Tornando dall’ospedale in commissariato non faceva che notare persone che, se fosse dipeso da Častolowitz e i suoi accoliti, non avrebbero avuto diritto a vivere: un vagabondo alcolizzato che cercava di spremere da una botte le ultime gocce di birra, un nevrotico di guerra che chiedeva l’elemosina all’ombra di un portone, un bimbo ritardato mentale tenuto amorevolmente in braccio dalla madre. Tutti loro sarebbero dovuti sparire dalla faccia della terra, abbattuti come bestie malate.
Emmerich sputò per terra e si rullò una sigaretta. Meglio se Brühl si fosse tenuto alla larga, quel giorno, perché lui era così furioso che avrebbe fatto fatica a contenersi.
«Ma dov’era finito?». Quando la signorina Grete si accorse che Emmerich era entrato nella stanza balzò in piedi e subito gli andò incontro. «Brühl è fuori di sé. Ha detto che domani presenterà formale reclamo all’ispettore capo Gonska. Ha già preparato le lettere di licenziamento».
«Ero in ospedale. Sa, la gamba… Winter non vi ha avvertito?» chiese guardando in direzione della loro scrivania, che però era vuota.
«L’ispettore Winter non c’è. Pensavo che fosse con lei».
«All’inizio, sì. Poi io sono andato all’Ospedale generale, mentre lui ha detto che sarebbe venuto direttamente qui». Emmerich guardò l’ora. «Avrebbe dovuto essere arrivato da un pezzo. Strano».
«Forse è stato trattenuto. Ci sono manifestazioni e proteste ovunque. E da quando il carbone scarseggia continuano a tagliare le corse dei mezzi di trasporto».
«È vero. Probabilmente arriverà tra poco». Si sedette alla scrivania e osservò la montagna di lavoro che gli aveva affibbiato Brühl.
«Ah, quasi dimenticavo». La signorina Grete gli porse un foglio di carta ripiegato. «L’ha portato un ragazzo, per lei. Ha detto che è molto urgente».
«Ah sì?». Emmerich aggrottò la fronte e lesse il messaggio.
«Brutte notizie? È diventato pallidissimo».
Anziché rispondere Emmerich fissò le poche righe: Museo di storia militare, all’una. Il taccuino in cambio dell’ispettore Winter. Niente rinforzi, altrimenti è un uomo morto. Poco più di venti parole. Più che sufficienti però a sconvolgerlo. Gli eliminatori, quegli assassini, quegli schifosi pezzi di merda… avevano Winter.
«Emmerich». Brühl era sulla soglia con indosso un completo in lana pettinata e un sorrisetto di sufficienza. «Ma che onore averla di nuovo tra noi. Ha passato una buona mattinata?». La sua voce trasudava ironia e disprezzo.
«Non ora». Con mani tremanti Emmerich ripiegò il foglietto e lo mise in tasca. Erano quasi le undici e mezza. Aveva appena un’ora e mezza prima dell’appuntamento per lo scambio.
«Ah, adesso non può. Forse è meglio che torni più tardi?».
«Sì, sarebbe meglio». Emmerich cominciò a riflettere. Anche se avesse restituito il manifesto, Častolowitz non li avrebbe mai lasciati andare. Sapevano troppo. E qual era dunque l’alternativa?
«Adesso basta!» esplose Brühl dando un pugno sulla scrivania. «Lo dico per l’ultima volta: il turno iniziava alle otto e lei si presenta soltanto adesso. Dov’era?».
«In ospedale». Emmerich non aveva tempo né voglia di discutere. Era pronto a qualsiasi cosa pur di liberarsi di Brühl. «La prego di scusarmi. La prossima volta cercherò di avvertire prima». Con fare ostentato sistemò un foglio di carta nella macchina da scrivere e afferrò un verbale di interrogatorio.
Lo stupore per quell’inaspettata arrendevolezza durò poco. Brühl strappò il verbale dalle mani di Emmerich e lo sbatté con tale violenza sulla scrivania che la signorina Grete sobbalzò terrorizzata e sgattaiolò fuori dalla stanza.
«Che sta tramando, Emmerich? E dove diavolo è l’ispettore Winter?».
Emmerich aveva il fiato corto. Doveva forse raccontare a Brühl l’intera storia? Niente rinforzi, c’era scritto nel messaggio, altrimenti è un uomo morto.
No, decise, coinvolgere Brühl era troppo rischioso. Quella testa calda avrebbe fatto irruzione nel museo senza curarsi di eventuali perdite, oppure, cosa ancora più probabile, non gli avrebbe creduto.
Non poteva rischiare. Doveva sbrigarsela da solo. «Non sto tramando nulla, sono semplicemente andato in ospedale. Come lei ben sa, la mia gamba non è a posto. La ferita di guerra… a Vittorio Ve…».
«La smetta di mentire, una buona volta! Non è andato lì per la gamba. Così come ieri e l’altroieri non aveva faccende private da sbrigare. È stato al Böhmischer Prater, al Salon Flora e nella sede della Misericordiae Vultus».
«Come…?». All’improvviso gli tornarono in mente le parole di Zuzana e poi l’immagine dell’uomo nascosto dietro il cassonetto condominiale, accanto all’albero. «Mi ha fatto pedinare». Lo sguardo gli si posò sulla scrivania di Papousek, vuota, e all’improvviso comprese, come colpito da un fulmine a ciel sereno. «Papousek. Mi ha messo alle calcagna Papousek, quel maledetto leccapiedi».
«E ho fatto bene. Lei ha mentito, ignorato le disposizioni di servizio e tradito la mia fiducia. Non è altro che un miserabile fannullone, nonché piantagrane».
«E storpio, non se lo dimentichi».
Brühl divenne paonazzo. «La sua impertinenza è incredibile. Sparisca. Non ha più niente da fare qui».
«Gonska…».
«Nemmeno Gonska potrà più aiutarla. Ha superato ogni limite. Domani gli riferirò tutto, fino a quel momento lei e l’ispettore Winter siete sospesi dal servizio».
«Winter non ha fatto assolutamente nien…».
«Fuori!» gridò Brühl così forte che Emmerich, per riflesso, incassò la testa tra le spalle. «Non voglio più vedere la sua faccia» aggiunse indicando la porta.
«E va bene». Emmerich si alzò e uscì impettito dall’ufficio. Aveva cose più importanti da fare che litigare con quell’idiota. Doveva salvare Winter e metà della popolazione di Vienna da Častolowitz e i suoi scagnozzi. Restava solo da capire come.
Una volta in strada respirò profondamente. Poi infilò la mano in tasca in cerca della borsa da tabacco e delle cartine. Forse la nicotina gli avrebbe ritirato un po’ su il morale…
Si fermò interdetto. Che cos’era? Un piccolo oggetto. Il gemello della giacca di Völzer. Se n’era completamente dimenticato.
Osservò il gioiello aggrottando la fronte. Völzer non era nella lista del taccuino, per cui lui non pareva far parte degli eliminatori. Ma come c’era finito quel gemello nel cassetto della sua scrivania?
La risposta non tardò ad arrivare. Ce l’aveva messo Častolowitz. Il generale era noto per essere un brillante stratega, uno che era sempre due mosse avanti e si armava per qualunque evenienza. Se la polizia fosse arrivata troppo vicina a lui, avrebbe dirottato i sospetti su Völzer.
E per quanto riguardava se stesso, Častolowitz di sicuro aveva già preso tutte le dovute precauzioni. Preparare il terreno per la battaglia era pur sempre la sua professione, pertanto Emmerich poteva scartare in partenza l’ipotesi di intrufolarsi di nascosto nel museo di storia militare. E anche con la violenza non avrebbe ottenuto nulla. Non gli restava che giocare d’astuzia.
Accarezzò il gemello sentendone la superficie irregolare. Pian piano nella sua mente prese forma un piano.
«Il nemico del tuo nemico è tuo amico» mormorò avviandosi.
Col bavero rialzato e lo sguardo puntato a terra si diresse svelto a casa di Völzer. La prospettiva di mettersi in combutta con quel tizio insopportabile non gli piaceva, ma il tempo stringeva e sul momento non gli veniva in mente nulla di meglio.
«Di nuovo lei». Il signor Johann non sembrò entusiasta di quella nuova visita dell’ispettore distrettuale.
«È in casa il signor Völzer? Gli devo parlare. È urgente».
Il domestico sollevò un sopracciglio. «Ha visite, al momento».
In quel preciso istante l’orologio della vicina chiesa ortodossa batté tre rintocchi. Mezzogiorno meno un quarto. Tra settantacinque minuti l’ultimatum sarebbe scaduto. «È questione di vita o di morte. Mi scuserà». Emmerich aggirò l’uomo, percorse in fretta l’atrio e poi le scale e fece irruzione nello studio di Völzer.
Il consigliere era alla scrivania, sgranò gli occhi. «Che le salta in mente?» ringhiò.
«Vogliono far ricadere su di lei la responsabilità di un omicidio».
Völzer spalancò la bocca in cerca d’aria, ma non gridò. «È tutto a posto, Johann» disse al domestico che si era palesato sulla soglia. «Cos’è che vogliono fare?» chiese poi rivolgendosi di nuovo a Emmerich.
L’ispettore afferrò una sedia e si sedette. «Mi dica, nelle ultime trentasei ore Ignatius Častolowitz è stato qui da lei?».
«Sì, l’altroieri sera…».
Emmerich annuì. «Ne ero certo». Appoggiò un gomito sulla scrivania e si sporse in avanti. «C’è Častolowitz dietro gli omicidi di Richard Fürst e Johanna Abele».
Völzer tentò di replicare, ma Emmerich gli fece segno di tacere.
«Mi ascolti con attenzione». Cominciò a raccontare tutto, anche del manifesto e degli eliminatori. «Se la polizia dovesse scoprire tutto, Častolowitz ha già un piano per far ricadere la colpa su di lei» disse nel concludere la sua esposizione.
Otto Völzer incrociò le braccia davanti al petto e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «Sono insinuazioni molto gravi. Il signor Častolowitz è un uomo stimato, un eroe di guerra. Io stesso ho servito ai suoi ordini». Squadrò Emmerich con sguardo penetrante. «Perché mai dovrei prestare fede a quello che mi ha appena detto?». Mise la mano sul tavolo. «Mi faccia vedere questo taccuino».
«Non ce l’ho con me. Ma ho questo». Emmerich tirò fuori il gemello. «La signora Abele ne ha strappato uno simile dalla manica della giacca del suo assassino. Questo è il suo compagno. E ora indovini un po’ dove l’ho trovato? In uno dei cassetti della sua scrivania».
Il volto di Völzer si offuscò. «Ha ficcato il naso tra le mie cose?». Afferrò il gemello e lo osservò.
«Sì, lo so. Non si può, è illegale, è immorale. Risparmiamoci la discussione. Častolowitz e i suoi sgherri hanno catturato il mio assistente. Se entro l’una non riconsegno il manifesto, lo uccideranno».
«Non riesco a credere che Častolowitz possa farmi una cosa del genere» almanaccò Völzer.
«Scommetto che è proprio per questo che le ha sottratto i gemelli. Controlli pure».
Senza dire una parola Völzer aprì una scatolina di legno. Nel frattempo Emmerich aspettava, battendo nervosamente il piede per terra. E se avesse preso una cantonata? «Allora?».
Anziché rispondere Völzer si alzò e andò alla finestra. «Mi fidavo di quell’uomo…» disse infine, «lo consideravo un amico. È davvero…».
«Sì, lo so… Di lui però parleremo dopo, adesso non c’è tempo. Hanno preso l’ispettore Winter. Lo uccideranno».
«Allora dia loro ciò che esigono».
«E crede davvero che poi ci lasceranno andare? Io e Winter sappiamo troppo. Non appena avrò restituito il manifesto ci uccideranno». Emmerich inspirò profondamente, poi espirò. Le parole che stava per pronunciare gli costavano un grosso sforzo. «Ho bisogno del suo aiuto».
Völzer continuava a guardare fuori. Il tradimento sembrava averlo colpito duramente. «E i suoi colleghi della polizia? Perché non chiede a loro? Perché vuole proprio il mio aiuto?».
«Niente rinforzi. Gli eliminatori l’hanno posto come esplicita condizione. Se vedono anche solo un altro poliziotto Winter è morto. Non posso correre questo rischio».
«Continua a dire “gli eliminatori”. Ma chi sarebbero, a parte Častolowitz?».
«David Jordan, Karl Ludwig Schemann, Thomas Malthus, Albert Schäffle, Ernst Hackel, Alfred Ploetz, Wilhelm Schallmayer, Alfred Hoche e Karl Binding». Quei nomi ce li aveva marchiati a fuoco nella memoria. «Ne conosce qualcuno?».
«La maggior parte. Non posso credere che siano tutti in combutta».
«Allora, adesso mi aiuta? Le giuro che non le farò correre alcun rischio».
Völzer si passò la mano sui folti baffoni. «Častolowitz voleva incastrarmi… brutto bastardo… La pagherà». Si voltò verso Emmerich e lo guardò dritto negli occhi. «Che cosa ha intenzione di fare?».
«Un piccolo inganno. L’Arsenale è una fortezza, nel vero senso della parola. Gli uomini di Častolowitz presidieranno di sicuro il tunnel e tutti i punti di ingresso e di uscita».
«E quindi dovrei essere io a portarla lì dentro?».
«Esatto. Faremo come gli antichi Greci».
«I Greci…» Völzer si massaggiò il mento. «Sta pensando a Omero e al cavallo di Troia».
Emmerich sogghignò. «Proprio così».