Non c’è molta differenza fra il trasporto di un prigioniero e quello di un carico di maiali. Devono arrivare a destinazione interi. Tutto qui.
Ero ammanettato. Stavo scomodo e mi sentivo goffo. Mi dovetti concentrare al massimo per non perdere l’equilibrio, mentre salivo sul furgone. La mia scorta, una guardia dalla testa quadrata, mi diede uno spintone. Non era brutalità deliberata, la sua, soltanto rozza indifferenza.
«Sbrigati», le sole parole che mi rivolse. Barcollai, ritrovai l’equilibrio e mi sedetti sul sedile in similpelle.
Tintinnio di chiavi, scosse in modo ostentato. Stridio di metallo contro metallo. Clangore di una porta che si chiude. Mi trasferivano all’interno di una gabbia.
Ero stato rinchiuso per otto anni. Mi ero abituato al ritmo monotono delle mie giornate, ma non alle sbarre.
I finestrini del furgone erano oscurati. Avrei rivisto il mondo esterno, per la prima volta dopo tanto tempo, attraverso un filtro grigio scuro. Nonostante questo, ero emozionato alla prospettiva del tragitto. Vedere auto in movimento, alberi, ragazzini in bici che pedalavano nel vento. Forse anche un treno che faceva a gara con noi, correndo parallelo all’autostrada. O ragazzi in cima ai cavalcavia, intenti a gridare alle auto che scorrevano veloci sotto di loro. Scene che non capita di vedere in televisione, perché troppo banali, ma capaci di provocare profonda nostalgia per il mondo esterno.
Il furgone partì. Mi trasferivano dalla prigione di Amersfoort all’Hopper Institute di Haarlem.
Non avevo ancora capito se il mio spostamento all’unità di Psichiatria forense fosse qualcosa di cui rallegrarsi. Avevo avuto fin troppo tempo per pensarci, così come per qualunque cosa. In certi giorni mi sentivo ottimista. Un regime carcerario meno severo. Una cella tutta per me. Una maggior varietà nelle attività quotidiane. Un passo verso la libertà.
Altri giorni, invece, mi sentivo così furioso e frustrato da non riuscire a vedere il lato positivo in nulla. In quei momenti volevo soltanto tornare a casa dai miei pesci. Ero molto preoccupato per loro. Di notte me li immaginavo tutti a pancia in su, che galleggiavano. Una montagna puzzolente di Zebrasoma, Holocanthus e Amphiprion. Allora mi mettevo a urlare fino a svegliare tutto il blocco.
«È ancora lo svitato».
«Ehi, tu, mostro, chiudi il becco!»
«Domani ci penso io. Guardati le spalle, figlio di puttana!»
Nessuno, però, mi aveva mai messo le mani addosso. Non era come in televisione. I prigionieri parlavano molto e agivano poco. Di tanto in tanto scoppiava una zuffa per qualche sgarbo di scarsa importanza, come la scomparsa di un pacchetto di sigarette, ma lo stupro non faceva per loro, e nessuno cavava denti ai compagni di prigionia a suon di pugni per rendere più gradevole il sesso orale.
Mi ignoravano, semmai, e ridevano di me. Una volta, quando ero sotto la doccia, mi rubarono i vestiti. A volte mi strappavano di mano una lettera e la leggevano ad alta voce nella sala comune. Mi sputavano nel cibo quasi ogni giorno. Le mani addosso, però, non me le misero mai.
Se non smettevo di gridare, le guardie mi facevano ingoiare una pillola per calmarmi, e il giorno dopo tutti si comportavano come se non fosse successo nulla. Talvolta passavano mesi interi senza che nessuno mi sedesse accanto durante i pasti. Non mi dava fastidio. Volevo soltanto essere lasciato in pace.
Le autostrade a28 e A1 non erano cambiate molto dal 2003. Premetti il naso contro il finestrino e cercai di guardare fuori quanto potevo: le nubi (anche se in prigione ne avevo viste tante), i prati e soprattutto l’acqua.
«Ehi, smettila di leccare il finestrino!» mi rimproverò la guardia. Sedeva accanto al conduttore e si era voltato per controllarmi. «Sta’ seduto dritto».
Volevo vedere fuori. Non gli avrei permesso di togliermi anche quello, dopo tutto ciò di cui mi avevano già privato.
«Se ti comporti male, ti mettiamo i ceppi». La guardia si girò di nuovo verso la strada. «Stronzo». Lo disse sottovoce, con un movimento della bocca appena percettibile, ma lo udii. Non aveva il diritto di parlarmi in quel modo, avevo letto il regolamento – quando hai troppo tempo a disposizione, finisci per passarlo così. Diceva che le guardie in scorta a un prigioniero dovevano assicurarsi che «il trasporto non aumentasse l’abituale livello di stress».
In verità, ero abituato a ricevere insulti, e mi era capitato di peggio. Si potrebbe obiettare che la parola “stronzo” non aumentasse il mio livello di stress e che la guardia, di conseguenza, non avesse fatto nulla di male. Tuttavia, era opinabile. Mi chiesi se fosse il caso di scrivere un reclamo, ma non ero sicuro che nell’Istituto avrei avuto tanto tempo libero. Mi ci mandavano per un periodo di riabilitazione su ordine del tribunale, dopotutto: sarei stato sottoposto a una terapia allo scopo di poter essere, un giorno, reintegrato in società. Questo, almeno, era quanto diceva l’opuscolo che avevo ricevuto alcune settimane prima del mio trasferimento.
«Sai chi è?» chiese l’autista alla guardia, indicandomi con un cenno del capo.
Dubitavo che avessero il permesso di parlarne in mia presenza.
«Era su tutti i giornali, forse te lo ricordi: questo mostro fu respinto dalla sua graziosa vicina e andò fuori di testa. Prima se la prese con la signora, poi con sua figlia, che aveva soltanto quattro anni. Dopo che ebbe finito di farle a pezzi, si fumò una sigaretta, bello tranquillo, e spense il mozzicone sulla bambina morta. Te lo immagini?»
La guardia si voltò di nuovo a guardarmi. «Scommetto che ti è piaciuto, eh? Ti sei eccitato?»
Premetti più forte il naso contro il finestrino. Un suv procedeva affiancato a noi. Seduti dietro c’erano due bambini sui loro seggiolini per auto in stoffa zebrata. Un maschio e una femmina, di tre anni circa, che, a giudicare dall’aspetto, dovevano essere gemelli. Entrambi biondi e ricci. La bambina mi ricordava Anna, la piccola della porta accanto. Deglutii per liberarmi del sapore metallico del sangue che avevo in bocca.
L’autista disse a voce alta: «Potremmo andare a finire col furgone in un fosso e lasciare annegare questo figlio di puttana nella sua gabbia».
«Un incidente. Oooh, che disdetta!» La guardia mi lanciò uno sguardo da sopra la spalla per accertarsi che avessi udito. «Noi intanto ce ne staremo qui seduti, a fumarci una sigaretta».
«Uno spinello bello grosso, vorrai dire».
Stavo ancora osservando la bambina sul suv. Avevo l’impressione che mi guardasse negli occhi anche lei, ma era impossibile, naturalmente, dal momento che il mio finestrino era oscurato. Aveva gli occhi sgranati e le ciglia lunghe, come quelli delle bambole: occhi che fissano e si chiudono soltanto quando le corichi.
Ci fermammo davanti a un muro alto sormontato da punte di metallo. Un cancello si spalancò ed entrammo in una zona di carico. Per un istante sostammo in un locale con le pareti di cemento e le luci fluorescenti. Videocamere ci inquadravano da ogni lato.
«Sorridi all’uccellino!» disse l’autista, ridacchiando. La barriera si sollevò e passammo oltre.
Arrivammo dinanzi a un edificio color sabbia a ferro di cavallo. Il furgone si arrestò davanti all’entrata. La guardia che mi scortava scese, cercando la chiave giusta nel mazzo. Alla fine la gabbia si aprì.
«Fuori».
Ebbi difficoltà ad alzarmi. Le manette mi stringevano i polsi, avevo le formiche alle mani. Rischiai di cadere scendendo. La guardia mi afferrò, ma mi lasciò andare il prima possibile, come un netturbino che maneggi sacchi di spazzatura. Meglio liberarsene al più presto, dei rifiuti.
Mi spinse avanti, e lo precedetti sugli scalini. Stavo male. Molto male.
Le porte automatiche si aprirono, ed entrammo in un piccolo ingresso; su un lato si trovava la reception. Una donna dai capelli color ciliegia candita ci lanciò un’occhiata, poi riprese a parlare al telefono senza curarsi più di noi. Con chi stava parlando? Stava parlando di me?
Un’altra guardia ci raggiunse e cominciò a perquisirmi senza dire una parola. Mi palpò tutto il corpo con le sue manone. Mi sforzai di restare calmo. Cercai di evitare il suo tocco, mentre la sua mano mi scorreva sul cavallo e nell’interno coscia. Poi mi fece passare attraverso il metal detector.
Un uomo con una maglietta rossa mi aspettava dall’altra parte. «Benvenuto, Ray» disse. «Benvenuto. Sono Mohammed de Vries, l’assistente sociale dell’unità di Orientamento. Per ora è lì che alloggerai. Puoi chiamarmi Mo».
«Mo» ripetei. Conoscevo quelli come lui: i simpatici. Quelli che si fingono tuoi amici e poi ti abbandonano.
«Per prima cosa ti porto al centro ospedaliero a fare gli esami per il test dell’alcol e antidroga, poi andrai nella tua unità».
«Si possono togliere le manette?» chiesi.
«Non ancora».
«Perché?»
Nessuna risposta.
«Perché?» chiesi di nuovo.
«Mi fa una firma, per favore?» La guardia mise un blocco sotto il naso dell’uomo che mi aveva autorizzato a chiamarlo Mo.
Mo scrisse il suo nome in stampatello e firmò. «Proprio come per la consegna di un pacco da parte della FedEx, eh, Ray?» ammiccò.
«Bene, arrivederci». La guardia uscì dalle porte automatiche.
«Vieni con me?» chiese Mo.
Come se avessi avuto scelta.