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Rita Haidrich scese dalla macchina davanti al Theater an der Wien, si lisciò il vestito e si riapplicò il rossetto rosso scuro. Poi si diresse all’ingresso.

Negli ultimi anni lo sfarzoso edificio era diventato il teatro più amato della città, in virtù del suo programma ricchissimo di novità. Non stupiva che la gente amasse il mondo fantastico dell’operetta, con le sue melodie così orecchiabili e armoniose, le trame allegre. Un bel contrasto rispetto alla dura realtà, in cui solo di rado le storie si concludevano con “e vissero felici e contenti”. Era stato proprio per quel motivo che Rita Haidrich aveva scelto il Theater an der Wien per dare il suo ballo di beneficenza.

Aveva convinto Oswald a provvedere agli addobbi e alle consumazioni. E la popolarità di cui godeva lei aveva fatto sì che un’illustre schiera di persone ricche e potenti avessero accettato l’invito a partecipare. Avrebbe presenziato il borgomastro Reumann in persona, così come un gran numero di alti funzionari di partito, imprenditori influenti e celebri artisti. Sperava che la funesta crisi in corso nel Reich tedesco non avesse ricadute sulla generosità degli ospiti.

«Oh, suvvia» mormorò Rita Haidrich scacciando dalla mente quei fastidiosi dubbi.

Gli austriaci erano abituati da tempo alla continua atmosfera da fine del mondo. Era dal 1914 che si susseguivano una catastrofe dopo l’altra. L’omicidio dell’erede al trono, la guerra persa e la caduta della monarchia, l’influenza spagnola, la carestia dell’inverno del 1917, da tutti chiamato “l’inverno delle rape”, le sollevazioni comuniste a Budapest e Monaco. A chi era importato? Vienna aveva continuato a danzare e l’avrebbe sempre fatto, anche quando il resto del mondo non fosse stato altro che un cumulo di rovine. Lo champagne e l’opulenta scenografia avrebbero stregato tutti, invogliandoli a sborsare molti soldi per una buona causa.

L’anno precedente, durante l’Avvento, al Burgtheater si era tenuta una rappresentazione per bambini, a cui aveva partecipato un gruppo di orfani affetti da rachitismo. La vista di quei bimbi macilenti l’aveva commossa profondamente e aveva deciso che anche quei poveri innocenti dovessero avere una possibilità. Anche loro meritavano un futuro.

E poi, a voler essere sincera fino in fondo, il gala di beneficenza avrebbe giovato moltissimo alla sua reputazione. Non ne poteva più di essere considerata come la stupida biondina di turno non appena scendeva dal palco. Voleva essere una diva, una grande dame – come Pauline von Metternich, Sophie von Todesco e Fanny von Arnstein.

A testa alta entrò nel foyer e si bloccò. «Signor Jeschek!» gridò paonazza correndo in teatro, dove il corpulento ometto se ne stava appoggiato a un alto tavolino che gli arrivava alla clavicola. «Che significa tutto questo? Dove sono gli addobbi?».

Quel gala non doveva essere un evento banale, che qualunque casalinga avrebbe potuto mettere su in quattro e quattr’otto. No, doveva essere un sontuoso ballo in maschera, di cui la gente avrebbe dovuto parlare per settimane o, meglio ancora, mesi.

Considerato il periodo dell’anno, aveva scelto il tema “Primavera” e l’allestimento doveva essere pertanto adeguato. Si era immaginata farfalle, fiori e composizioni floreali, nastri colorati e muschio… ma ovunque guardasse non vedeva nulla.

«Gli addooobbi? Sto faceeeeendo adeeeesso». Jeschek tornò a concentrarsi su quello che stava facendo: intrecciare fiori di carta seta che poi avvolgeva con fil di ferro. I fiori già completati erano stati riposti con cura in una grossa cesta.

«Cosa? Tutto qui?».

«Soootto il palco ci sooono altre due scaaaatole pieeeene, e poi priiima di sera c’è ancooora teeempo».

«Ma…». Rita Haidrich lo fissò a occhi sgranati.

«Che deeevo faaare?». Jeschek si riaggiustò i grossi occhiali sul naso. «Niente graaaana, niente addooobbi. La carta me la sooono dovuta compraaare da me. E l’ho faaatto sooolo per leeei, perché l’adoooro taaanto». Le baciò la mano.

Rita Haidrich lo guardò esterrefatta. «E gli stuzzichini? Le bevande? Ci sarà lo champagne, vero? O perlomeno dello spumante…».

«Per queeello deve chieeeedere al signor Oswaaaald». La faccia di Jeschek era più che eloquente. «Mi sa che ha un po’ sba-�gliaaato con budget. La sceeena finaaale è stata caaara. Taaante compaaarse, i costuuumi, i cammeeeelli… e poi quell’appaaarecchio per registraaare su cui contiiiinua a laaambiccarsi».

«Ma… ma come faremo? Che dirà la gente?». Gli occhi della Haidrich si riempirono di lacrime, che lei si affrettò ad asciugare. Piangere non serviva a niente. Jeschek non poteva farci nulla, neanche se avesse voluto.

«Be’» proseguì l’omino con un’alzata di spalle. «I musiiicisti e gli altri aaartiiisti fanno esiiiibizione gratis, per la buooona caaausa, e il teaaatro è beeelo pure seeenza addooobbi».

«E le consumazioni?».

«Se le paaagheranno gli ooospiti» disse dandole affettuosi colpetti sulle mani.

«Ma che figura faremo?». Ostinata, sollevò il mento. Oswald non aveva pagato l’ingaggio ancora a nessuno, perciò non poteva neppure provvedere lei a coprire le spese.

«Mi spiaaace taaaanto. Lo so che se l’eeera immaaaaginato diveeerso». Jeschek tornò a dedicarsi ai fiori di carta.

«Non si preoccupi» replicò l’attrice dando un bacetto alla pelata dell’omino. «Non è colpa sua».

Poi girò i tacchi e marciò tutt’altro che elegantemente fuori di lì. L’ultima parola non era ancora detta. Oswald, quel maledetto sbruffone… l’avrebbe trovato e costretto a esaudire i suoi desideri.

Doveva essere una serata sfolgorante, e lo sarebbe stata. Una serata grandiosa, una serata di cui Vienna avrebbe parlato a lungo.

La sua serata.