Il monte Laa alla periferia sud di Vienna era ricco d’argilla, ragion per cui da quelle parti si incontravano spesso i cosiddetti Ziegelböhmen, i Boemi della fornace – operai originari degli ex possedimenti imperiali che sgobbavano in condizioni durissime, per non dire inimmaginabili, nelle fabbriche di mattoni. Violenza e crimini erano all’ordine del giorno e quando Emmerich lavorava ancora come agente di polizia si era dovuto recare da quelle parti più spesso di quanto avrebbe desiderato.
In mezzo a tutta quella tristezza l’area del Böhmischer Prater rappresentava un barlume di speranza. Il piccolo parco divertimenti doveva il suo nome al più famoso e grande parco situato nel secondo distretto, e aveva portato un po’ di colore e gaiezza in quella misera zona periferica. In passato, soprattutto nel fine settimana, gli abitanti di Favoriten, Simmering, Erlaa e dei vicini insediamenti operai delle fornaci si riversavano lì per dimenticare nelle osterie e nei locali di intrattenimento la dura quotidianità.
Quando Emmerich cominciò a risalire lo stretto sentiero che portava all’interno del bosco di Laa gli fu immediatamente chiaro che dei fasti dei giorni passati era rimasto ben poco, dato che gli operai non si potevano ormai più permettere il lusso di una visita al Prater. La guerra aveva spazzato via anche i piaceri più semplici.
Ciò che colpì maggiormente Emmerich fu il silenzio. Dove un tempo si udivano già da lontano i gridolini delle ragazze, le risate dei bambini, musiche di balli scatenati e rumori di giostre, adesso si sentiva solo il fruscio delle foglie e lo schiamazzare delle galline. Molte delle famiglie proprietarie di baracconi avevano chiuso le loro attività, ma erano rimasti a vivere sul posto sfruttando i terreni presi in concessione per coltivare verdure e allevare animali.
Con buona pace dei divertimenti, pensò Emmerich mentre si aggirava tra una giostra in disuso e altalene ormai ricoperte di edera. Qui giace la spensieratezza, sepolta nel cimitero delle gioie.
«Ehi, tu! Aspetta» gridò quando da un chioschetto fece capolino un bimbo lercio e col naso pieno di moccio. Aveva capelli neri e ispidi, indossava pantaloni laceri e sembrava malmesso come l’ambiente circostante. «Sai dove posso trovare Schiller?».
Il bambino, di cui non si capiva se fosse maschio o femmina, si avvicinò, annuì con fare saputo e tese la mano. «Che mi dai se te lo dico?».
Emmerich alzò gli occhi al cielo. «Niente di niente. Sparisci. Me la cavo da solo» e continuò a camminare.
«Aspetta!» gridò il passerotto lercio correndogli appresso e fissandolo con enormi occhi scuri. «Qui è grande, da solo non lo troverai mai!».
Emmerich prese un paio di monete dalla tasca. «Da che parte?».
«Prima i soldi».
«Non so se fare una lavata di capo ai tuoi genitori o invece complimentarmi con loro». Sbuffando mise le monete nella manina sporca del bimbo.
«Lì davanti, nella rimessa». Il bambino indicò una capanna mezzo diroccata, a pochi metri dal punto in cui si trovavano, e si allontanò saltellando.
«Fantastico! Era proprio dove pensavo di provare» gli gridò dietro Emmerich.
Il bimbo si fermò, si girò ed esibì un gran sorriso lasciando intravedere i tanti buchi nella dentatura. «Gli affari sono affari. Alla prossima». Fece la ruota, spiccò un salto e scomparve dietro le rovine di un chiosco per il tiro a segno.
«Spero che non abbia dato dei soldi a quel demonio!». Emmerich vide un uomo alto e imponente dal viso spigoloso e mal rasato. Se ne stava sulla soglia della rimessa con un cavallo di legno sotto il braccio. «Sta sempre a rubacchiare, è una vera iattura». Si tenne chiusa una narice con un dito per soffiarsi l’altra. «Zero creanza, questa gentaglia».
«È lei il signor Schiller?».
«Sì. Perché mi cerca?».
Emmerich esibì il distintivo. «È per l’ospizio che il consigliere Fürst voleva far costruire qui».
L’uomo emise una specie di ringhio, mise giù sull’erba il cavallino di legno e tirò fuori un pezzo di carta vetrata dalla tasca dei pantaloni. «L’ospizio dei matti, ormai non se ne farà più niente. Eppure non sarebbe stato male…». Si accovacciò e cominciò a levigare la vernice screpolata. «La fortuna non è mai stata dalla parte dei giusti».
Emmerich non era per niente sicuro che Schiller rientrasse nella categoria, ma si astenne dal commentare. «Che può dirmi in proposito?».
Schiller indicò in direzione sud-est. «L’avrebbero fatto lì, proprio sulla radura in cima al bosco. Sarebbe stata una benedizione per gli affari. E poi quella gentaglia che se ne sta accampata da quelle parti avrebbe finalmente dovuto smammare». Non fece il minimo sforzo di camuffare l’odio che si sentiva nella sua voce.
«Aspetti aspetti aspetti» tentò di frenarlo Emmerich prima che l’uomo si accalorasse ulteriormente. «Può spiegarsi meglio?».
Schiller si pulì le mani sui pantaloni. «Il Böhmischer Prater sta tornando in voga. Stanno costruendo nuove case a Quellenstraße e Gudrunstraße, stanno migliorando i trasporti e tra poco si spera che ci sarà anche più da mangiare. Stiamo risalendo la china. Piano piano, ma comunque risalendo. Verso maggio, al più tardi, quando farà di nuovo caldo, la gente tornerà qui e avrà voglia di divertirsi. Perché fa sempre piacere bere, mangiare e spassarsela un po’. Lo dicevano pure gli antichi Romani».
«E questo cosa c’entra con l’ospizio?».
«Innanzitutto, l’ospizio avrebbe procurato altro pubblico. Prima gli operai del cantiere e poi i dottori, gli infermieri e i parenti dei matti». Fissò un punto in lontananza e nello sguardo gli brillò odio puro.
«E poi?».
«E poi quei maledetti del circo se ne sarebbero dovuti andare. In autunno sono arrivati e si sono piazzati lì. Senza autorizzazione. Con quelle loro dannate baracche su ruote, i loro dannati bambini e i trucchetti da quattro soldi». Si picchiettò un lato del naso con un dito. «Quei diavoli hanno subodorato che presto ci sarà di nuovo qualcosa da rubare». Poi fissò Emmerich. «Lei che è uno sbirro, non può proprio farci niente?».
«Non rientra nelle mie competenze. Per queste cose deve rivolgersi alla municipalità».
«Pfff, allora restiamo nella merda. Sono andato a lamentarmi già tre volte, ma niente. Se non costruiscono più l’ospizio finisce pure che a quella marmaglia gli danno il terreno in concessione. Così poi quelle canaglie si piazzano qui come zecche e ci rubano i clienti». Continuò a scartavetrare il legno con tanta forza che Emmerich temette per le sorti del cavallo. «Noialtri ci abbiamo messo generazioni a costruire qualcosa, poi arrivano questi e ci mangiano tutto. Feccia di merda».
«Insomma, una concessione ha un certo valore» prese a riflettere Emmerich a voce alta. «Abbastanza da uccidere?».
Schiller tese le orecchie. Mise da parte la carta vetrata e lasciò in pace il cavallino di legno. «Lo sapevo che non era stato quel Navratil, quel povero storpio». Si alzò e mise una mano sulla spalla di Emmerich. «Faccia attenzione» disse con fare cospiratorio. «Sarà stato di sicuro uno di quelli. Non hanno rispetto e sono capaci di qualsiasi infamità. Per garantirsi il terreno e continuare a vivere lì sarebbero capacissimi di uccidere».
«Quelli? E chi sarebbero “quelli”, di preciso?». Schiller aveva imprecato molto, ma non aveva detto chiaro e tondo a chi si riferisse.
Emmerich si preparò una sigaretta che Schiller si affrettò ad accendergli. «Vada a vedere coi suoi occhi. Devo chiamare i ragazzi? Possiamo coprirle le spalle».
«Grazie, ma so badare a me stesso. Arrivederci». Emmerich soffiò il fumo in aria e si fece strada sul sentiero invaso dalle erbacce che portava alla radura. Era proprio curioso di vedere cosa avrebbe trovato.
Sul campo davanti al bosco di Laa, amata meta di escursioni grazie ai pittoreschi sentieri e alla vista meravigliosa sul Danubio, alcune baracche su ruote dipinte a colori vivaci formavano un semicerchio avanti al quale scorrazzava un gruppo di persone decisamente particolari – un mangiatore di fuoco tatuato dalla testa ai piedi si esercitava nel suo numero mentre accanto a lui un maciste vestito di una pelle d’orso dall’aria vissuta faceva roteare in aria delle sfere di ferro. Una donna in frac e cilindro provava un numero con una muta di cani addestrati e un uomo-serpente contorceva il suo esile corpo in posizioni impossibili, mentre una ragazza con lunghe trecce nere suonava una musica commovente con la sua cetra.
«Sono una zingara, amo e odio come nessuno mai… Sono una zingara, né pace né requie trovo mai…». Quando Emmerich fu più vicino si accorse che aveva sei dita a ogni mano.
«Ma porca miseria, Lisa» gridò il mangiatore di fuoco lanciando una fiaccola in fiamme in aria e riacciuffandola dietro la schiena. «Non potresti cantare qualcosa di allegro, una volta tanto?».
Lei lo fulminò con lo sguardo, poi però fece cenno di sì e attaccò con un brano della Principessa della ciarda, un’operetta che aveva riscosso grande successo pochi anni prima.
La gaia melodia rallegrò l’atmosfera e gli artisti tornarono a dedicarsi ai loro esercizi.
Emmerich era stupito e ammirato al tempo stesso – e capì. Ecco come doveva essere una fiera: esotica, colorata e spettacolare. Non si stupiva che i proprietari dei baracconi considerassero i circensi come una minaccia.
«Chiedo scusa» disse rivolgendosi a una ragazza intenta a stendere il bucato. «Avrei un paio di domande. Con chi potrei parlare?».
La donna si voltò e per poco Emmerich non si ingoiò la lingua. La donna dagli scintillanti occhi verde smeraldo aveva una folta e riccia barba che le arrivava fino al petto. «Che domande?».
Emmerich, ancora a corto di parole, le mostrò il distintivo.
«Farà meglio a rivolgersi alla signorina Melek, la nostra direttrice» disse la ragazza indicando verso il gruppo.
«La donna in frac con il gruppo di cani?».
«No, quella è Pia dei barboncini. Quella dietro».
Emmerich aguzzò la vista. Dietro Pia e i suoi barboncini danzanti non c’era nessuno.
Gli prese delicatamente il mento ferito tra le mani per fargli abbassare lo sguardo. «Liscio come uno scolaretto» disse accarezzandosi in maniera ostentata il folto della propria barba.
Emmerich, a cui era cresciuta la barba già a tredici anni, le scoccò uno sguardo scettico. «La signorina Melek dev’essere un’esperta donna-camaleonte» disse poiché continuava a non vedere nessuno.
«Sulla scala della baracca, il gradino più in alto».
Emmerich guardò con più attenzione e in effetti si avvide che vi era seduta una minuscola donna, piccola come il bambino che poco prima l’aveva imbrogliato. «E quella sarebbe la vostra direttrice?».
La donna barbuta si mise a ridere. «Le sembra strano, ma aspetti di conoscerla. Il suo nome vuol dire “angelo”, ma “impavida” sarebbe più appropriato. È più coraggiosa della maggior parte degli uomini».
«Non ci vuole poi molto». Emmerich attraversò il piazzale.
«Ehi! Non può mica andarsene in giro così!». La montagna di muscoli lasciò cadere le palle di ferro e gli sbarrò la strada. «Lo spettacolo è tra due settimane e comunque si paga il biglietto».
«Non sono qui per divertirmi. Sono un poliziotto».
«Lascialo passare» disse la signorina Melek. Nonostante avesse una voce da uccellino appena uscito dal guscio le sue parole non ammettevano replica.
La montagna di muscoli si fece subito da parte.
«Che posso fare per lei?» chiese la direttrice quando Emmerich fu al suo cospetto. Aveva il volto di una donna adulta e il corpo di una bambina di sei anni.
Emmerich si presentò e prese posto sul gradino più basso della scaletta, in modo da trovarsi più o meno alla sua stessa altezza. «Si tratta dell’ospizio che Richard Fürst voleva costruire qui. Per portare a termine il suo progetto voi avreste dovuto sgombrare l’area. È corretto?».
La signorina Melek annuì e lo guardò con i suoi vispi occhi castani. «E allora adesso lei crede che per questo abbiamo ammazzato il signor Fürst». Parlò con voce calma e imperturbabile.
«Be’, non è un pensiero poi così campato per aria, no? Lei e la sua gente avete un alibi per la sera di giovedì?».
La donna sorrise ed Emmerich vide due file di dentini bianchissimi. «Avremmo sgombrato volentieri l’area se questo avesse garantito una casa a quei poveri sfortunati».
«Quanta magnanimità…».
«Se c’è qualcuno che sa cosa significa essere scacciati via e ritrovarsi senza una patria, siamo noi. Diversamente dalle persone che avrebbero vissuto qui noi siamo in grado di provvedere a noi stessi. Avremmo di sicuro trovato un altro posticino».
«Ma di sicuro non così buono. A sentire il signor Schiller, nel giro di poco questo quartiere sarà molto vivo».
«Se fossimo davvero così privi di coscienza da piazzarci qui ai danni dei più deboli – cosa che non siamo, ma ipotizziamolo pure – crede davvero che Erwin il Forzuto, Fred Mangiafuoco o Barbara la Barbuta se ne potrebbero andare in giro senza attirare l’attenzione?».
«Loro forse no, ma gli altri?».
«La nostra Lisa dalle Sei dita è ancora una bambina e Jiri…». La signorina Melek si infilò due dita in bocca ed emise un fischio.
L’uomo serpente si avvicinò subito ed Emmerich poté osservare come il suo esile corpo, sottile come un filo, fosse privo di qualunque pigmentazione. E inoltre aveva un naso adunco e molto pronunciato. Due caratteristiche che persino Peppi con la sua vista malandata avrebbe di sicuro ricordato.
La signorina Melek fece un cenno e l’uomo serpente si allontanò di nuovo.
«E la donna dei cani?».
«Pia è sordomuta e non ci sta tanto con la testa. Se la intende bene con gli animali, mentre nel mondo degli uomini non si trova a suo agio».
Emmerich lasciò vagare lo sguardo da un artista all’altro. «Non vive nessun altro, qui?».
«Barbara ed Erwin hanno una figlia, Zuzana. E poi non c’è nessun altro. Mi creda, non siamo stati noi. Siamo persone pacifiche, il nostro motto è “Vivi e lascia vivere”».
La direttrice aveva ragione. In città li avrebbero notati subito, per quanto avessero tentato di travestirsi non sarebbero passati inosservati. Emmerich si strofinò rassegnato gli occhi e sospirò.
«Del resto gira voce che l’ospizio non l’avrebbero costruito comunque» disse la donna interrompendo i suoi pensieri.
«E perché mai?».
«Non lo so. Già prima dell’omicidio la signora della municipalità ci aveva fatto intendere che le cose si stavano mettendo bene per noi». Osservò un punto in lontananza e assunse un’espressione preoccupata. «La prego, non ci crei problemi. Se viene fuori che la polizia sospetta che abbiamo qualcosa a che fare con tutta questa vicenda…». Sospirò. «La gente sa essere cattiva. Soprattutto con quelli come noi».
«Non si preoccupi» la tranquillizzò Emmerich. «Per il momento non correte alcun pericolo».
La signorina Melek sorrise un po’ esitante. «Può spiegarlo lei a Schiller e ai suoi compari? Non vorrei che cogliesse l’occasione per scatenare una caccia alle streghe».
Emmerich sbuffò. Capiva le preoccupazioni della donna, ma non aveva voglia di tornare dal tizio scontroso per raccontargli cose che di certo non voleva sentire.
«La prego». La donna prese la mano di Emmerich tra le sue, minuscole. «Mi farebbe davvero un enorme piacere».
«E va bene». Emmerich si alzò e la guardò. Era alta quanto la piccola Ida. La sua Ida. No, Ida era di Xaver. Il cuore gli si trasformò in un macigno.
«Le siamo debitori. Venga a uno dei nostri spettacoli, le piacerà».
Emmerich promise di farlo e si accomiatò. Fece un cenno di saluto agli altri artisti e tornò indietro zoppicando lungo il sentiero.
«Signor sbirro?». Il bambino che poco prima gli aveva scroccato un paio di monete era in realtà Zuzana, la figlia della donna barbuta e del maciste. Era spuntata fuori dal nulla e adesso gli saltellava accanto. «Hai la faccia così rovinata perché hai fatto a pugni con qualche criminale?».
«La curiosità è pericolosa, non lo sai?».
La ragazzina gli si piazzò davanti puntando i pugni sui fianchi. «Nessuno di noi ha ucciso nessuno».
Emmerich si fermò. «E così hai origliato la nostra conversazione?». Soppesò con lo sguardo la piccola, che gli arrivava sì e no all’altezza del petto, e sperò per lei che non avesse ereditato le peculiarità della madre.
«Per tutto il tempo». Zuzana sorrise orgogliosa. «E non ti sei accorto di me. E nemmeno il tuo amico. Sono una vera indiana» dichiarò con aria di sfida, fiera di sé. «In quanto ad avvicinarmi di soppiatto e spiare non mi batte nessuno».
Emmerich non si lasciò impressionare. «Di che amico parli?».
«L’uomo coi pantaloni marroni, quello che ti seguiva». Osservò l’espressione perplessa sul volto di Emmerich e, vedendo che non replicava, spalancò gli occhi. «Allora non è un tuo amico!» gridò. «Ti ha pedinato per spiarti. E non te ne sei accorto».
Emmerich fece un giro su se stesso e scandagliò la zona. «Dov’è?».
«Si è nascosto».
«E che aspetto ha?».
Zuzana tese di nuovo la mano e lo guardò sfacciata.
Emmerich sghignazzò. «Bel tentativo».
«Sto dicendo la verità» si arrabbiò lei. «C’è davvero un uomo che ti segue» proseguì sollevando ancora un po’ la mano.
«Stavolta non ci casco».
«E allora ciao». La piccola fece un giro intorno a Emmerich, poi un salto e corse via.