Mi ha cercato qualcuno?» chiese Emmerich una volta rientrato in ufficio.
«No». Winter aveva il sollievo dipinto in viso. «Niente Brühl, niente bugie, niente problemi». Guardò Papousek, che sembrava anche troppo tranquillo, e si sporse al di sopra della scrivania. «Com’è andato il colloquio?» sussurrò.
Emmerich ispezionò il posacenere alla ricerca di una cicca da fumare. Che idiota era stato a finire così in fretta il pacchetto di Nil. «Deprimente. Dobbiamo tirare fuori quel povero diavolo il più presto possibile. Non durerà a lungo, in galera». Aveva trovato una cicca passabile, ne scosse via la cenere e se la mise in bocca. Quando Papousek storse il naso Emmerich gli scoccò un’occhiataccia. «C’è qualcuno a cui dovremmo fare un paio di domande» disse sottovoce rivolgendosi di nuovo a Winter e indicando l’uscita. «Mettiti il cappotto e andiamo».
«Ehi, dove credete di andare?» gridò Papousek quando li vide allontanarsi.
Emmerich finse di non averlo sentito e si diresse verso le tre rampe di scalone a chiocciola, abbellito da colonne, che conduceva al pianoterra.
Winter gli andò dietro. «Il signor Navratil le ha dato qualche indicazione utile?».
«Non in maniera diretta, ma pare che il consigliere comunale non fosse così immacolato come pensano tutti».
Attraversarono il vestibolo circolare e uscirono.
Investito da una folata di vento gelido proveniente dal canale del Danubio Winter si strinse nel cappotto e guardò a occhi sbarrati il suo superiore. «Davvero?».
«Davvero». Emmerich si fermò un attimo. Riaccendere la cicca controvento non era per niente facile. «Pare che Fürst avesse contatti con Karl Dobrensky» disse quando finalmente fu riuscito nell’impresa ed ebbe preso una lunga boccata.
Winter lo guardò interrogativo.
«Non conosci Dobrensky?». Emmerich non sapeva se biasimarlo per questo, o considerarlo un merito. «Dobrensky, il pappone-spacciatore-ricettatore?».
Winter ci pensò su un attimo. «Forse Fürst voleva aiutarlo a tornare sulla retta via».
Emmerich scoppiò a ridere. «Io penso piuttosto che fosse il contrario, ovvero che Dobrensky aveva portato Fürst sulla cattiva strada. Resta solo da capire quale fosse il peccato».
Winter intuì dove stavano andando a parare. «E dove possiamo trovare questo Dobrensky?».
«Dove si trovano la maggior parte dei mascalzoni. Alla spianata dei fuochi d’artificio».
Dobrensky aveva scontato una lunga detenzione per reati vari e da un annetto era di nuovo a piede libero. Gestiva l’osteria Zum Schönen Harri: apparentemente, un’attività del tutto legale e secondo le regole, ma Emmerich nutriva qualche dubbio in proposito.
Winter aveva fermato al volo una vettura a noleggio ed Emmerich si issò a fatica sul predellino. «Ausstellungsstraße» disse al vetturino attraverso la finestrella e si lasciò cadere sul sedile in pelle imbottito.
L’uomo annuì e fece schioccare le redini.
Ausstellungsstraße, che dalla stella del Prater si dipartiva verso est, era un ampio viale battezzato così in onore dell’esposizione universale del 1873. A sud del viale sorgeva il cosiddetto Wurstelprater, un noto parco di divertimenti. E mentre lì innocenti strutture come la grande ruota panoramica, bancarelle, montagne russe e cinema assicuravano il divertimento del popolo, i passatempi a nord del viale erano di ben altro tenore. Droghe, puttane, giochi d’azzardo… in breve, tutto ciò che era vietato.
«Siamo arrivati, signori». Dopo essere stato pagato il vetturino annuì con fare saputo mentre i clienti scendevano dalla carrozza. «Buon divertimento e attenti a non beccarvi niente!». Poi schioccò la lingua per far ripartire il cavallo.
Benché Emmerich e Winter si allontanassero sempre più dal luna park, era impossibile non sentire il rumore del Prater. Era iniziata l’alta stagione e l’area era satura di musica da operetta, organi a manovella e urla dei venditori ambulanti.
«Da questa parte, signore e signori! Da questa parte! Regalatevi un’emozione unica! Entrate e non ve ne pentirete!».
A nord di Ausstellungsstraße non c’erano bancarelle variopinte e attrazioni eccitanti, ma solo edifici diroccati con finestre dai vetri rotti e ratti morti. Man mano che si inoltravano in quell’area losca oltrepassavano mendicanti avvolti in stracci che esibivano zozzi moncherini di braccia e gambe come trofei e donnacce di ogni età che facevano profferte indecenti. L’aria era una nube d’alcol e davanti a una spelonca un tizio steso a terra nel proprio vomito parlava da solo.
«Ecco, dev’essere qui. Osteria Zum Schönen Harri». Winter indicò un’insegna sbiadita che aveva conosciuto tempi migliori. Al disotto, appese un po’ storte in una vetrina, fotografie inequivocabili per attirare gli uomini di passaggio: gambe magre in calze di seta, seni pallidi coperti da merletti trasparenti.
«Potrebbe piacerti» sogghignò Emmerich facendo arrossire Winter. «Ma devo deluderti. Siamo arrivati». Indicò una porticina di legno scuro lì accanto, quasi invisibile.
«Ha un’aria innocente».
«Mai fidarsi delle apparenze». Emmerich spalancò la porta.
Nell’osteria Zum Schönen Harri l’atmosfera era impregnata di alcol. I tavoli e le panche, molto rustici, erano quasi deserti, solo quattro uomini dall’aria trascurata erano seduti in un angolo, alle prese con una partita a Stoß, un gioco di carte estremamente popolare ma altrettanto proibito per la sua pessima fama. Una mano dopo l’altra i giocatori calavano le carte, accompagnandole con bestemmie così rozze da far ogni volta arrossire Winter.
Un tizio butterato e scarno col naso storto e una bizzarra testolina sottile squadrò i due nuovi arrivati da dietro al bancone. Di sicuro non era quell’“Harri il Bello” a cui era intitolato il locale. «Che volete?».
«Due grappe, sigarette e il capo».
«Il capo non c’è e le sigarette non le possiamo vendere». Si lanciò sulla spalla uno strofinaccio unto e versò la grappa in due bicchierini sporchi.
«Quando torna?». Emmerich bevve d’un fiato la sua grappa e sbatté il bicchierino vuoto con così tanta forza sul bancone che i giocatori di carte si fermarono e lo guardarono fisso.
«Chi vuole saperlo?».
Emmerich esibì il distintivo, facendo sbiancare il tizio smilzo dietro il bancone.
«Tornate domani». Provò a esibire un sorriso amichevole, ma inutilmente.
«Ti rendiamo nervoso?». Emmerich si guardò intorno.
«Ma no» disse lo Smilzo, benché l’espressione del suo volto affermasse il contrario. «Qui facciamo tutto secondo le regole. Vi faccio vedere le licenze. E i ragazzi stanno giocando a Jolly, tanto per divertirsi… hanno scommesso giusto un paio di monete. È tutto a norma». Per una frazione di secondo i suoi occhi scattarono di lato.
«A me pareva più una partita a Stoß». Emmerich seguì lo sguardo del cameriere. «Lì che c’è?». Indicò una legnaia che nascondeva il retro del locale.
«Lì? Niente di che. Solo una stanza in più nel caso che qui si riempia troppo, ma oggi non c’è nessuno». Prese il bicchierino vuoto e cominciò a lavarlo con impegno.
«Allora non avrai nulla in contrario se vado a dare un’occhiata». Dato che Winter non aveva accennato a toccarlo, Emmerich si scolò anche il secondo grappino, aggirò la legnaia e si ritrovò in un corridoio polveroso che terminava in una stanza buia e senza finestre.
Lo Smilzo gli andò dietro. Con troppa foga. Troppo in fretta. «Soddisfatto?» domandò piegando e ripiegando lo strofinaccio. Il suo disagio si poteva quasi toccare con mano.
«Non ancora. Voglio dare un’occhiata come si deve».
«Non c’è niente da vedere, qui. Venga, torniamo di là. Devo tenere d’occhio i clienti».
«Va’ pure». Emmerich cercò a tentoni l’interruttore della luce. «A noi non devi tenerci d’occhio. Non rubiamo mica. Siamo della polizia, te lo sei già scordato?». Finalmente aveva trovato l’interruttore e ne girò la rotellina.
Un’unica lampadina sotto un paralume sporco d’unto diffuse una luce crepuscolare. Emmerich faticò a non lasciar trasparire la sua sorpresa. Aveva previsto di trovarsi di fronte a qualcosa di illegale, di ambiguo – o perlomeno di indecente. E invece tutto quello che vedeva era una semplice sala di una normalissima locanda. Tavoli, sedie, pavimento in legno, alle pareti un paio di quadretti con immagini bucoliche: cervi, spighe e una fattoria.
Possibile che in quell’osteria tutto andasse secondo le regole? Sarebbe stato l’unico locale al mondo a non nascondere qualcosa di losco.
Emmerich passò la mano sulla spalliera di una panca d’angolo e poi si guardò le dita. Polvere, unto e fuliggine.
«Visto abbastanza?». Lo Smilzo spense la luce e indicò in direzione della sala con il bar. «Venga, le offro un’altra grappa».
I tizi che giocavano a carte dovevano aver sentito perché manifestarono a gola spiegata di volerne una anche loro.
«Va bene, va bene, per quel che mi importa…» gridò il cameriere di rimando e si rivolse nuovamente a Emmerich. «Allora, viene?».
«Subito». Non era ancora pronto ad arrendersi. Qualcosa non quadrava. Ma cosa? «Posso averne una?». Indicò il taschino del cameriere smilzo, in cui si delineava la forma di un pacchetto di sigarette. «Non potete venderle, ma offrirle sì».
Il cameriere mormorò probabilmente “scroccone”, ma gli diede una sigaretta. Salem Gold, senza filtro. «Ora però andiamo».
Emmerich si accese la sigaretta e inalò il fumo. Poi chiuse gli occhi e rimase in ascolto. Colpi attutiti, ansiti. Gemiti. «Che cosa sono questi rumori?».
«Non sento niente, io».
«E invece sì. Proprio qui». Emmerich fece un paio di passi al buio e tentò di individuarne la fonte.
«Ah, quelli…». Lo Smilzo mise una mano sulla spalla di Emmerich e tentò di condurlo fuori. «Sono le puttane qui accanto».
«No, no, sono voci maschili». Emmerich appoggiò una mano a coppa sulla parete e ci incollò l’orecchio.
«Mi sta prendendo per il culo?». Lo Smilzo afferrò Emmerich per il braccio. Stavolta senza tanti complimenti. «Ovvio che ci sono anche uomini, di là. Che si crede? È un bordello come si deve».
Emmerich non si lasciò impressionare. Lentamente si accosciò, con l’orecchio sempre premuto contro la parete, e tentò di non farsi distrarre dal dolore alla gamba.
«Adesso mi sono rotto di tutte queste stronzate». Fece per afferrare Emmerich, ma questi lo respinse.
«Che c’è qui sotto?». Riaccese la luce e osservò con più attenzione il pavimento. La stanza era scarsamente illuminata. Di proposito? Oppure era solo la conseguenza di una certa parsimonia nei consumi elettrici?
Lo Smilzo sparì dietro la legnaia e tornò armato di un bastone. «Adesso basta» disse. «Non avete un mandato né un’autorizzazione per ficcare il naso qui dentro. Quindi smammate, e anche subito».
Emmerich squadrò le assi di legno consunte e si rivolse a Winter. «Tienimelo lontano!».
Lo sguardo di Winter fece la spola tra Emmerich, il bastone e il braccio appeso al collo. «Ma…».
«Be’, provaci, se non altro».
Winter sospirò e tirò fuori la pistola. «Le conviene lasciarlo in pace» sibilò all’uomo. «Mi creda, meglio non provocarlo».
Il cameriere fissò l’arma, grugnì con disprezzo, gettò a terra il bastone e alzò le mani. «Ve ne pentirete» imprecò. «Non ve la faccio mica passare liscia…».
«Chiudi il becco». Emmerich raccolse il bastone e cominciò a picchiettarlo contro il pavimento.
Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Toc.
Si fermò, si chinò e tastò le assi: erano di spesso legno grezzo, come quelle delle navi. Con cautela ci passò su le mani e quando sentì un nodo particolarmente grosso ci infilò un dito e tirò. E in effetti l’asse di legno si lasciò sollevare senza particolare sforzo, mostrando una ripida scala che correva verso il basso. Nel buio pesto.
«Congratulazioni» grugnì il cameriere. «Avete trovato la cantina. Ragni, polvere e botti di birra».
«Ti ho detto di chiudere il becco». Emmerich si incollò la sigaretta all’angolo della bocca, sollevò altre assi di legno, poi si stese sul pavimento e si mise in ascolto nel buio. Quei rumori che prima aveva solo intuito adesso si sentivano in modo più chiaro: colpi, ansiti, gemiti e anche qualcos’altro… incitazioni, grida di giubilo e applausi. «Non penso proprio che questi siano i rumori di un bordello come si deve». Si tirò su, zoppicò nell’altra sala e ispezionò gli scaffali dietro il bancone fino a trovare quel che stava cercando – una lanterna a petrolio. «Andiamo a salutare i fantasmi della cantina».
Nonostante le veementi proteste dello Smilzo i tre discesero la scala e si ritrovarono in un corridoio. L’aria era satura di umidità e c’era odore di muffa, e quando Emmerich puntò il fascio di luce della lampada tutt’intorno illuminò fango pieno di impronte, ragnatele e pareti di mattoni. Avanzò pian piano.
Quando il tunnel venne improvvisamente invaso da un frenetico rumore metallico e il soffitto vibrò Winter si strinse nelle spalle in preda al terrore. «Cos’è stato?».
«E io che ne so» bofonchiò il cameriere. «È la prima volta che scendo quaggiù».
«Risparmiati le favolette per qualcun altro» sbraitò Emmerich. «Probabilmente era un carro merci. Dobbiamo essere proprio sotto la strada. Questa città ha un sistema di catacombe e cantine, molti ambienti e passaggi risalgono al Medioevo o addirittura all’epoca romana. Ovviamente si evita il più possibile di parlarne, per evitare che i criminali si facciano venire strane idee. Come se non ci arrivassero già da soli. Non vedo l’ora di capire dove…». Davanti a loro era comparsa una porta di legno rinforzata da elementi in acciaio, ed Emmerich si bloccò. «A quanto pare, lo capiremo presto».
Dato che il portone non era dotato di maniglia Emmerich afferrò il pesante anello di metallo che doveva fare da battente, e tirò. Non successe nulla.
«Chiuso. Che peccato. Torniamo indietro» disse lo Smilzo.
Ma era evidente che non sapeva con chi aveva a che fare. L’ispettore tirò con tutte le sue forze e, con un cigolio, la massiccia porta si aprì di uno spiraglio. Una nube di aria stantia li investì, satura di fumo ed effluvi umani. «Benvenuti nei bassifondi di Vienna».
Emmerich allargò un po’ il passaggio e si intrufolò nella stanza. Si trattava con tutta evidenza di una vecchia cantina usata per la produzione di birra, poiché in un angolo della volta in mattoni giacevano doghe di legno fradicie, fascette da botte arrugginite e panche tarlate. Fin lì, niente di spettacolare.
In compenso però la zona nel mezzo offriva una vista ben più entusiasmante. Pali e corde delimitavano un ring di quattro metri per quattro, al centro del quale due uomini si stavano girando intorno. Entrambi erano muscolosi e con spalle ampie e toraci nudi lucidi di sudore.
Mentre uno, un gigante calvo con un’àncora e una sirena barbuta tatuate sul petto, perdeva sangue dal naso il suo avversario, un ammasso di muscoli e peli con un collo taurino, sembrava ancora incolume.
Intorno al ring c’erano alcuni uomini che incitavano a gran voce il proprio campione.
«Mandalo al tappeto, adesso» gridava un uomo con un solo braccio, con così tanta foga da sbavare.
«Dài col sinistro! Col sinistro, ai reni!».
«Occhi aperti, coglione!».
Il tizio peloso incassò un gancio al mento, annaspò, bloccò l’avversario in una specie di abbraccio e tentò di spingerlo a terra.
«Ma che roba è?» sussurrò Winter all’orecchio di Emmerich. «Boxe? Lotta greco-romana?».
«Lotta libera».
Tra frenetiche grida di giubilo e fischi il pelato si liberò, mollò all’avversario uno schiaffone sull’orecchio, poi una combinazione sinistro-destro e un calcio negli stinchi.
Collo Taurino finì al tappeto, dove rimase immobile.
«Uno, due, tre, quattro, cinque» contarono ad alta voce i sostenitori del Pelato.
«Alzati, avanti! Presto!» gridava l’altra fazione.
Invano. L’uomo non si muoveva più.
«Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci». Un vocio assordante e applausi si mescolarono a imprecazioni e insulti.
«Colpo irregolare» gridò un tipetto magro con un naso solcato da venuzze, beccandosi una scoppola da un gigante pieno di lentiggini.
Nel frattempo due uomini avevano preso per i piedi il lottatore svenuto e l’avevano tirato giù dal ring. Come un sacco di immondizia lo scaricarono davanti a botti ormai rotte.
A quel punto il tipetto basso si piazzò nel centro del ring, salendo sopra una cassa. Si lasciò acclamare dalla folla, poi sollevò il braccio del vincitore.
Dopo che il vocio si fu chetato, l’omino fece un giro su se stesso. «Chi è il prossimo?» gridò. «Chi ha il coraggio?». Indicò il pelato tatuato, che a gambe larghe e digrignando i denti si guardava attorno. «Chi riuscirà a battere Pessolt lo Spezzaossa?».
Nessuno si fece avanti.
«E voi chi siete?». Un tipo massiccio con indosso una canottiera aderente si era accorto dei due intrusi. Con espressione truce arrancò verso di loro e indicò il mozzicone di sigaretta che gli pendeva all’angolo della bocca.
«Mi spiace, capo». Lo Smilzo si fece piccolo piccolo. «Mi hanno minacciato con una pistola. Mi avrebbero sparato se…».
«Non voglio sapere che hanno fatto. Voglio sapere chi sono».
«Lei dev’essere Karl Dobrensky» disse Emmerich mostrandogli il distintivo. «Vorrei farle qualche domanda a proposito di Richard Fürst».
Dobrensky, che era più alto di Emmerich di una spanna, scoccò al suo dipendente un’occhiata che non lasciava presagire niente di buono. «Sbirri. Qui sotto» sibilò. «Come è potuto accadere?».
«Gliel’ho detto, mi hanno minacciato».
«La prossima volta meglio che ti fai sparare. Soffrirai meno che per quello che adesso ti faccio io».
«Adesso potremmo parlare di Fürst?» si intromise Emmerich.
«Non so chi sia». Dobrensky fece un tiro dal sigaro e soffiò il fumo in faccia a Emmerich. «Tanto per mettere le cose in chiaro: i combattimenti sono del tutto legali. Zuffe tra amici».
«Già già, infatti è per questo che gli amici hanno tutti delle ricevute di scommesse in mano».
«Nessuno?» gridava il nano sulla cassa. «Nemmeno per cento corone? CEN-TO corone per il valoroso che riuscirà a battere Pessolt lo Spezzaossa».
Dobrensky emise un fischio e immediatamente due colossi si piazzarono ai suoi lati. «I signori stanno andando via. Siate così gentili da accompagnarli fuori».
«Non siamo qui per i combattimenti. Tutto quello che vogliamo sono informazioni su Richard Fürst. Per esempio, potrebbe dirmi che cosa c’era nella lettera che gli ha mandato poco prima che morisse. Deve esserne rimasto parecchio sconvolto».
«Era una faccenda privata. Non sono affari vostri». Dobrensky si rivolse ai due bulldog. «Portateli fuori prima che continuino a ficcare il naso, e poi ripulite tutto qui».
«Aspetti!». Emmerich tentò di respingere la mano che come una morsa gli stringeva il braccio. «Ho assoluto bisogno di queste informazioni. Dei suoi traffici non me ne frega niente, mi creda».
«E dovrei crederle?». Dobrensky soffiò un’ulteriore nuvoletta di fumo in faccia a Emmerich. «Mi dimostri che posso fidarmi».
«E come?».
Dobrensky ci pensò su per un attimo e poi indicò il ring. «Combatta. Se resiste per un round senza finire KO le racconto quello che vuole sapere».
«Combattere potrebbe risultarmi un po’ difficile». Emmerich si indicò la gamba. «Mi sono beccato una scheggia di granata in Italia».
Dobrensky aggrottò la fronte e soppesò con lo sguardo Emmerich e Winter. «Che razza di sbirri siete? Uno con la gamba malandata, un altro col braccio rotto…».
«In due non fanno uno» disse un buttafuori con un sorrisetto meschino. «Non c’è da stupirsi se la criminalità aumenta».
Dobrensky fece un cenno al nano, che si avvicinò. «Se voi due insieme riuscite a resistere un round senza finire KO, vi dico cosa c’era nella lettera».
Prima ancora che Winter potesse obiettare alcunché Emmerich si puntò le mani sui fianchi e sporse il mento in fuori. «Per me va bene». Scoccò ai due bulldog un’occhiata piena di disprezzo. «I prossimi siete voi».
Dobrensky esplose in una sonora risata, diede una pacca sulla spalla a Emmerich e sussurrò qualcosa all’orecchio del nano.
Questi lo guardò meravigliato e corse sul ring, per salire di nuovo sulla cassa. «Abbiamo uno sfidante» gridò. Il suo annuncio fu accolto da applausi frenetici. «E non è tutto!». Il nano fece cenno al pubblico di fare silenzio. «Pessolt lo Spezzaossa non combatterà contro un avversario, bensì contro due! Per giunta non sono persone qualunque, ma due sbirri eroi di guerra, che ancora ne portano i segni addosso».
Calò il silenzio. Bocche spalancate e sguardi perplessi. Poi serpeggiò un mormorio che man mano salì di volume, divenne un vociare e sfociò in urla assordanti accompagnate da battiti di mani e piedi sbattuti per terra. La plebaglia aveva ottenuto ciò che voleva. Un combattimento. Uno spettacolo, qualcosa di sensazionale.
«Ma… noi… non possiamo mica!» balbettò Winter.
«Esatto. Non possiamo farci insultare in questo modo».
«Ma come faremo a…». Winter fissava lo Spezzaossa al centro del ring, intento a far guizzare i muscoli. «È alto almeno due metri. E ha visto che bicipiti? Sono grossi come le mie gambe. Quel tizio ci gonfia in men che non si dica».
«Meglio gonfiati che umiliati». Emmerich si tolse il mantello e cominciò a sbottonarsi la camicia.
Winter si guardava intorno in cerca di aiuto. «Quando si tratta di metterci nei guai lei è proprio il campione del mondo». Fissò il gigante peloso dal collo taurino, che giaceva ancora svenuto davanti alle botti rotte.
«Pensa a qualcuno che odi profondamente» disse Emmerich immaginandosi la faccia di Xaver Koch. Quel maiale gli aveva tolto Luise e i bambini… «Pensa a Brühl e alle sue stupide battutine, e poi dacci sotto come si deve».
«Ma come faccio…?». Winter gli sventolò sotto il naso il braccio che portava appeso al collo.
«Prendilo a calci oppure distrailo in modo che io possa mettere a segno un paio di colpi. Magari ci spezzerà le ossa, ma non certo l’orgoglio. Lasceremo il ring a testa alta».
«Sempre che prima non ce la stacchi, la testa».
«Pronti?». Dobrensky si era portato accanto a loro e si sfregava le mani. «Le regole sono semplici. Vince chi resta in piedi. Siete liberi di fare quel che vi pare. Pugni, calci, graffi e morsi, è tutto lecito. Nessuna parte del corpo è vietata. Tutto chiaro?».
Emmerich annuì, mentre Winter scuoteva la testa.
«Io me li toglierei» disse Dobrensky indicando cappotto e camicia di Winter. «Sembra roba costosa, sarebbe un peccato rovinarla».
A labbra strette Winter si spogliò, mettendo in mostra un petto esile e glabro. Poi diede le sue cose a Dobrensky. «Dopo li rivoglio indietro».
«Ammesso che ti servano ancora». Dobrensky sollevò una corda del ring e uscì di scena.
La folla cominciò immediatamente a fischiare, si sentivano numeri urlati da una parte all’altra mentre le banconote passavano di mano.
Per quanto aveva capito Emmerich, tutti, nano compreso, avevano scommesso sul loro avversario. Su di loro venne puntata un’unica banconota. Emmerich strinse i pugni.
«Cerca di distrarlo il più possibile» sibilò a Winter, che gli stava accanto come paralizzato. «Farà di tutto per colpirti al braccio ferito, perciò non dargli mai la parte sinistra. Piuttosto, cerca di arrivargli alle spalle e dagli un calcio come si deve dietro il ginocchio».
«Non scoprire il lato sinistro, calcio dietro il ginocchio» ripeté Winter, già senza fiato.
«Pronti?».
Emmerich annuì.
«Allora via!» gridò il nano saltando giù dalla sua cassa e correndo fuori dal ring mentre intorno si scatenavano le urla.
Dopo un attimo di indecisione che sembrò durare un’eternità il pelato tatuato si avvicinò a passi pesanti a Winter ed Emmerich, fissandoli con sguardo truce. Camminava lentamente e a gambe larghe, sicuro di sé e puntando l’obiettivo come un orso deciso a dilaniare due cagnolini.
Emmerich sollevò i pugni e zoppicò incontro all’avversario. «Non dimenticare mai che tutti hanno un punto debole» sibilò a Winter. «Anche lui. Dobbiamo solo capire…».
Non arrivò a concludere la frase, perché lo Spezzaossa caricò e fece partire un sinistro.
Emmerich riuscì a schivarlo per un pelo, ma percepì lo spostamento d’aria, così forte da fargli realizzare immediatamente che sarebbe finito al tappeto, se fosse stato colpito.
Ancor prima che potesse riorganizzarsi e prepararsi a sferrare un attacco, ne arrivò un altro da parte del gigante pelato. Stavolta da destra. Emmerich si abbassò, inciampò e si incollò con la guancia alla pancia sudata di Pessolt. Dalla bocca gli colava saliva ed Emmerich si ritrovò ad assaggiare le esalazioni acide del suo avversario.
Una delle zampacce di Pessolt lo acchiappò alla gola respingendolo all’indietro, mentre con l’altra mano chiusa a pugno caricava il colpo. Emmerich, preso in una morsa e impossibilitato a muoversi anche di un solo millimetro, si ritrovò a fissare le tette della sirena tatuata.
Se non altro stava guardando qualcosa di bello, prima che spegnessero le luci.
Quando il massiccio pugno gli piovve addosso Emmerich non poté far altro che trattenere il fiato e attendere l’impatto. Vide le dita pelose avvicinarsi sempre di più – poi udì il grido.
All’inizio sembrò il capriccio ostinato di un bambino, ma poi virò verso un suono degno di un animale torturato e terminò in un cupo ruggito.
Winter.
Con la coda dell’occhio Emmerich vide il suo assistente, simile a un toro selvatico, caricare a testa bassa Pessolt e dargli una zuccata nel fianco. Ovviamente non fu sufficiente a far cadere lo Spezzaossa, il quale però perse l’equilibrio e allentò la morsa, permettendo a Emmerich di liberarsi e uscire dalla zona di pericolo.
Tutta l’azione fu accompagnata da «Buuhhhh!!!» e insulti vari.
«Fai a pezzi questi sbirri di merda! Adesso!» urlava un uomo paonazzo mentre scuoteva una corda del ring.
«Sì!» gridava un altro. «Asfaltali, quei due sacchi di merda».
«Che cazzo ti prende? Basta con le buone maniere! Sono solo due storpi».
Emmerich ne aveva abbastanza. La vita era ingiusta, quel combattimento era ingiusto. Perché mai lui doveva continuare a comportarsi secondo le regole? Fissò la folla inferocita. Non avevano rispetto, erano di parte e pieni di odio contro tutto ciò che lui e Winter rappresentavano. Non poteva farci niente, ma perlomeno poteva fargli perdere le scommesse. E l’avrebbe fatto. Avrebbe messo KO Pessolt lo Spezzaossa. Gliel’avrebbe fatta vedere lui, che anche uno storpio era capace di vincere.
Cercò Winter con lo sguardo e indicò la fascia che di solito gli sorreggeva il braccio ferito, scivolata a terra durante l’attacco. «Sugli occhi».
Winter annuì, ma a quanto pareva non era l’unico ad aver capito il piano di Emmerich.
Pessolt si muoveva avanti e indietro evitando accuratamente di dare le spalle a Winter per più di un paio di secondi. «Adesso ti prendo» gridò. «Ti ho già preso, pulce».
«Lo faccia stare fermo» gridò Winter a Emmerich. «Mi bastano un paio di secondi».
«Ehi» Emmerich tentò di attirare l’attenzione del gigante pelato. «Anche le tette di tua madre sono come quelle della sirena?». Fece un gesto osceno. «Oppure ormai ce le ha lunghe fino ai piedi?».
Pessolt rise. «Credi davvero che abbocco a roba del genere?». Fece un mezzo giro su se stesso e allontanò Winter, che nel frattempo gli era arrivato alle spalle, con una manata, senza il minimo sforzo, come se si trattasse di un insetto fastidioso. «Scommetto che tu manco sai chi è, tua madre».
Colpito e affondato.
Emmerich comprese che qualche provocazione non bastava a mandare fuori di testa quel gigante, e che per vie normali non avevano la minima possibilità. Non restavano che le maniere forti. «Te la sei cercata» mormorò, strinse i denti, sogghignò e si avventò.
Come una tenera amante Emmerich allacciò le braccia intorno al collo dello Spezzaossa e gli si avvinghiò con le gambe alla vita. «Ciao, tesorino» disse, e lo baciò.
Con trasporto premette le labbra su quelle del suo avversario, respirando il suo fiato marcio e sentendo sulla guancia gli spuntoni della sua barba. Si godé per un attimo lo sguardo scioccato sia di Pessolt che del suo pubblico.
Silenzio.
«Brutto figlio di puttana!» urlò Pessolt non appena si fu ripreso. Pieno di disgusto gli diede una testata, si liberò dall’abbraccio e lo scagliò lontano da sé.
Emmerich atterrò sul pavimento duro, sentì un dolore bruciante attraversargli la gamba e trivellargli il bacino, poi alzò lo sguardo su Pessolt. Il sangue gli scorreva dalle narici e le labbra non avevano un gran bell’aspetto.
«Schifoso rottinculo» gridò quest’ultimo, paonazzo in volto. Si pulì la bocca e sputò per terra. «Ti ammazzo, brutta vacca».
In quel preciso istante Winter spiccò un salto e bendò con la fascia del braccio gli occhi di Pessolt.
Emmerich si rimise in piedi, ignorò il dolore e colpì. Un pugno in faccia, un montante al mento, un calcio alla pancia.
Colto di sorpresa, lo Spezzaossa tentò di replicare, ma colpì a vuoto. Mentre cercava di strapparsi via la benda Emmerich lo colpì di nuovo. Un dritto col destro, un gancio col sinistro, un calcio in mezzo alle gambe.
Fu sufficiente. Pessolt cadde sotto gli sguardi increduli del pubblico, prima sulle ginocchia e poi si accasciò bocconi. Privo di sensi, non si mosse più.
Winter sorrise sollevato ed Emmerich sollevò le braccia in aria. «Storpi un corno» gridò ignorando il sangue che gli scorreva dal naso. «Avanti, chi vuole essere il prossimo?».
«Penso che ora sia meglio andare». Dobrensky era salito sul ring, aveva fatto un cenno ai suoi due cagnacci da guardia e restituito i vestiti a Winter. Poi aveva sospinto Emmerich verso la porta di legno. I «Buuuuhhhh» continuavano ad accompagnarli.
«Che le è successo?». Winter si era accorto che Emmerich quasi non riusciva a camminare. Cercò di sorreggerlo.
«Mi ha colpito alla gamba».
«E non solo lì» commentò Winter osservando la faccia di Emmerich.
Insieme zoppicarono lungo il tunnel e su per la ripida scala che li riportò nella sala della locanda. Una volta arrivati, si lasciarono cadere su una panca.
Dobrensky fece cenno al cameriere smilzo di portare della grappa e uno straccio bagnato. «Mi auguro di non incontrare mai nessuno di quelli che erano laggiù in qualche vicolo buio. Per colpa vostra hanno perso un bel po’ di soldi».
«E lei invece ne ha guadagnati altrettanti». Emmerich indicò il rotolo di banconote che Dobrensky teneva in mano. «Aveva scommesso su di noi». Si asciugò il sangue che aveva sul viso e buttò giù d’un fiato un bicchierino di slivoviz. Il liquido trasparente gli bruciò le labbra.
Dobrensky gliene versò ancora. «So riconoscere chi ha stoffa. Lo sapevo che ce l’avreste fatta».
«Però adesso veniamo al nostro accordo… Che c’era scritto nella lettera?» disse Emmerich.
«Si trattava di mia sorella».
«Nello specifico?». Emmerich si sporse sul tavolo, senza chiedere il permesso prese uno dei sigari di Dobrensky e lo accese. Aveva un sapore fantastico, e la nicotina lo aiutava a sopportare i dolori. Si indicò il viso e poi la gamba. «Mi sono più che guadagnato qualunque informazione. Anche quella che a lei può sembrare la più insignificante».
Dobrensky lo osservò. «Fürst ha messo incinta mia sorella. Con la lettera volevo assicurarmi che non dimenticasse le sue responsabilità».
«Lo sapevo io, che quel Fürst non era un angioletto!» mormorò Emmerich ripensando alle suore che da piccolo, all’orfanotrofio, l’avevano tormentato. «Le persone in apparenza più devote e pie sono quelle che spesso nascondono più merda». Si rivolse di nuovo a Dobrensky. «Mi racconti di più».
«Guai a lei se rende la vita difficile a mia sorella».
«Se non ha fatto niente di male non ha nulla da temere».
Dobrensky scrocchiò le dita. «C’è poco da raccontare. Helene era la sua amante, da circa un anno».
«E la moglie di Fürst lo sapeva?».
«Non ne ho idea. Non conosco i dettagli. Quelli, se li deve procurare da solo».
«Dove posso trovare sua sorella?». Emmerich fece per versarsi altra grappa, ma Dobrensky allontanò la bottiglia tirandola a sé. La sua ospitalità stava per terminare.
«Stasera Helene canta al Rote Bretze. Veda di andarci piano con lei. Gli voleva bene davvero». Dobrensky si alzò e riportò la bottiglia dietro il bancone. «Adesso è proprio ora» disse, senza chiarire per che cosa.
«Un attimo ancora». Emmerich si tirò su a fatica. «Dov’era lei giovedì scorso verso le otto di sera?».
Dobrensky lo guardò così infuriato che Emmerich temette di dover affrontare un altro combattimento. «Non vorrà mica insinuare che io abbia qualcosa a che fare con l’omicidio?! Non sono tanto stupido da far fuori il tizio con cui mia sorella ha messo in cantiere un bastardo. Chi crede che dovrà provvedere al moccioso, adesso? E poi sarebbe stato molto utile, avere un consigliere comunale in famiglia. Anche in via ufficiosa. Me lo faccia sapere quando trova l’assassino, ci penso io personalmente a scavare la fossa a quel figlio di puttana!».
«Vorrei comunque sapere dove si trovava giovedì sera» replicò Emmerich. «Domanda di routine» aggiunse, quando si rese conto che il suo interlocutore aveva serrato le mani a pugno.
Dobrensky si rilassò visibilmente. «Qui sotto. Avevamo in programma un combattimento importante. La Bestia di Brigittenau contro il Macellaio del Prater. Non tanto divertente come lo spettacolo che avete appena dato voi, ma comunque un incontro molto remunerativo. Ho almeno cinquanta testimoni».
Emmerich assentì. «Ancora una domanda: chi ha consegnato la lettera?».
Dobrensky indicò il cameriere smilzo e butterato intento a sistemare bicchierini da liquore dietro il bancone. «C’ho mandato lui». Poi, senza salutare, tornò nella stanza sul retro e scomparve giù per la scala.
Emmerich soffiò qualche anello di fumo in aria e fece cenno allo scagnozzo di Dobrensky di versargli un’altra grappa.
Quest’ultimo fece finta di non averlo visto. Con aria volutamente noncurante continuò a passare lo straccio sul bancone e poi si grattò un’ascella a tutto spiano.
«Devo andare a dire al tuo capo che ti mostri poco collaborativo?» gridò Emmerich.
Il tizio al bancone si fermò e si avvicinò al tavolo. «Che ha da gridare?» sibilò. «La smetta di rompere le palle. Per colpa vostra ho già abbastanza guai».
«Affari tuoi. Non è un mio problema». Emmerich indicò la sedia di fronte a sé.
«Che vuole?».
«Quando giovedì hai consegnato la lettera a Richard Fürst, hai notato se per strada c’era un fattorino?».
«Sì… ce n’era uno. È entrato in casa con me. Perché?».
«È entrato con te?».
«L’ho appena detto. Doveva fare una commissione a casa di Sua Eccellenza».
«Che tipo di commissione?».
«E che ne so! Doveva prendere in consegna qualcosa, o roba del genere… ha detto che andava spesso da quelle parti e conosceva la casa. Infatti è sparito subito sul retro».
Ecco com’era entrato in casa l’assassino… Con tutta probabilità si era nascosto e per colpire Fürst aveva atteso che Peppi andasse via. «Che aspetto aveva?».
«Uff… boh, che ne so. Era tardi e avevo fretta. Come sicuramente saprete, in osteria alle otto di sera bisogna staccare la corrente elettrica e passare alle lampade ad acetilene. E chi se ne occupa qui, secondo lei?».
«E da quando in qua allo Schönen Harri rispettate le regole?».
«Da quando tre settimane fa ci hanno beccati e il capo mi ha trattenuto la multa dallo stipendio». Guardò malissimo i due funzionari di polizia, neanche fossero personalmente responsabili per la carenza di carbone e le derivanti restrizioni.
«Prova a ricordare. Ogni dettaglio è importante».
Il cameriere ci pensò su. «I fattorini sembrano tutti uguali. Uniforme grigia, berretto con visiera…».
«Avanti, pensaci bene» lo incalzò Emmerich. «Aveva qualche segno particolare? Qualcosa che potrebbe aiutarci a rintracciarlo?».
Lo Smilzo si asciugò la fronte. «Le scarpe» disse alla fine. «Ci ho fatto caso quando ha attraversato l’ingresso. Erano troppo eleganti per essere quelle di un semplice fattorino. Nuovissime, con un po’ di tacco, di pelle nera con la fibbia argentata. Di sicuro le aveva rubate a qualcuno. Abbiamo finito?» chiese poi, quando Emmerich non pose nessun’altra domanda.
Quest’ultimo annuì, si alzò e zoppicò fuori sorretto da Winter.
«Deve andare da un dottore» disse a Emmerich. «La sua faccia è conciata molto male, per non parlare del ginocchio. La cosa migliore sarebbe l’ospedale».
Emmerich fece per controbattere, ma quando provò a fare un paio di passi da solo, senza riuscirci, comprese che il suo assistente aveva ragione.
«E va bene, ma non da quei ciarlatani dell’Ospedale generale. Altrimenti tenteranno di nuovo di amputarmi la gamba. E poi ci vogliono ore, prima di riuscire a farsi visitare. Non abbiamo tutto questo tempo».
Winter ci pensò su. «Potremmo andare dal dottor Bahrfeldt. È il medico di mia nonna e ha uno studio nel primo distretto. L’ho conosciuto l’ultima volta che è venuto a visitarla a casa, e sembra proprio un tipo a posto».
«E sia. Andiamo da lui». Col viso stravolto dal dolore Emmerich si puntellò contro la parete di una casa mentre Winter si mise alla ricerca di una vettura a noleggio.
«Tieni, amico, prendi». Un passante si fermò all’altezza di Emmerich e gli mise in mano un paio di monete. «Buona fortuna».
«Ma io…». Il dolore lo fece tacere. Emmerich intascò quei pochi spiccioli e sperò che alla fine tutti i suoi sforzi e sacrifici venissero ripagati.