Le mani di Emmerich erano madide di sudore, tanto da lasciare macchie umide sulla pelle del taccuino. Si sentiva come al fronte, solo che quella sera non si udivano pallottole fischiare, granate esplodere o feriti gridare. Al contrario. La città sembrava come morta. Il gran viavai di automobili e lo scalpiccio di zoccoli avevano ceduto il passo a un inquietante silenzio.
Doveva avere fiducia. Fiducia… non proprio la sua specialità.
«Alla pugna!» mormorò afferrando il batacchio del portone del museo di storia militare. Era un pesante anello di ferro tenuto in bocca da un leone. Continuò a picchiarlo contro il legno del portone finché Seebold non venne ad aprire. Un lungo graffio gli attraversava la fronte e aveva il braccio sinistro steccato.
«La farò pentire della fuga di oggi pomeriggio» sibilò.
«Chi si pentirà di cosa è ancora tutto da vedere».
«La mia macchina?» tuonò la voce di Völzer attraversando l’atrio con le statue dei condottieri. «E ha portato il manifesto?».
Emmerich annuì. «Mantengo sempre le promesse».
Völzer si affrettò ad andargli incontro con espressione ostinata e la mano tesa, ma Emmerich la scostò.
«Prima voglio vedere Winter» obiettò dirigendosi verso la porticina segreta.
«Non così in fretta». Völzer gli sbarrò il passo e si rivolse a Seebold. «È pulito?».
Il pelato afferrò Emmerich per la gola con tale malagrazia da togliergli il fiato. Poi lo perquisì in maniera brusca, quasi brutale, e tirò fuori la pistola dalla fondina.
«Attento! Le sigarette!». Emmerich raccolse il pacchetto caduto a terra e se lo mise nel taschino della giacca.
«Tanti saluti da Vittorio Veneto» gli sibilò Seebold all’orecchio dandogli un calcio al ginocchio.
Avvertì subito il dolore ormai così familiare e gemette. «Glielo restituirò con gli interessi».
Seebold gli puntò la pistola tra le scapole e gli strappò via il taccuino dalla cintura. «Non credo proprio che ne avrà l’occasione».
Völzer prese il taccuino dalle mani di Seebold e lo sfogliò in fretta. «Vado a chiamare Častolowitz e Bahrfeldt» disse infine, dopo aver appurato che era il taccuino giusto. «Ci vediamo di sotto». Poi si rivolse a Emmerich. «Guai a lei se trovo anche un solo graffio alla macchina. Per ogni ammaccatura ne faccio una anche a lei, prima di…».
Emmerich raggiunse la stanzetta zoppicando. «Fiducia» sussurrava a se stesso. «Abbi fiducia».
«Non le servirà a niente». Seebold lo spinse all’interno.
Per prima cosa Emmerich rivolse tutta la sua attenzione a Winter, ancora legato e imbavagliato sulla sedia. Aveva il volto pieno di escoriazioni, tremava ed era ridotto a uno straccio. «Resisti. Andrà tutto bene».
Winter annuì debolmente. Faceva fatica a respirare e aveva la fronte ricoperta di sudore.
Emmerich fece per dire ancora qualcosa ma in quell’istante entrarono gli eliminatori.
Častolowitz, con in mano il taccuino, guardò Emmerich aggrottando la fronte. «L’avete perquisito?». La domanda era rivolta a Völzer.
«Ci ha pensato Seebold».
«È venuto da solo?».
«Sì».
«Va’ di sopra» ordinò Častolowitz al suo segretario. «E avvisaci se qualcuno si avvicina al museo».
«Lasciate andare l’ispettore Winter» disse Emmerich. «Ho fatto tutto quello che mi avete chiesto. Adesso tocca a voi».
Častolowitz si sedette, si appoggiò allo schienale e osservò Emmerich come se si trattasse di un animale esotico da studiare attentamente. «Mi sorprende. In realtà avevo pensato che avrebbe opposto maggiore resistenza. Almeno un po’. Ma meglio così…».
Emmerich respirò a fondo, inclinò la testa e allargò le braccia. «Non che non ci abbia pensato… Ho tentato di farmi venire in mente un diversivo, un’idea geniale… ma a essere sinceri… Sono sfinito, a pezzi». Gemendo si sedette su una sedia. «E poi sono solo» proseguì. «Mentre voi siete in tre. Tre uomini ricchi e potenti. Che cosa avrei mai potuto fare?».
«È saggio riconoscere la sconfitta».
Emmerich si strofinò gli occhi stanchi e guardò il suo avversario. «Un medico, un politico e un generale» elencò. «Galantuomini che mantengono la parola data. Lasciateci andare».
Častolowitz si chinò verso di lui. «Si ricorda quello che le ho spiegato stamattina nel museo?». Non attese la risposta. «Il museo di storia militare è un luogo importante per ogni cittadino. Qui si imparano cose utili alla vita. Se solo fosse stato più attento… Andreas Hofer, Giulio Cesare, Eumene di Cardia… sono stati tutti grandi condottieri e validi combattenti, e hanno tutti perso la vita per essersi fidati troppo».
«Quindi…».
«Quindi mi spiace, ma lei rappresenta un rischio troppo grosso». Častolowitz tirò fuori la pistola.
Emmerich spalancò gli occhi. «Dottor Bahrfeldt…». Disperato guardò il medico.
«Mi dispiace» replicò questi. «Sono i danni collaterali di ogni guerra».
«E anche di questo abbiamo già parlato». Častolowitz puntò la pistola su Winter, il quale emise un pigolio soffocato.
«No!» gridò Emmerich tuffandosi oltre il tavolo e tentando di deviare il braccio di Častolowitz. Troppo tardi.
Risuonò uno sparo. Emmerich cadde pesantemente al suolo e provò a rialzarsi immediatamente. «Ferdinand!» gridò. «Sei ferito?». Vide solo le labbra di Winter che si muovevano ma non sentì nulla, momentaneamente assordato dal forte rumore dello sparo. Come stordito continuava a fissare il suo assistente, che a sua volta lo guardava a occhi spalancati. «Ferdinand!». Quando si accorse della macchia scura che continuava a ingrandirsi sempre di più sul petto di Winter, scordò tutto ciò che aveva intorno. Bahrfeldt, Völzer, Častolowitz, il manifesto, gli omicidi… svanirono come lontani ricordi. L’unica cosa di cui gli importasse in quel momento era il suo assistente. «Ferdinand» implorò nuovamente.
Winter non reagì.
Emmerich sentì la risata disgustosa di Völzer. «Ecco che succede a mettersi contro le persone sbagliate. Tutta questa faccenda era troppo grossa per lei, fin dall’inizio».
Emmerich si riscosse dal suo shock e premette le mani sulla ferita di Winter. Il sangue sgorgava tra le sue dita, caldo e appiccicoso. Però riusciva a sentire il battito del cuore. Era ancora vivo.
«Resisti» gli disse. Poi guardò Častolowitz. «Perché l’ha fatto? Maledetto!».
Poi volse lo sguardo a Bahrfeldt. «Faccia qualcosa, la prego. È un medico, ha fatto un giuramento. Deve aiutarlo!». Winter emise un gorgoglio ed Emmerich gli tolse il bavaglio dalla bocca. «Respira, dannazione! Respira!».
Winter però emise solo un lieve rantolo e poi crollò in avanti, trascinando la sedia con sé.
Emmerich gli controllò il polso. Poi emise un suono che aveva più dell’animale che dell’essere umano. Piano, quasi con tenerezza, gli ravviò una ciocca di capelli e gli chiuse gli occhi. Si rialzò. Col volto deformato da un’orrenda smorfia fece per lanciarsi su Častolowitz, il quale non perse tempo a puntare l’arma contro Emmerich e premere il grilletto.
La potenza della pallottola lo scagliò contro la parete. Poi l’ispettore si portò le mani al petto e osservò il sangue sulle mani. Era il suo? O quello di Winter?
«Ve ne… ve ne…» ansimò.
Si meravigliò di quanto suonasse debole la sua voce. Si accasciò al suolo fino a sedersi per terra, poi chiuse gli occhi. E reclinò il capo sul petto.
«Bene» disse Častolowitz. «E anche questa è fatta».