Dove diamine eravate finiti? Il vostro turno iniziava due ore fa!». Quando Emmerich e Winter fecero il loro ingresso in ufficio l’espressione sul volto della signorina Grete oscillava tra rabbia e preoccupazione. La donna si avvicinò: «Brühl è fuori di sé dalla rabbia» sussurrò, indicando la scrivania dei due ispettori su cui c’erano cumuli di fascicoli. «Le indagini sul caso Abele sono in corso e se voi…».
«Va bene, va bene». Emmerich gettò il mantello sulla prima sedia che gli capitò sotto mano, si sedette alla scrivania e si accese una sigaretta. Possibile che fosse solo la seconda da stamattina? Passato l’attimo di nervosismo, osservò meglio la centralinista. Aveva qualcosa di diverso.
«Oggi è molto carina». A quanto pareva anche a Winter era saltata all’occhio la trasformazione della donna, che anziché indossare il solito completo o grembiule da ufficio di lana grigia o marrone portava una gonna a quadrettini con un’ampia cintura che sottolineava il suo vitino da vespa e una blusa di taffetà nero con collo a scialle e polsini. Ma la cosa che spiccava di più era la pettinatura: invece di essere raccolti nella solita crocchia, i capelli le scendevano in morbide onde a incorniciarle il volto.
La giovane telefonista arrossì e si ravviò una ciocca. «Grazie» disse.
«Come la Haidrich» commentò secco Emmerich e, indicando il mucchio di fogli sparsi, disse: «A questi pensiamo noi».
La signorina Grete rimase senza parole, non si sa se per il paragone o per l’inaspettata arrendevolezza mostrata da Emmerich. Con fronte aggrottata e sguardo vagamente preoccupato tornò al proprio lavoro.
«Valle a capire, le donne». Emmerich cominciò a dare una scorsa ai vari documenti e a suddividerli. Gli uomini di Brühl avevano lavorato tutta la notte, producendo una marea di scartoffie. Oltre a Else Ziskal avevano interrogato tutti i vicini di casa della vittima, raccogliendo dichiarazioni dettagliate. Avevano fotografato il luogo del delitto, frugato in tutta casa alla ricerca di tracce e informato i parenti. «Efficiente, è efficiente, questo bisogna riconoscerlo a quel pallone gonfiato».
«Abbassi la voce» sibilò Winter lanciando uno sguardo alla porta. «Abbiamo già abbastanza guai».
«Ma era un complimento». Preso com’era dagli appunti, gli cadde la cenere della sigaretta a terra. «I vicini non hanno visto o sentito niente» disse dopo un po’. «Tu hai trovato qualcosa di utile?».
Winter caricò la macchina da scrivere con fogli bianchi e carta carbone. «Non risulta che sia stato rubato nulla» disse. «Pertanto non è un omicidio in seguito a rapina».
Emmerich soffiò alcuni anelli di fumo in aria. «Trovato qualcosa su Völzer o Fürst?».
«Finora niente». Winter batté a macchina con una mano sola il primo foglio e passò al successivo. «Era una donna molto buona e gentile» disse leggendo la testimonianza di un fattorino. «Una persona stupenda, un angelo che si occupava dei poveri. Dev’essere stato un pazzo a ucciderla, o il diavolo in persona».
Emmerich si allungò sulla pila di documenti di cui si stava occupando Winter e iniziò a sfogliarli.
«Quand’è stata l’ultima volta che ha mangiato?» gli chiese l’assistente.
Solo a quel punto Emmerich si accorse che il suo stomaco brontolava, in maniera distinta e rumorosa. «Boh». La fame… una sensazione a cui le persone a un certo punto si abituavano tanto da riuscire a ignorarla. Immediatamente pensò a Luise e ai bambini. L’immagine di loro davanti alla mensa dei poveri, smagriti e trascurati, gli si era impressa a fuoco nella memoria e non l’avrebbe dimenticata tanto facilmente. Non prima di averli liberati dalle grinfie di Xaver Koch.
Cercò di riconcentrarsi su quello che stava facendo ma il pensiero di Luise non lo lasciava. C’era qualcosa. Qualcosa di importante che non aveva strettamente a che fare con lui, bensì con…
Else Ziskal! All’improvviso un’illuminazione. Gli pareva di averla già vista da qualche parte! Era lei a distribuire i pasti. Torni domani, ci sarà di nuovo una zuppa. E forse anche del pane.
Johanna Abele, pensò, e guardò la signorina Grete, intenta al suo lavoro. Non sembrava curarsi di lui o di Winter, tuttavia Emmerich abbassò la voce per comunicare la sua scoperta all’assistente.
«Johanna Abele aiutava i poveri, offriva loro pasti caldi… raccoglieva cibo… proprio come Fürst si era impegnato per i reietti, gli emarginati, i più bisognosi. Ecco cosa li accomuna entrambi».
Winter sgranò gli occhi. «Ma il movente qual è? Perché Völzer avrebbe dovuto uccidere proprio due buoni samaritani?».
Emmerich si grattò la testa e continuò a riflettere. «I gemelli» disse alla fine. «Sopra i gemelli c’è l’emblema dell’associazione caritatevole. Non può essere un caso». Un sorrisino gli rischiarò il volto cupo. «Quella donna, “il volto della misericordia”, il simbolo di quell’associazione Come-si-chiama…».
«Misericordiae Vultus?». Winter sollevò un foglio che riportava il nome e l’indirizzo dell’associazione.
«Esatto. Ci serve la lista completa degli iscritti e una descrizione dettagliata delle attività».
«Di sicuro Brühl ha già mandato qualcuno a occuparsene».
«I colleghi non sanno niente di Völzer e del suo legame con Fürst. Faranno le domande sbagliate. Dobbiamo pensarci noi». Emmerich afferrò il mantello e fece per alzarsi, quando Brühl entrò nella stanza.
«Oh oh». Winter chinò il capo.
«Uh, guarda guarda chi si vede. Emmerich e Winter. Che onore». Brühl si piazzò davanti a loro a braccia conserte. «Dove eravate finiti?».
«Dovevo risolvere una faccenda privata. E il signor Winter mi ha dato una mano».
«Invece io penso che ieri sera siete rimasti fino a tardi al Rote Bretze e stamattina dovevate smaltire la sbornia».
Emmerich fece per replicare ma Brühl non gliene lasciò la possibilità. «Tanta impertinenza è intollerabile. Non appena l’ispettore capo Gonska sarà di ritorno farò rapporto sulle vostre intemperanze. E spero che ne tragga le dovute conseguenze».
«Vedremo. Non è ancora detto» disse criptico Emmerich.
Brühl lo scrutò con diffidenza. «Lo sapevo che stavate tramando qualcosa. Che cosa ha in mente, Emmerich?».
«Io? Niente!». Emmerich piazzò l’avanzo di sigaretta all’angolo della bocca e con fare ostentato sistemò un foglio di carta nella macchina da scrivere. «Cosa mai posso avere in mente? Sono solo un insignificante servitore dello Stato».
«Certo, come no… una dannatissima fonte di guai, ecco cos’è!». Brühl sbuffò e guardò l’ora. «La posta va smistata entro le cinque, e sempre per quell’ora voglio tutte le dichiarazioni dei testimoni e le perizie battute a macchina sulla mia scrivania. E se manca anche solo una lettera, ve la vedrete brutta». Uscì impettito dalla stanza. «Entro le cinque, Emmerich» gridò da fuori. «Non un minuto più tardi».
«Pezzo di merda» mormorò Emmerich alzandosi.
«Forse dovremmo rimandare la nostra visita alla Misericordiae Vultus» suggerì Winter con cautela. «Magari dopo che avremo finito questo lavoro».
Emmerich indossò il mantello. «Il tempo passa. Ci rimangono solo quarantott’ore per compiere questa missione quasi impossibile. E poi domani gli uffici dell’associazione saranno sicuramente chiusi, e Brühl si inventerà qualche altra scusa per tormentarci». Si accostò alla finestra e guardò le acque scure del Canale del Danubio. «La cosa migliore è che vada io, mentre tu resti a presenziare qui. Magari ce la fai anche da solo per le cinque».
Winter fissò sgomento la montagna di posta e documenti, e il braccio appeso al collo.
«Pensavi anche che fosse impossibile mettere al tappeto Pessolt lo Spezzaossa, e invece…». Emmerich abbozzò un sorriso d’incoraggiamento al suo assistente, ma con scarso successo. «A dopo» disse andandosene.
Arrivato in strada si allontanò il più velocemente possibile dall’edificio del commissariato. Mandò giù un’altra compressa di Togal, ma non c’erano paragoni con l’eroina: non faceva lo stesso effetto. Maledicendo quel dannatissimo mangiaspaghetti che gli aveva piazzato una scheggia di granata nella gamba zoppicò fino a Währinger Straße e si lasciò inghiottire dal turbinio di persone, carrozze e cavalli.
«Per riportarli a casa! Un’offerta per riportarli a casa!». Una giovane donna gli sbarrò il passo. Era alta e sottile come un giunco e lo guardava piena di aspettativa.
Emmerich tentò di schivarla, ma lei allargò le braccia e gli tese un foglietto.
«Pochi Heller per riportare a casa i nostri prigionieri di guerra. 240.000 di loro marciscono ancora in Siberia, Russia e Turkestan. Aiutateci a riscattarli e organizzare il loro viaggio di ritorno».
«Non ho un soldo». La scartò. «E poi…» mormorò rivedendo nella mente la faccia di Xaver Koch, «…e poi non è detto che sia un bene che tornino tutti».
La donna dapprima lo fissò a bocca aperta, poi lo ricoprì d’insulti.
«Quel che è una gioia per qualcuno è un dolore per qualcun altro» disse più a se stesso che ai passanti che lo fissavano costernati.
Per qualche imperscrutabile motivo quella frase non gli uscì di testa finché non arrivò alla sede dell’associazione MV.
Era un maniero dalla facciata ordinata e alte finestre ad arco. Se avessero scelto un edificio meno pretenzioso di sicuro avrebbero avuto più soldi a disposizione per le opere di carità, pensò Emmerich di malumore. Stava per attraversare la strada quando due degli uomini di Brühl uscirono dal portone. Entrambi ben vestiti, grazie ai cappotti in pesante tessuto invernale con colli in pelliccia di lontra e manicotti altrettanto guarniti di pelliccia, a giudicare dall’espressione erano molto solerti.
Si trincerò dietro a una vicina colonna per le affissioni e fece finta di studiare con attenzione i cartelloni dei teatri della città che annunciavano gli spettacoli in scena. Pigmalione: il professor Henry Higgins scommette di riuscire a introdurre nell’alta società una semplice fioraia dopo averle insegnato a esprimersi come si deve. Hasard: un giovanotto patito di gioco d’azzardo viene riportato sulla retta via grazie all’amore e alla dedizione di una ragazza coraggiosa. Tannhäuser: la gara dei cantori della Wartburg…
«Tutta la stessa merda».
Quando gli uomini di Brühl furono scomparsi dietro l’angolo Emmerich entrò svelto nell’edificio.
L’associazione Misericordiae Vultus era al primo piano ed era proprio come Emmerich se l’era immaginata: sale imponenti e arredate con colori tenui e legni costosi. Emanavano un’aura di rappresentanza che ispirava fiducia, turbata leggermente soltanto dal tremendo sospetto che un assassino privo di scrupoli potesse avere a che fare con tutto ciò.
Una segretaria bionda e molto attraente accompagnò Emmerich nell’ufficio del consigliere Ulreich, il presidente. «Il signor Ulreich la raggiunge subito, nel frattempo le porto un tè e qualche biscotto» disse la segretaria dopo che lo stomaco di Emmerich aveva di nuovo iniziato a manifestarsi.
L’ispettore annuì riconoscente, si lasciò cadere in una morbida poltrona in pelle e si guardò intorno. Immediatamente fu colpito dalla vista di un enorme dipinto alla parete in fondo alla stanza. Era un ritratto a olio e raffigurava l’emblema dell’associazione: la donna dall’ampio vestito, il volto della misericordia. Quel quadro la mostrava in tutto il suo splendore.
Era così bella che Emmerich non riusciva a distogliere lo sguardo. Il viso ben proporzionato emanava calma e bontà, lo splendido vestito rosso ne avvolgeva il corpo snello in morbide onde e l’intera figura sembrava soffusa di una sublime superiorità.
«Magnifica, vero?». La segretaria era già di ritorno e stava appoggiando un vassoio d’argento sul tavolino davanti a Emmerich.
«Già». Emmerich smise di contemplare la donna in rosso, mangiò un biscotto ripieno di marmellata e lo mandò giù con un sorso di tè. Poi si rullò una sigaretta, si abbandonò contro lo schienale e lottò contro la stanchezza che montava sempre più. Per un istante lasciò che le pesanti palpebre si chiudessero.
«Cosa posso fare per lei?». Una voce profonda e sonora lo riscosse da quel brevissimo sonno.
Emmerich fece un balzo e si ritrovò a guardare dritto in faccia un uomo alto e ordinato. Neanche un granellino di polvere sull’abito sartoriale che aveva indosso, neanche un capello fuori posto dall’azzimata pettinatura. «Sono l’ispettore August Emmerich. E lei dev’essere il signor Ulreich». Emmerich sapeva che avrebbe dovuto alzarsi e stringergli la mano, ma restò seduto. Lo sfinimento prevalse sulle buone maniere. «Avrei bisogno di un paio di informazioni su Johanna Abele».
Ulreich si schiarì la gola e aggrottò la fronte. «Informazioni? Sulla signora Abele? I suoi colleghi mi hanno appena fatto un mucchio di domande in proposito, sono andati via cinque minuti fa. Li ha mancati per un soffio, mi creda».
«Io sto seguendo un’altra pista». Emmerich gli indicò una sedia, neanche fosse lui il padrone di casa.
Ulreich sembrava incerto su come comportarsi. Si sistemò l’impeccabile giacca e poi si passò una mano sul mento volitivo. Alla fine si sedette, accavallò le gambe e incrociò le braccia. «La ascolto».
Emmerich indicò gli scintillanti gemelli che ornavano i polsini della camicia di Ulreich. Al pari di quelli che aveva ritrovato nella bocca della signora Abele e nel cassetto della scrivania di Völzer, avevano l’emblema della Misericordiae Vultus. «Oltre a lei, chi indossa gemelli di questo tipo?» chiese.
«Anche a questa domanda ho già risposto, ai suoi colleghi poco fa. Tutti i signori che fanno parte dell’associazione. Le signore, invece, hanno una spilla».
«Mi serve una lista dei membri della vostra associazione».
«L’ho già data ai suoi coll…».
«Come le dicevo: sto seguendo una pista diversa». Emmerich si infilò in bocca un altro biscotto e si mise comodo in poltrona.
Ulreich sospirò. Capì che era inutile opporre resistenza e che il modo più rapido per liberarsi di quell’ospite indesiderato era collaborare. «Signorina Hilde» chiamò. «Mi serve un’altra lista dei membri della nostra associazione».
Emmerich annuì. «Adesso mi racconti qualcosa in più sulla Miserico… sulla vostra associazione» propose. «Come si diventa membri? Quali scopi persegue?».
«Anche di questo ho già…» attaccò Ulreich, poi si zittì e prese un bel respiro. «La Misericordiae Vultus è stata fondata da me e dal generale Častolowitz quattro anni fa». Fece una pausa d’effetto e gettò uno sguardo a Emmerich, come se si aspettasse una qualche reazione. Che però non arrivò.
Emmerich si accese la sigaretta e fissò il suo interlocutore con aria interrogativa.
«Il barone Ignatius von Častolowitz, direttore del museo di storia militare, il grande eroe che in Russia ha riportato importanti vittorie per il bene della nostra nazione. Non lo conosce?».
«Mi spiace, ma durante la guerra ero impegnato a schivare pallottole sul fronte italiano». Emmerich soffiò qualche anello di fumo in aria.
«Comunque… un giorno io e il generale abbiamo deciso che non potevamo restarcene con le mani in mano di fronte alla miseria provocata dalla guerra. Abbiamo fondato questa associazione per poter fare qualcosa. Chiunque può entrarne a far parte a fronte di un contributo annuale di diecimila corone».
Emmerich fischiò tra i denti. «Una bella somma. E che cosa offrite in cambio?».
«A parte la bellissima sensazione di fare del bene?». Ulreich scosse la testa. «Be’, ecco» aggiunse, «far pare dell’associazione dà molto lustro».
«Ed ecco perché i gemelli e la spilla. I vostri gioielli sono l’equivalente delle medaglie di guerra. Uno se l’appunta, la sfoggia e si sente importante».
Ulreich storse il naso e si risistemò il pince-nez. «La prego!».
«E con i soldi finanziate progetti di beneficenza» aggiunse Emmerich nel tentativo di alleggerire l’atmosfera.
«Esattamente». Ulreich si rilassò di nuovo. «L’anno scorso abbiamo finanziato un centro per la cura dei neonati e un progetto di edilizia popolare per vedove e orfani. Al momento sosteniamo un centro di riabilitazione per feriti di guerra. Un bellissimo progetto che dà a moltissimi uomini nuove prospettive e nuovo entusiasmo».
Si udì bussare, la signorina Hilde entrò nella stanza e tese a Ulreich la lista.
La prese Emmerich. «Un bel po’ di nominativi» disse infilandosi in bocca l’ultimo biscotto. Vi erano elencati ricchi banchieri, parvenu che avevano fatto i soldi grazie all’ultima guerra, ex nobili e artisti famosi. «Gustav Bahrfeldt» lesse a voce alta. Anche il dottore gli aveva parlato del centro di riabilitazione.
«Lo conosce?».
«Vagamente». Emmerich continuò a leggere e, quando incappò nel nome di Völzer, avvertì un formicolio alla pancia. «Anche Johanna Abele era legata alla vostra associazione?».
«Ma certo. Fino a poco tempo fa ne faceva parte anche lei, come ho già avuto modo di dire ai suoi coll…».
«E il consigliere comunale Fürst?».
Ulreich si mostrò sorpreso. «Questa invece è una domanda nuova». Si accarezzò il mento e annuì. «Sì, anche lui aveva fatto parte della nostra associazione».
La stanchezza che aveva avvolto Emmerich come una nebbiolina si dissolse all’istante. Finalmente aveva trovato un legame tra le due vittime. Si raddrizzò e fissò l’uomo che aveva di fronte. «E perché poi entrambi ne erano usciti?».
Ulreich si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Un certo ricambio è assolutamente normale, persone che escono e altre che entrano. Credo che il signor Fürst fosse a corto di soldi e la signora Abele aveva trovato altri modi di fare del bene».
«E quando hanno lasciato l’associazione?».
Ulreich ci pensò su. «La signora Abele poco prima della fine della guerra, il signor Fürst invece circa sei mesi fa. Continuo a non capire come mai lei mi stia…».
«E il signor Völzer? Ha avuto mai a che fare con loro due? Si era offeso per il loro abbandono?».
«Völzer? Offeso? E perché mai?».
«C’erano stati litigi o erano volate parole grosse?».
«Ma assolutamente no. Non so nemmeno se il signor Völzer sapesse della fuoriuscita della Abele e di Fürst. Trattiamo queste faccende con la massima discrezione e, anche se lo fosse venuto a sapere, perché mai avrebbe dovuto arrabbiarsi? Non si poteva certo rimproverare al signor Fürst di trovarsi in difficoltà finanziarie, e la signora Abele aveva comunque continuato a occuparsi dei più bisognosi».
«In effetti, come darle torto». Emmerich ci pensò su. Che cosa potevano aver mai fatto la Abele e Fürst per meritare la morte? «Oltre a loro due, c’è stato qualcun altro che negli ultimi anni ha abbandonato l’associazione?».
«Mi ci faccia pensare». Ulreich si tolse il pince-nez e si massaggiò la radice del naso. «Alcuni dei nostri benefattori sono morti in battaglia oppure in seguito all’influenza spagnola» meditò. «Il 1918 è stato un anno orribile, sono morti in tanti».
«Non mi fa piacere sottolinearlo, ma si è ricominciato a morire. Non nella stessa misura, certo. Prima avrò le informazioni che mi servono e prima potremo mettere fine a questa nuova ondata di morte».
«Konrad Seifert ha fatto degli investimenti sbagliati e ha dovuto dichiarare bancarotta. Idem per Richard Elsner, e Theodora Zeinrath…». Aggrottò la fronte. «Non ho idea del perché non abbia più voluto sostenerci. Presumo che anche lei abbia avuto delle difficoltà finanziarie».
«Potrebbe darmi l’indirizzo di tutti e tre?».
«Seifert si è ammazzato a furia di bere, Elsner è emigra-to negli Stati Uniti e la signora Zeinrath vive nei pressi di Schwarzenbergplatz. La signorina Hilde le darà tutti i dettagli».
«Un’ultima cosa… dove si trovava ieri sera verso le otto?» chiese Emmerich per sicurezza, benché fosse persuaso che Ulreich non avesse nulla a che fare con gli omicidi.
«Io?». Ulreich fece un tale balzo sulla sedia che il pince-nez gli cascò dal naso. «Ero…». Arrossì e la fronte gli si imperlò di sudore. «Avevo una riunione».
«Con chi?».
«Con la signorina Hilde. Una questione di lavoro».
«A-ah». Poiché aveva esaurito le domande, Emmerich schiacciò la sigaretta nel posacenere d’argento e si alzò. Zoppicando tornò in anticamera, si fece dare l’indirizzo di Theodora Zeinrath dalla bella signorina Hilde e se ne andò. «E così, in questi ambienti, si dice “riunione”» mormorò sogghignando.