Maledetti figli di puttana!». Častolowitz gettò un’occhiata all’interno del pozzetto di ventilazione in cui avrebbe dovuto trovarsi il suo prezioso manifesto. Vuoto. Lo cercò tastando con la mano, sperando di essersi sbagliato. Fatica sprecata. Il taccuino non c’era più.
Con un’espressione di pietra sul volto uscì dalla stanzetta, si fermò davanti al muro divisorio demolito e attraverso lo spiraglio che si era aperto guardò l’altra parte del tunnel. «Com’è potuto accadere?» sibilò al segretario che lo seguiva da presso. «Come hai potuto permettere una cosa del genere?».
Seebold si strofinò la pelata con entrambe le mani e sospirò. «Come potevo immaginare che quelli…». Incapace di spiegarsi l’accaduto toccò i buchi profondi lasciati dall’ascia di Emmerich. «Insomma, chi farebbe mai una cosa del genere? Sono poliziotti, di norma devono attenersi a regole e procedure precise».
«Di norma… Ma quell’Emmerich evidentemente non è normale» disse Častolowitz, e poi fece ciò che il suo segretario temeva più di ogni altra cosa al mondo: tacque.
Infine, dopo un paio di interminabili secondi, si voltò, impassibile. Ogni minima traccia di emozione era sparita dal suo volto. «Prendi la macchina» disse porgendogli le chiavi. «Riacciuffali prima che tornino in commissariato. Rivoglio ciò che è mio. Riportami il taccuino prima che possano farlo vedere a chicchessia».
Seebold eseguì senza replicare. Sapeva che Častolowitz non tollerava tentennamenti. Mai perdersi d’animo. Mai mollare. Era questo il motto che l’aveva reso uno dei più gloriosi comandanti dell’esercito imperialregio. Temuto dai nemici, idolatrato dalle sue truppe, eccellente stratega, insieme ai suoi uomini aveva combattuto in prima linea, sempre pronto all’estremo sacrificio. Se ce ne fossero stati di più, di ufficiali come lui, l’Austria-Ungheria l’avrebbe vinta, la guerra.
«Fa’ tutto il necessario» gli gridò dietro Častolowitz. «Riportami il manifesto, a qualunque costo».
Seebold annuì. «Pro deo et imperio!».