich non lo vedeva così. «Allora è vero? Possiamo passare un po’ di tempo con Rita Haidrich?».
«Dobbiamo, Winter, dobbiamo. “Possiamo” non è certo la parola giusta. Ci sta aspettando all’ingresso».