Nel 1857 l’imperatore Francesco Giuseppe aveva commissionato la costruzione della cosiddetta Ringstraße, un boulevard elegante e sfarzoso su cui dovevano affacciarsi ben ottocentocinquanta edifici monumentali. Per questo gigantesco progetto servivano milioni e milioni di mattoni, e anche migliaia di operai che li producessero.
Nelle fornaci alla periferia sud di Vienna, una zona ricca d’argilla, vennero spediti così tanti uomini, donne e bambini dalla Boemia e dalla Moravia che Vienna divenne presto la seconda più grande città ceca al mondo – e al contempo un mostro in cui sfruttamento e schiavismo erano all’ordine del giorno.
A oggi la situazione era ancora la stessa, poiché i diritti menzionati da Liebenthal non si erano ancora affermati dappertutto.
Quando salirono sul Wienerberg con il tram, Winter sollevò il bavero della giacca e si calcò meglio il berretto di pelliccia. «Spero che quest’indizio ci faccia fare qualche progresso» disse.
«Anch’io. Ci stiamo giocando il tutto per tutto. Sia noi che Navratil».
In silenzio si avviarono per un sentiero stretto e fangoso, un vero e proprio viale di catapecchie di legno tutte storte. In molte baracche era accesa la luce e dai comignoli fuoriusciva del fumo. I socialdemocratici avevano garantito turni da otto ore, però la gente non aveva soldi da spendere nel tempo libero.
Emmerich bussò alla prima porta che gli capitò sotto tiro. Aprì un uomo dalle spalle larghe e lo sguardo torvo. I capelli nerissimi gli arrivavano alle sopracciglia cespugliose, tanto che a prima vista non si riusciva a capire dove finissero i primi e iniziassero le seconde.
«Che c’è?» chiese in tono scortese.
Emmerich non poté fare a meno di gettare uno sguardo all’interno della capanna. Era misero, diroccato e scomodo. Consisteva di un unico ambiente con pagliericci al posto dei letti. Oltre al crocifisso d’ordinanza alla parete era appeso un ritratto di Marx, e una stufa diffondeva uno scarso calore. Per i bisogni corporali si dovevano usare le latrine posizionate a una certa distanza dagli alloggi. In confronto il pensionato maschile era una sorta di paradiso, pensò. «Conosce un certo Isidor Kofler?».
«E che ve ne frega?». Dall’interno della catapecchia si sentivano provenire colpi di tosse e lievi gemiti, e Winter si allontanò dalla porta.
«Sono un amico». Emmerich temette di non ottenere granché esibendo il distintivo. «In passato abbiamo lavorato insieme. Come facchini. Sa in quale capanna abita?».
«In nessuna».
«Cioè?».
«Sopra».
Emmerich guardò verso la collina su cui si stagliavano le ciminiere della fabbrica di mattoni. «Lì?».
«Nella fornace». Con tutta evidenza l’uomo non aveva altro da aggiungere perché chiuse la porta.
«Nella fornace?». Emmerich si chiese se quel tizio non fosse fuori di testa. Endogamia, alcolismo e mancanza di prospettive potevano nuocere al cervello.
Tuttavia si diressero su per il sentiero melmoso, a un certo punto talmente sconnesso e scivoloso che Emmerich temette di cadere e rovinarsi definitivamente la gamba.
Arrivato illeso in cima fece un sospiro di sollievo e si guardò intorno. L’area era desolata, misera e deserta. Ovunque si posasse lo sguardo non si vedeva neanche un accenno di verde, solo scarti d’argilla verdognola talmente calpestata da soffocare ogni forma di vita. E lo stesso succedeva ai sogni degli uomini che si dedicavano a quel lavoro duro e monotono.
«La fornace dev’essere lì dentro». Emmerich indicò un edificio da cui si innalzava una gigantesca ciminiera.
«Speriamo che lì dentro ci sia un po’ di caldo» disse Winter, mentre si avviavano su un ponticello di legno che conduceva a una porticina.
«È abbastanza per te?» chiese Emmerich quando furono investiti da un’aria infernale che gli arroventò il volto.
«Ma che ne è stato delle sane vie di mezzo?».
«Non sono mai esistite. Siamo da sempre una nazione di estremi».
Entrarono in un corridoio oscuro. Passo dopo passo si addentrarono sempre più finché dal nulla non apparve una luce rossastra e una figura d’uomo.
«Ehi, lei!» gridò Emmerich. La luce scomparve immediatamente e il profilo dell’uomo fu inghiottito dall’oscurità.
«Per l’amor di Dio. Che cos’era?» sussurrò Winter.
«L’hai visto anche tu?».
All’improvviso la luce si riaccese ed Emmerich capì che era una persona che caricava di carbone la bocca della fornace.
«Ehi, lei!» chiamò nuovamente battendogli sulla spalla.
L’uomo si voltò di scatto e lo fissò con occhi febbrili senza dire una parola. Il volto segnato dal sole e dal tempo era scottato e ricoperto da un velo di sudore scintillante.
«Dove possiamo trovare Isidor Kofler?».
Il fochista indicò una scala in pietra e spedì un’altra palata di carbone nella bocca infuocata. Poi chiuse la porta del forno e l’ambiente fu nuovamente inghiottito dal buio pesto.
Emmerich accese un fiammifero. Alla luce della fiammella risalirono la scala indicata arrivando in una sorta di sottotetto. A terra correvano grossi tubi di metallo, che con tutta evidenza finivano direttamente nella fornace sottostante. Da loro si sprigionava un calore insostenibile, che a differenza di quello delle terme romane non profumava di mentolo, ma puzzava di fumo.
«Maledizione» imprecò Emmerich.
Il fiammifero si era consumato bruciandogli la punta delle dita. Ne accese un altro e si guardò intorno. L’atmosfera vibrava. Da ogni parte si sentivano borbottii e scricchiolii, ogni due secondi un sibilo fendeva l’aria che faceva bruciare gli occhi. Era così, dunque, il fiato caldo del diavolo.
In fondo alla stanza alcuni uomini sedevano su vecchie stuoie. Erano avvolti in stracci per proteggersi dalle pietre bollenti e giocavano a carte alla luce di due lampade a petrolio.
Emmerich si schiarì la gola.
Immediatamente visi anneriti di fuliggine si voltarono a fissare lui e Winter. In tutto quel nero l’unica cosa che si vedeva era il bianco degli occhi. Gli uomini avevano perso ogni apparenza umana, sembravano creature selvagge uscite dal mondo delle ombre. Persino Emmerich alla loro vista si sentì in pericolo e mise la mano sulla pistola.
Con un cenno fece intendere a Winter di tenersi pronto alla fuga. «Chi di voi è Isidor Kofler?».
Nessuno rispose e i volti inespressivi non tradirono la minima emozione.
«Stiamo cercando un uomo che si chiama così» ritentò.
«Chi vive quassù non si chiama più in nessun modo» disse uno tornando a guardare le carte. Gli altri lo imitarono.
«E va bene… allora sto cercando l’uomo che prima si chiamava Isidor Kofler».
Gli uomini continuarono a ignorarlo e a giocare la loro partita a carte.
A Emmerich fu chiaro che minacce o implorazioni non avrebbero portato a nulla. «E sia» disse. «Giochiamocela a carte. Se vinco mi dite chi di voi è Kofler».
«E se perdi?».
«Vi scegliete qualcosa».
«Le scarpe» disse uno.
«Il mantello» disse un altro.
«E il berretto di quell’elegantone del tuo collega».
«Va bene». Emmerich ignorò lo sguardo costernato di Winter e prese posto.
Il pavimento era così caldo che si preoccupò seriamente per i suoi attributi. Come si poteva vivere così? Era sempre stato convinto che i senzatetto che vegetavano nella fredda umidità del Canale del Danubio fossero gli esseri più miserevoli di quella città, ma quegli uomini gli stavano facendo cambiare idea.
«Giochiamo a Miserabile» disse uno, senza rendersi conto dell’intrinseca ironia delle sue parole. «Il primo cala una carta a sua scelta, gli altri a seguire devono rispondere con una carta più alta. Il tre vince sul due, quattro, cinque, sei e così via».
«E se non ho una carta adatta?».
«Passi. Chi mette giù la carta più alta inizia il giro dopo. Chi finisce prima tutte le carte diventa Re. Il secondo, Viceré. Il terzo, Bottegaio. Poi vengono Cittadino, Contadino e Miserabile».
«Se non finisco come Miserabile mi dite chi è Kofler».
I tizi risero perfidi. «Ti piacerebbe!» gridò uno. «Ti diciamo chi è Kofler solo se vinci. Altrimenti ci prendiamo le tue cose».
Winter si tolse il berretto e se lo strinse al petto.
Emmerich si stropicciò la faccia. «E come ci torno a casa, senza scarpe?».
«Cazzi tuoi. Non ti puoi più tirare indietro, adesso». Uno degli uomini gli passò le carte lerce. «Mischia bene e poi servi».
Emmerich obbedì, mostrandosi un po’ impacciato. Più volte gli caddero le carte dalle mani. Quando prese il suo mucchietto, lo guardò e sospirò. «Avanti, cominciamo». Giocò un sei di cuori.
Il giocatore alla sua destra rispose con un sette di picche, quello dopo ancora un otto di quadri.
«Passo» disse il giocatore successivo.
«Passo».
Poi fu la volta del nove di cuori, del dieci di quadri, del fante di cuori e della regina di fiori. Emmerich concluse il giro con un asso e iniziò il successivo con un tre di fiori. Proseguirono così e tutti rimasero a bocca aperta quando alla fine il Re fu proprio Emmerich.
«La fortuna del principiante».
«Neanche per sogno». L’uomo al suo fianco gli afferrò il polso e glielo rigirò bruscamente facendo cadere alcune carte dal polsino della sua camicia.
Nessuno disse una parola. Il silenzio era tale che sembrava che persino il diavolo stesse trattenendo il fiato.
«’Fanculo!» disse alla fine uno scoppiando a ridere. «Dove cazzo hai imparato ’sto trucchetto? Giuro che non mi ero accorto di niente, e ci sono pure stato attento».
Emmerich ricominciò a respirare. «In orfanotrofio. Chi non era forte doveva essere furbo o perlomeno sfacciato».
Gli uomini annuirono e mormorarono una sorta di approvazione.
«In quale eri?» chiese uno.
«La Casa del trovatello di Mölkergarten».
«Io a Keplergasse».
«Ah!» berciò uno. «Io ero al Norbertinum, a Tullnerbach. Posto di merda. Di cento bambini riuscivano a venirne fuori sì e no cinquanta».
«Gli altri si sono risparmiati qualcosa». Qualcuno tirò fuori una bottiglia e la fece circolare. «Ai morti».
Quando fu il suo turno, anche Emmerich prese un sorso della bevanda dal forte odore e represse un conato. Quell’acquavite scadente sapeva di calzini vecchi ed era così forte che solo se eri fortunato non diventavi cieco all’istante. «Tieni». Passò la bottiglia a Winter e gli fece cenno di fare lo stesso.
Winter cercò di pulire il collo della bottiglia con il polsino della camicia, guadagnandosi una gomitata nelle costole da parte di Emmerich.
«Muoviti» sibilò.
Storcendo il naso Winter si portò la bottiglia alle labbra e prese un sorsetto. «Bleah» gli sfuggì, poi fece una smorfia e sputò la brodaglia.
Gli uomini si offesero, la lieve parentesi di leggerezza esplose come una bolla di sapone.
«Dovete perdonarlo» Emmerich tentò di salvare la situazione. «Il ragazzo ha il sangue blu. Non sa niente del mondo reale».
Gli operai si scambiarono un’occhiata. «Il berretto».
«Daglielo».
Dato che Winter esitava ci pensò Emmerich a strapparglielo di mano e passarlo all’uomo che aveva formulato la richiesta.
«Portali da Kofler» ordinò questi a un altro mentre accarezzava la morbida pelliccia d’agnello.
Un tizio tutto storto si alzò e fece cenno ai due poliziotti di andare con lui.
Emmerich e Winter lo seguirono lungo cunicoli in cui di nuovo si sentivano vibrazioni, tonfi e stridii. Sembrava che si stessero facendo strada nelle viscere di un predatore febbrile.
«Ecco» disse lo storpio una volta che ebbero raggiunto una cameretta con un alto mucchio di mattoni grezzi che aspettava di essere cotto. Indicò due uomini stesi sul pavimento in mezzo ai mattoni. Offrivano uno spettacolo davvero misero: erano stesi su stracci e tossivano in un modo da straziare il cuore.
Winter indietreggiò: «Che hanno?».
«E chi lo sa. Sarà la polvere nei polmoni. Per non rischiare li abbiamo messi qui. Finché non passa. In un modo o nell’altro».
L’uomo scomparve ed Emmerich fece per entrare nella stanza.
Winter lo trattenne. «E se fosse contagioso?».
«Hai sentito, no? Forse è colpa della polvere. Non mi stupirebbe, viste le condizioni che ci sono qui dentro».
«Ma potrebbe essere anche qualcos’altro, qualcosa di mortale». Winter si coprì il naso col colletto della camicia.
«Anche la polvere nei polmoni può portare alla morte».
«Vuole davvero correre il rischio? Quando c’è stata l’influenza spagnola ho visto morire tutta la mia famiglia. Non può neanche immaginarsi quant’è stato terribile».
«Se fosse qualcosa di molto contagioso anche gli uomini là sopra avrebbero qualche sintomo» disse Emmerich, più per convincere se stesso che per tranquillizzare Winter. «Ora non possiamo andare tanto per il sottile, altrimenti rimarremo sempre la Brigata degli Storpi».
«Sempre meglio che fare quella fine» disse Winter indicando i due moribondi.
«Non sono d’accordo». Emmerich entrò nella stanza mentre il suo assistente scomparve dietro l’angolo. «Isidor Kofler?».
Uno dei due uomini aprì gli occhi e sollevò la testa. Tentò di mettersi a sedere ma era troppo debole e ricadde giù.
Emmerich si tolse il mantello, lo ripiegò e lo sistemò sotto la nuca dell’uomo.
«Che… cosa… vuole?». Aveva un fil di voce, le guance scavate.
Emmerich gli toccò fronte. Scottava.
«Signor Kofler, mi chiamo August Emmerich». All’improvviso gli sembrò importantissimo avere un nome. «Sono qui per Richard Fürst».
Kofler tossì e sputò per terra. «Che…» tossì di nuovo, «che gli è… successo?». Era chiaro che parlare gli costasse una fatica immensa.
Emmerich fissò lo sputo sanguinolento finito proprio davanti alle sue scarpe. «Non sa niente?».
«Di… che?».
«È stato ammazzato. L’uomo che l’ha ucciso indossava probabilmente una divisa da facchino. E mi è stato detto che lei ne possedeva una».
«L’ho… portata… al banco dei pegni». I polmoni di Kofler emisero un fischio. «Chiunque poteva… comprarla».
«Quale banco dei pegni?».
«Poljakowich».
«Merda!». Emmerich strinse le labbra. Lo conosceva, quel Poljakowich. Un paio di settimane prima aveva pestato i calli alla persona sbagliata e l’avevano ripescato dal Danubio con la gola tagliata. Non poteva più confermare le parole di Kofler. «Può dirmi cos’ha fatto la sera di giovedì scorso?».
«Qui… ero qui… sono dieci giorni… che non ce la faccio… ad alzarmi».
«Qualcuno può confermarlo?».
«Io» disse a fatica l’uomo accanto a lui.
Emmerich si sentì invadere da un misto di delusione e sollievo. Delusione perché non aveva fatto alcun passo avanti per acciuffare l’assassino. Sollievo per non dover mandare Kofler in prigione. Quel povero diavolo era già stato punito abbastanza dalla vita.
«Faccia qualche… controllo su quel… quel Častolowitz» disse Kofler a fatica.
«Ignatius Častolowitz? Il direttore del museo di storia militare? Il vicepresidente della Miseriqualcosa?».
«Ho lavorato… spesso per Fürst… consegnato cose e aiutato in casa. Častolowitz era spesso lì… e una volta ho sentito… che litigavano. Pensavano che… nessuno li sentisse…». Kofler prese un profondo respiro e poi tossì così tanto che Emmerich temesse potesse sputare i polmoni. «Si sono minacciati… a proposito di una… clinica… di riabilitazione».
Emmerich ebbe bisogno di qualche istante per elaborare l’informazione. «Ah, è così allora…» mormorò. La pista portava di nuovo alla MV. «Ha sentito altro? Cosa c’è che non va con la clinica? Che cosa aveva da ridire Fürst? A prima vista sembra tutto secondo le regole».
«Non… non lo so… Parlavano di… eroi». Kofler chiuse gli occhi. Respirava a fatica, i polmoni facevano un gran fracasso.
Emmerich pensò ai due mutilati di guerra. Il mio braccio è rimasto sulle Dolomiti, e la sua gamba in fondo all’Adriatico… Per aver servito in guerra erano stati insigniti di una medaglia al valore. Forse veniva data la precedenza agli eroi di guerra. E se sì, era poi così grave? «Grazie» disse. «Indagherò più a fondo su Častolowitz».
«Stia… attento».
«E perché? Častolowitz è un eroico reduce di guerra e anche un grande benefattore».
«Sono stato… in Russia… lì quelli come lui… non avevano paura dei massacri… gli piaceva uccidere».
Emmerich comprese. Con cautela tirò via il mantello da sotto la testa di Kofler e si congedò. «Guarisca presto» disse, benché fosse certo che il poveretto non avrebbe mai più rivisto la luce del sole.
Quando uscì fuori respirò profondamente e si godette per qualche attimo l’aria satura di ossigeno. Aveva smesso di piovere e il cielo era così terso che si vedevano Venere e Giove.
«Non gliel’avrebbe dovuto dare, il mio berretto». Winter si tirò su il bavero del cappotto stringendosi nelle spalle. «Sono tutto sudato» si lamentò, «e qui fuori fa freddissimo. Mi buscherò un malanno».
Emmerich alzò gli occhi al cielo, trattenne un «Non tirartela da solo» e ricordò il tragico destino della famiglia di Winter. «Mi spiace».
Si avviò sul sentiero melmoso allontanandosi dalla fornace e dal magazzino, da quegli uomini senza nome e dalla loro indicibile miseria.
Winter lo seguì. «Mi dica almeno che ne è valsa la pena».
«Kofler non è il nostro uomo. Sono dieci giorni che non esce dal suo buco e sta crepando. Ma ha fatto un nome: Ignatius Častolowitz».
Winter fischiò tra i denti. «Proprio lui. Un gran bel pezzo grosso. E Kofler ha perlomeno potuto motivare i suoi sospetti?».
«Kofler ha lavorato un po’ di volte per Richard Fürst. E gli è capitato di sentire un litigio tra lui e Častolowitz. Il caro signor direttore ha alzato molto la voce e ha minacciato Fürst».
«E per cosa hanno litigato?».
«Per la clinica di riabilitazione». Emmerich osservò la città ai suoi piedi. Un mostro tetro in cui forze politiche da poco libere di agire si davano battaglia per il potere. «Non può essere un caso. Abbiamo seguito due piste distinte, ed entrambe ci hanno condotti allo stesso punto. Dev’esserci per forza qualcosa. Se solo sapessi cosa».
Winter controllò l’orologio da taschino. «È troppo tardi per fare ancora qualcosa, oggi. E poi, conciati così, dove possiamo andare? Di certo non da uno come Častolowitz. Guardi come siamo combinati».
In effetti avevano i vestiti tutti stropicciati e pieni di fuliggine, che si era incollata alla stoffa umida e non si riusciva a spazzolare via.
«Il tempo sta per scadere» disse Emmerich. «Ci resta poco più di un giorno e mezzo prima che torni Gonska».
«È vero, ma Častolowitz è un uomo potente. Se davvero ha qualcosa a che fare con l’omicidio dobbiamo affrontare la cosa a mente fresca e dopo esserci riposati».
Emmerich pensò alle parole di Kofler e capì che il suo assistente aveva ragione. «Ci vediamo domattina presto. Alle otto davanti al museo di storia militare».
«Ma non l’hanno chiuso nel 1914?».
«Sì, ma presto lo riapriranno e perciò ci stanno lavorando giorno e notte – di sicuro sotto l’occhio vigile del signor direttore».
I tram di Vienna quell’anno viaggiavano a orari impossibili. Nessuno ci capiva più niente. Pertanto Emmerich non fu stupito, né tantomeno scontento, di vedere una vettura della linea 67 alla fermata di Lehmgasse.
«Ultima corsa» brontolò l’autista quando Emmerich salì e cercò di sistemarsi il più comodamente possibile su uno dei freddi sedili. «È proprio ora. Finalmente ho finito il turno».
Emmerich annuì e continuò a fissare la notte. Immediatamente i suoi pensieri si rivolsero a Luise. Cosa avrebbe dato per poter tornare adesso da lei e dai bambini. Cenare con loro, mettere a letto i piccoli e poi sedersi con un bicchiere di franco vinello al tavolo della cucina, a parlare con Luise di Dio e del mondo. Delle cose di tutti i giorni. Piccolezze. Come per esempio il ladro impertinente che aveva rubato le toghe invernali di giudici e avvocati dal tribunale penale provinciale…
Man mano che il tram si addentrava nella città la nostalgia si acuiva insieme al bisogno di controllare che tutto fosse a posto. Voleva vederla solo per un attimo per avere una breve conferma che stesse più o meno bene.
Sapeva che non aveva alcun senso. Sarebbe stato meglio andare a dormire subito e fare il pieno di energie, ma non riusciva a resistere a quel bisogno, per cui cedette e scese nei pressi della sua vecchia casa.
Dopo un breve tratto a piedi attese in silenzio, nascosto nel buio del portone di fronte, fissando la finestra dietro cui non ardeva nessuna candela e niente si muoveva. Le tende erano chiuse e per quel che riusciva a vedere non c’era nessuna luce accesa.
Che fossero andati già tutti a dormire? Oppure no? Una miriade di immagini gli invase il cervello: Luise, che piangeva a capo chino nella lavanderia. Xaver che sollevava minaccioso il pugno. I bambini che, tremanti di paura, si rannicchiavano nel letto.
Emmerich strinse i denti e distolse lo sguardo. Doveva andare. Via, lontano da quei brutti pensieri e da quelle terribili possibilità. Se fosse rimasto ancora avrebbe commesso qualche imprudenza, qualcosa di affrettato che non avrebbe giovato a nessuno. Né a lui né alla sua famigliola.
Doveva risolvere il caso Fürst e fare giustizia. Non appena avesse sistemato quella faccenda assicurandosi il posto alla Omicidi sarebbe tornato a prendere Luise e i bambini.
«Resistete. Non ci vorrà molto» mormorò, tirandosi su il bavero e avviandosi nella notte.