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La residenza dei Fürst era una villa sontuosa che spiccava in virtù della sua facciata, appena ridipinta di un bianco abbagliante. Dal pianoterra, un po’ rialzato, fino al secondo piano sporgeva un balconcino semicircolare e il portone d’ingresso era fiancheggiato da statue raffiguranti Atlante. Non vi era dubbio che accogliesse una nobile stirpe. Con gente del genere erano necessari tatto e gentilezza, e nessuna delle due caratteristiche era appannaggio di Emmerich. Pertanto Ferdinand Winter non era per nulla scontento di doversi recare da solo a parlare con la vedova Fürst.

Seguendo alla lettera l’etichetta si presentò al domestico che gli aprì la porta, fornì il proprio biglietto da visita e dichiarò la ragione per cui era lì. Venne introdotto senza alcun problema e portato al cospetto di Bertha Fürst.

Bastava un pizzico di gentilezza a rendere tutto più semplice.

«Le mie più sentite condoglianze». Winter si tolse il cappello, fece un inchino, baciò la mano alla vedova e prese posto sulla sedia che gli venne offerta.

Bertha Fürst era una donna affatto appariscente, sulla cinquantina. Né alta né bassa, né grassa né magra. Persino il colore dei capelli era ordinario: non proprio chiari, ma nemmeno scuri, giusto un paio di ciocche grigie. Niente che spiccasse, nessun segno particolare.

«Mi perdoni se la disturbo in questo difficile momento». Gli sembrava di sentire la voce di Emmerich che gli dava del lecchino. Adulatore.

«Credevo che il caso fosse risolto. Avete arrestato il mostro che ha ucciso Richard, no?».

«Siamo venuti a conoscenza di alcuni elementi nuovi, che sarei grato di poter discutere con lei».

«Come preferisce». La donna tentò di sorridere, con scarsi risultati. «La prego di perdonarmi, è passato così poco tempo».

«Ma certo…».

Bertha Fürst tirò fuori dalla manica del vestito nero un fazzoletto e si soffiò il naso.

Winter si schiarì la gola. «Si tratta di questo: la sera dell’omicidio in casa c’era un fattorino che ha dichiarato di essere stato convocato da lei. È così?».

La vedova lo guardò sbigottita. «Assolutamente no. Ero già andata a letto e poi… perché mai avrei dovuto chiamare un fattorino a un’ora così tarda? Chi è? È stato lui a…».

Winter non rispose. La donna le sembrava davvero scossa, e lui non aveva ancora nemmeno menzionato la questione più spinosa. «C’è dell’altro…» proseguì. «Suo marito…». Si fermò, cercando spasmodicamente le parole giuste e poi buttò lì: «Il nome Dobrensky le dice qualcosa? Helene Dobrensky?».

«No. Chi sarebbe?». L’espressione sul volto della vedova mostrava genuino interesse – neanche la minima traccia di coscienza sporca, rabbia o sensi di colpa.

«C’è la possibilità… sospettiamo… si dice…». Improvvisamente Winter, che fino a poco prima era grato per l’assenza di Emmerich, desiderò che fosse al suo fianco. Il suo superiore non aveva la minima difficoltà a formulare domande scomode mettendo sul tavolo gli argomenti più scomodi. «Ci hanno dato informazioni in merito al fatto che questa tale Dobrensky avrebbe avuto a quanto pare… forse… presumibilmente…» tossì coprendosi la bocca con la mano, «una relazione… con suo marito» concluse parlandosi addosso.

«Avrebbe avuto cosa?».

«Una… relazione… con suo marito. Lei ne sa niente?».

All’improvviso il volto insignificante della donna mutò. Divenne prima bianca come un lenzuolo, poi paonazza, poi spalancò la bocca in cerca d’aria. «Ma come osa!» gridò. «Esca subito da casa mia!».

Non era possibile simulare una reazione del genere. Nemmeno Rita Haidrich ne sarebbe stata capace, e sì che lei era un’attrice eccezionale.

Winter balzò in piedi. «Sono desolato, non avevo intenzione di turbarla. La prego di perdonarmi». Si inchinò di nuovo e uscì il più alla svelta possibile. «Le porti un bicchiere d’acqua» gridò al domestico mentre guadagnava la porta di gran carriera.

«Ich hatt’ einen Kameraden, einen bessern findst du nit. Die Trommel schlug zum Streite. Er ging an meiner Seite. In gleichem Schritt und Tritt». Un suonatore d’organetto dalla gamba amputata se ne stava all’angolo con Himmelpfortgasse e cantava a gola spiegata la tradizionale lamentazione eseguita in occasione dei funerali militari.

Winter gettò una monetina nel cappello dell’uomo e proseguì pensieroso in direzione del commissariato. La guerra era diventata parte integrante del panorama cittadino. Invalidi orrendamente mutilati, vedove vestite a lutto, bambini rachitici o malati di tubercolosi. Il consigliere comunale Richard Fürst aveva tentato senza sosta di lenire le sofferenze di quella gente, in modo semplice e anche aggirando la burocrazia. Chi mai avrebbe potuto desiderare la sua morte? E soprattutto: perché? C’entrava davvero la relazione con la sorella di Dobrensky? In ogni caso la vedova non ne sapeva niente, ormai ne era certo.

Man mano che si avvicinava al commissariato quelle domande passarono in secondo piano e la mente di Winter venne invasa da più pressanti interrogativi. Che cosa avrebbe detto se Brühl o Papousek avessero chiesto di Emmerich? Come avrebbe potuto giustificare la loro assenza nelle ultime ore? Mentire era e rimaneva una delle cose che gli riuscivano più difficili.

Con lo sguardo puntato a terra salì fino al terzo piano, dove oltre al museo della polizia e a una sala di lettura si trovava anche l’ufficio riconoscimenti. L’ufficio consisteva di un dipartimento dattiloscopico, in cui venivano analizzate e archiviate le impronte digitali, un archivio di campioni di grafia e l’archivio criminale. E proprio quest’ultimo era l’obiettivo di Winter.

«Che c’è? A Brühl serve ancora dell’altro?» gridò il segretario responsabile dell’amministrazione dell’ufficio attraverso la porta aperta.

Winter annuì arrossendo fino alla radice dei capelli. Poi attraversò il lungo corridoio e si infilò nell’ultima stanza, in cui in armadi alti fino al soffitto erano conservati i fascicoli di migliaia e migliaia di criminali giudicati colpevoli.

Vienna era una metropoli in cui da sempre si erano verificati innumerevoli delitti, ma dopo la guerra il numero era drammaticamente salito. La popolazione si era imbarbarita, la fame e la miseria esercitavano i loro effetti. Il numero dei furti con scasso non era mai stato così elevato, la gente si inventava sempre nuovi e folli modi per arraffare soldi e rubare il rubabile: maniglie di porte, panchine, persino monumenti funebri. L’archivio criminale cresceva di giorno in giorno, e non si vedeva la fine.

L’uomo che stavano cercando era già noto alla polizia? Winter si diresse a sinistra, dove i fascicoli erano archiviati secondo il criterio del crimine commesso (a destra, invece, i fascicoli erano archiviati per cognome). C’erano ottanta diverse categorie di criminali, dai falsari ai ladri di merce esposta in vetrina, fino ai vagabondi, ai protettori e ai corteggiatori a scopo di lucro. Da dove doveva cominciare?

Sperando in un po’ di fortuna iniziò dagli impostori, quelli che erano specializzati nell’assumere identità altrui. Perché non quella di un fattorino?

«Oh, accidenti» mormorò Winter quando si rese conto di quanti imbroglioni fossero schedati.

Prese il primo fascicolo che gli capitò a tiro e cominciò a scorrerlo – un certo Walter Lendel lo guardò serio e a occhi spalancati dalla fotografia allegata. Tra il 1916 e il 1918 il soldato semplice si era fatto passare più e più volte per alto ufficiale, riuscendo a ottenere con l’inganno varie facilitazioni e trattamenti di favore. Il luogo e la data di nascita di Lendel, i suoi precedenti e legami, una dettagliata descrizione della sua persona, nonché delle sue conoscenze e capacità… tutto era annotato con meticolosa accuratezza, ma nessuna di quelle informazioni risultò utile a Winter, che esaminò l’intero catalogo senza trovare alcun accenno a uniformi da fattorino o scarpe particolarmente belle.

Allora passò al registro dei soprannomi, in cui erano annotati tutti gli alias dei vari criminali noti alle forze dell’ordine, da Edi L’Anguilla a Bence lo Zingaro. Anche qui non trovò nulla. Franz Scarpe di Vernice era al momento ospite dello Stato in virtù di una condanna a tre anni per furto in un orto privato, e Ferdl il Fattorino col suo metro e sessantacinque era troppo basso per corrispondere alla descrizione dell’assassino. Winter si stropicciò gli occhi.

«Saputa la novità?». All’improvviso la voce di Brühl risuonò in corridoio. «Sisto di Borbone-Parma e suo fratello Saverio sono arrivati in città».

Trattenendo il fiato Winter si infilò nella stanza accanto, quella del dipartimento dattiloscopico. Un liscebusso di Brühl era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.

«Ho letto» rispose il segretario. «La popolazione è molto inquieta. Alcuni temono che i due siano qui in missione politica, per preparare il ritorno del Kaiser».

«Non sarebbe poi così male» replicò Brühl canticchiando piano l’inno imperiale.

Gott erhalte, Gott beschütze unsern Kaiser, unser Land!

Mächtig durch des Glaubens Stütze führ’ Er uns mit weiser Hand!

«Dipende. Se la rivoluzione degenera come in Germania, allora sì che sarebbe un male. Da quelle parti adesso è come se fossero nel pieno di una guerra civile».

Winter si batté una mano sulla fronte. Forse l’omicidio del consigliere Fürst aveva un movente politico? Ma certo! Perché non ci avevano pensato prima? Socialdemocratici, monarchici, legittimisti, cristiano-sociali, nazionalisti tedeschi, fautori della Grande Germania, comunisti, nazionalisti ebrei… tutti si davano battaglia per il potere nelle fragili e instabili istituzioni della giovane repubblica austriaca. Per cui era possibilissimo che Fürst fosse d’ostacolo a qualcuno.

«Se sta cercando l’ispettore Winter è nell’archivio criminale» disse il segretario.

«Winter? E perché mai?».

«Non lo so, pensavo che l’avesse mandato lei».

Winter sentì passi rapidi avvicinarsi all’archivio criminale, ma nel frattempo lui era già sgusciato in corridoio guadagnando alla svelta l’uscita.