La preoccupazione per Luise e Peppi aveva tenuto sveglio Emmerich fino a notte fonda. E poi c’era anche la faccenda del gemello. Un assassino a sangue freddo girava indisturbato per la città ed era lui ad avere in mano l’elemento chiave per catturarlo. Non c’era da tergiversare: doveva riportarlo dove l’aveva trovato, ovvero, nella bocca della signora Abele.
Alle prime luci dell’alba l’irrequietezza lo tirò fuori dal letto. Emmerich mandò giù due compresse di Togal e uscì. Dato che non c’era in vista ancora alcun tram si mise in marcia in direzione dell’Istituto di medicina legale, dove supponeva si trovasse il cadavere dell’anziana donna.
Il sole cominciava a salire nel cielo ma l’aria era gelida e a ogni folata di vento Emmerich incassava sempre più la testa tra le spalle. «Tempo di merda» brontolò mentre svoltava in Wexstraße passando davanti a miseri casermoni di appartamenti in affitto e palazzine di lusso. Vienna si era sviluppata nel più completo disordine, senza un progetto né uno scopo, e così in alcune zone si era venuto a creare un garbuglio tra mondi completamente diversi. Ville e palazzi torreggiavano gomito a gomito con gli alloggi dei poveri, milionari e operai vivevano porta a porta.
Nonostante le pillole la gamba cominciò a fargli male di nuovo, tanto che arrivò in Spitalgasse zoppicando tra smorfie di dolore.
Speriamo che gli affettacadaveri stiano ancora dormendo, così riesco a fare quello che devo fare in santa pace, pensò. Gli serviva giusto un minuto da solo con la vecchia signora, niente di più.
Il portone dell’elegante edificio a tre ali, dietro cui si stagliava l’imponente Narrenturm, la cosiddetta “Torre dei pazzi”, era aperto. La morte non aveva orari. Si moriva sempre – così come si uccideva sempre.
Senza neanche dargli tempo di aprir bocca, Emmerich piazzò il tesserino di riconoscimento sotto il naso del giovane assistente seduto all’ingresso. «Devo verificare una cosa». Uno sguardo tagliente diede a intendere che non avrebbe tollerato altre domande e si avviò senza aggiungere parola verso l’interno dell’edificio.
L’Istituto di medicina legale ospitava una camera settoria, alcuni laboratori, un obitorio, uffici e un ambiente deputato alla conservazione dei cadaveri ancora da esaminare. Emmerich si diresse proprio lì, in quanto era lì che doveva trovarsi la signora Abele – ammesso e non concesso che dovessero ancora farle l’autopsia. C’era sempre qualche tizio in carriera che faceva sfoggio di zelo, per cui Emmerich incrociò le dita confidando nelle lungaggini della burocrazia austriaca.
Mentre zoppicava sulle mattonelle quadrate del pavimento si strinse ulteriormente nel mantello. Pian piano, e cercando di fare meno rumore possibile, come se temesse di svegliare qualcuno, aprì la porta in fondo al corridoio ed entrò in una stanza. C’erano tre bare, ciascuna con un cadavere coperto da un lenzuolo bianco. Tre decessi per cui non si poteva escludere responsabilità di terzi.
Sollevò il primo lenzuolo e si ritrovò a fissare il volto livido di un vecchio. Aveva un’espressione burbera e sofferente. La morte non era sempre gentile, non conferiva a tutti un’espressione pacifica. Emmerich osservò il corpo rigido che non mostrava alcun segno di violenza. Di che cosa era mai morto?
«Posso aiutarla?».
Emmerich si guardò intorno. «Sant’Iddio» sbraitò all’indirizzo del giovanotto, verosimilmente uno studente di medicina, incontrato all’ingresso. «Come le viene in mente di avvicinarsi così di soppiatto?».
«Ho pensato che potesse aver bisogno di aiuto».
«Grazie, ma me la cavo benissimo da solo».
«È venuto per il signor Färber?». Il ragazzo non accennava minimamente a sgomberare il campo. Al contrario: si piazzò accanto al morto e cominciò ad armeggiare col cartellino attaccato all’alluce.
«Sto cercando la signora Abele».
«Eccola». Il giovanotto sollevò il telo che copriva la bara di mezzo.
Lo sguardo di Emmerich si puntò immediatamente sul petto della donna. Era intatto – grazie a Dio l’autopsia non era ancora stata eseguita.
«Cosa voleva verificare?».
Emmerich trasse un profondo respiro. Era stanco, sotto pressione e non aveva nessuna voglia di addentrarsi in scomode discussioni. «Devo assicurarmi che le scartoffie siano state riempite a dovere. Di recente c’è stato qualche problema». Mentre pronunciava con enfasi l’ultima parola, guardò il giovanotto in maniera inequivocabile. «Ci potrebbero essere delle noie».
«I documenti sono lì davanti. Venga…».
«Me li porti qui». Emmerich era sul punto di sbottare. Gli serviva solo un attimo a tu per tu con quel cadavere. Dannazione, era chiedere troppo? «Che cosa sta aspettando?» imprecò. «Vada a prendere quelle scartoffie così posso correggerle e andarmene».
Era evidente che il tono aggressivo di Emmerich aveva spaventato il giovanotto, che sparì senza dire una parola.
Finalmente.
Emmerich ripescò dalla tasca il gemello e lo ripulì col lenzuolo che copriva il cadavere. Poi infilò un dito tra le gelide labbra della signora Abele e tentò di aprirle. «Accidenti» esclamò quando la bocca della morta non cedette nonostante tutti i suoi sforzi. Ormai era subentrato il rigor mortis. A questo non aveva pensato. Niente panico, però.
«Posso aiutarla?».
Emmerich si girò, si portò una mano al cuore e si ritrovò a fissare il volto di Alberlin Wiesegger, il giovane assistente del medico legale. Ci aveva già avuto a che fare una volta e aveva imparato che Wiesegger era sì un novellino, ma per niente ingenuo. Non era tipo a cui raccontare una sciocchezza qualsiasi. «Avvicinarsi di soppiatto va di moda, a quanto vedo» rispose a mo’ di rimprovero.
«Mi spiace. Non siamo abituati a ospiti che si spaventano». Wiesegger si accostò a Emmerich. «Che cosa ci fa così presto qui all’Istituto di medic… Ma che le è successo alla faccia?». Osservò le tracce lasciate dal combattimento. «È conciato proprio male».
«Gli incerti del mestiere» disse Emmerich con aria distratta. I pensieri nella sua testa giravano più veloci di una giostra. Andarsene senza aver rimesso le cose a posto? Era da irresponsabili. Confessare l’errore? No, sarebbe stato un suicidio dal punto di vista lavorativo. Che doveva fare?
«E come va con la gamba?».
Puri convenevoli. Tra un attimo Wiesegger sarebbe andato dritto al punto. Non gli rimaneva molto tempo. «La gamba…». Emmerich cercò una risposta che potesse tenere a bada il futuro dottore, e magari tenerlo lontano da quella stanza per un paio di minuti. «La gamba…». Non gli veniva in mente niente. «La gamba…» riprese e alla fine gli venne un’idea. «Non tanto bene, ieri ne ha prese un bel po’. E per di più l’artrofibrosi peggiora».
«Ecco qui i documenti di ingresso». Il giovanotto era di ritorno.
Tre vivi e tre morti. Parità. Doveva succedere di rado.
«A che le servono?» chiese Wiesegger.
Emmerich tese la mano per prendere i documenti, fece un passo poi finse di inciampare e con un urlo di dolore si lanciò contro la bara. Il contenitore di metallo oscillò, il cadavere scivolò fino al bordo e fu solo per il coraggioso intervento di Wiesegger che non finì per terra. «Mi dispiace». Emmerich si afferrò il ginocchio. «Non fa che peggiorare».
Wiesegger assunse un’espressione interessata e risistemò il cadavere, mentre il giovanotto dell’ingresso fece per sorreggere Emmerich. «Ferita di guerra?» chiese.
«Scheggia di granata, sul fronte italiano» rispose Emmerich giocandosi la carta del veterano. «Nella battaglia di Vittorio Veneto mi…». Poi si fermò, spinse via la mano del giovanotto e si chinò verso il pavimento. «Appartiene a uno di voi due?» chiese mostrando il gemello.
«Mio, non è». Lo studente prese il gemello, lo osservò e lo porse a Wiesegger.
«E mio neanche. Non faccio parte dell’associazione».
«Che associazione?».
«La MV».
«MV?».
«Misericordiae Vultus. Vede questa figura femminile? È l’emblema dell’associazione».
«Miseri… cosa?». Emmerich aggrottò la fronte.
Wiesegger rigirò il gemello tra le dita. «Misericordiae Vultus. Tradotto vuol dire qualcosa come “il volto della misericordia”. Politici, ricchi uomini d’affari, benefattori… gente con soldi e potere che si sono riuniti per dedicarsi a opere buone».
«Ovvero?».
«Cercare di migliorare le condizioni della nostra giovane nazione. La popolazione è esausta. Fame, malattie, i tanti morti e invalidi – a che pro? E poi ci sono poche case e pochissimo lavoro. Tutte cose che non aiutano a tenere alto il morale».
«Dovesse scoppiare a breve un’altra guerra, Dio non voglia, saremmo messi veramente male» aggiunse il giovanotto. «Se arrivano i russi siamo spacciati».
Wiesegger sollevò un sopracciglio. «E pure se arrivano gli italioti o i mangiabaguette».
Emmerich sbuffò. «Per come è messa l’Austria non saremmo capaci di opporre grande resistenza nemmeno agli svizzeri. E cos’è che farebbe di preciso, questa Miseriqualcosa?».
«Mi-se-ri-cor-diae Vul-tus». Wiesegger ci pensò su. «In realtà fanno le stesse cose della maggior parte degli enti di beneficenza. Distribuiscono pasti, raccolgono vestiti usati da donare ai poveri e si impegnano per far sì che vengano costruiti alloggi decenti, in modo da evitare che le famiglie debbano vivere strette come sardine in buchi infestati da topi».
Emmerich tentò di collegare tutte quelle nobili intenzioni all’immagine della povera signora Abele, morta.
«E inoltre si impegnano affinché gli invalidi tornino a essere abili al lavoro e a debellare i focolai epidemici. Vogliono un sistema assistenziale migliore per i bambini e vogliono che le madri vengano istruite meglio su alimentazione e igiene».
«Una buona associazione» constatò Emmerich. Nelle cui fila si nasconde un assassino, aggiunse tra sé e sé.
«Assolutamente sì». Wiesegger osservò il gemello. «Il che però non spiega come mai questo affare sia arrivato qui».
«Forse è del professor Hirschkron» disse il giovanotto.
«Non che io sappia. E tra l’altro ieri sera sono passati quelli delle pulizie, e da quel momento nessuno di noi ha messo piede in questa stanza».
«Non potrebbe essere caduto dal cadavere, quando ho urtato la bara?» chiese Emmerich con aria innocente. «Magari ce l’aveva tra i capelli… la donna si è difesa strenuamente, forse è rimasto impigliato lì».
«Sì, è possibile» annuì Wiesegger. «Anzi, oserei dire molto probabile». Si rivolse al giovanotto. «Mettilo in una bustina e fallo consegnare per direttissima all’ispettore Brühl della sezione Omicidi». Poi porse le scartoffie a Emmerich.
«Che devo farci?».
«Non voleva verificare che fosse tutto a posto?».
«Ah, certo!». Emmerich si portò una mano alla testa. «Sono in astinenza da caffeina, stamattina, sono ancora un po’ assente. Non è che per caso avete un po’ di caffè?».
«Porta un caffè all’ispettore» urlò Wiesegger all’indirizzo del giovanotto. «Bello forte».
Emmerich fece finta di studiare la documentazione lasciando vagare i pensieri nel frattempo. Perché mai un membro di un’associazione così illustre, che si era data come obiettivo il bene del popolo, dovrebbe uccidere un’insignificante vecchietta? Cosa mai poteva aver fatto per meritare una fine del genere? Forse c’erano dei motivi personali. Qualche dissapore tra famiglie o tra vicini di casa.
Cosa te ne frega, del resto?, si rimproverò. La Abele, la Miserivattelapesca e il gemello non erano prove sue, ma di Brühl. Aveva fatto tutto ciò che poteva per non ostacolare le indagini. Adesso era ora di dedicarsi al suo, di caso.
«Ecco, prenda». Il giovanotto gli porse una tazza bollente. «A posto così?».
«Sì sì». Riconoscente, Emmerich bevve un sorso. Nero, forte e amaro. Proprio quel che gli ci voleva. «Ah… intendeva i documenti». Solo in quel momento capì che la domanda verteva sulle scartoffie e non sul caffè. «Impeccabili. Non c’era da dubitarne, del resto. Continuate così». Gli diede una pacca sulla spalla e si rivolse a Wiesegger. «Scusi ancora per prima» disse indicando il cadavere.
«Non l’ha fatto mica apposta».
Emmerich bevve il caffè, si congedò e zoppicando ancora più vistosamente guadagnò l’uscita.
Chi avrebbe mai pensato che quella dannata gamba gli sarebbe tornata utile di nuovo!