Volevo obbedire al dottore perché mi lasciasse tornare a casa, ma non riuscivo a scrivere la lettera. Quella notte, sdraiato sul materasso, mi pareva di essere tornato a Pain de Provence, il panificio francese in via Principessa Irene dove lavoravo un tempo. In un’estate degli anni Settanta il fornaio, Pierre Henri, si era innamorato di un’olandese e l’aveva seguita per aprire un forno in un quartiere popolare. Allora gli olandesi non conoscevano croissant, baguette e brioche, e non avrebbero neanche saputo trovare la Provenza su una carta geografica. Pain de Provence aveva avuto un grande successo, grazie al numero crescente di clienti che venivano dai quartieri eleganti situati all’altro capo della città.
Non riuscendo più a mandare avanti la bottega da solo, Pierre mi aveva preso come apprendista. Margaret, sua moglie, stava in negozio e aveva una voce così forte che dal retrobottega udivamo ogni singolo ordine: «Quattro croissant normali e due al cioccolato per la signora. Arrivano subito».
«Pfff, croissant di pomeriggio» commentava Pierre. «Voi olandesi siete matti! In Francia vendo forse centocinquanta croissant al giorno. Qui cinque o seicento, a volte anche mille nei weekend. Vi fanno impazzire, i croissant, vraiment».
Nulla di ciò che avevo imparato ai corsi per panettiere era utile o corretto, secondo Pierre. A scuola avevamo usato il lievito per far aumentare di volume il pane.
«Tutti, tout le monde, sanno usare il lievito» dichiarava Pierre. «Il lievito è per panettieri senza personnalité. Il lievito è per la fabbrica, per il robot, per il panettiere che avrebbe dovuto fare il muratore. C’est incroyable che già a scuola vi insegnino a essere médiocres. Incroyable!»
Pierre usava un lievito madre che gli aveva dato suo padre trent’anni prima. Per i primi due anni non mi fu neanche permesso avvicinarmi a “La Souche”, come la chiamava Pierre. Era conservata in una credenza speciale a temperatura controllata, lontano da tutto quanto potesse danneggiarla. Pierre ne prendeva un pezzo ogni giorno per preparare l’impasto di pane, baguette o croissant, dopodiché bisognava fabbricare altra pasta madre per non restare senza.
“La Souche” andava alimentata a ore fisse e riportata sempre alla temperatura giusta. Pierre le parlava, perfino: «Come stai oggi, tesoro mio? Sei comoda?» E a me diceva: «È come fare il vino, Ray: sta tutto nel tempismo e nella temperatura. Ricorda: tempismo e temperatura».
Un giorno mi chiamò. «Annusa» disse mettendomi il recipiente di terracotta sotto il naso.
Mi sporsi, chiusi gli occhi e annusai cauto.
«Senti com’è dolce? Fresca, ma non troppo acida? Lei è me, Ray. È grazie a lei che il nostro pane è così croccante fuori e morbido dentro. È lei a conferire quel sapore fresco e dolce. Senza di lei, il pane è solo farina e acqua. Senza di lei non è niente, mon fils».
Mi insegnò come comportarmi con “La Souche”, perché era una pasta esigente, capricciosa, più difficile di una donna, diceva Pierre. Mi mostrò con precisione cosa le piaceva e cosa no, quale temperatura era più adatta a lei, a che ora alimentarla e che quantità aggiungere.
Un anno dopo “La Souche” fu affidata interamente a me. Pierre pensava che fossi addirittura migliore di lui nel misurare gli ingredienti da aggiungere, o nel portarla alla temperatura giusta. Non aveva mai conosciuto nessuno preciso quanto me.
Dopo cinque anni ero in grado di mandare avanti la cucina da solo. Cominciavo a cuocere alle tre e un quarto ogni mattina. Mentre le baguette, il pane alle noci e quello ai cereali, i pains au chocolat e le ciabatte, i croissant e le brioche cuocevano nel forno, io pesavo. Preparavo tutti gli ingredienti necessari per la giornata e li disponevo in diverse ciotoline: farina, cioccolato, uva sultanina, semi di girasole, formaggio, pasta di mandorle.
Margaret e Pierre arrivavano alle sei e mezzo per disporre in vetrina i prodotti appena usciti dal forno. All’apertura, alle sette, quando i clienti dei quartieri eleganti cominciavano a mettersi in fila, insieme ai più sofisticati abitanti del quartiere («Sono pazzi!» amava ripetere Pierre), lui e io preparavano l’impasto per otto tipi diversi di pane e cuocevamo i canelés e le tartelettes. Il pomeriggio era consacrato alla pasta dei croissant. Continuavamo a incorporare il burro nell’impasto fino a ottenere centinaia di strati. «Ah, la perfezione!» commentava alla fine Pierre. «La perfezione assoluta».
Lavorai per Pierre e Margaret per anni, finché un giorno vendettero la bottega per trasferirsi in Francia. La rilevò un tizio con un paio di occhiali appariscenti che continuava a darmi pacche sulla schiena. Secondo Margaret lo faceva perché voleva essermi amico. Dopotutto, senza di me il panificio non valeva niente, mi diceva.
Il giorno prima di partire, Pierre mi chiamò da parte. Stringeva tra le braccia il recipiente di terracotta con la pasta madre. «Questo è il bene più prezioso che possiedo, mon bébé. Me lo diede mio padre, quando aprii la mia prima boulangerie. Ha fatto di me quello che sono oggi. Siccome non ho figli, e Margaret è ormai troppo vecchia per averne, la do a te». Le lacrime gli scendevano lungo le gote.
Il sale è letale per la pasta madre. Gli tolsi subito dalle mani il recipiente per evitare che le lacrime cadessero su “La Souche”.
«Goditela. Usala. Sono sicuro che troverai qualcuno cui affidarla, al momento giusto. Se così non sarà, voglio che tu la distrugga. Me lo prometti, Ray? Tu me le promets?»
«Oui» replicai.
Dopo la partenza di Pierre e Margaret, il nuovo proprietario del panificio modificò il negozio. Prima la zona per la preparazione dei prodotti e i forni si trovavano in un locale apposito, nel retrobottega. Lui, invece, decise che sarebbe stato divertente che i clienti mi vedessero al lavoro, così avrebbero saputo che era tutto fresco, preparato sul momento, e che non si trattava di prodotti industriali. Il muro che separava il negozio dalla cucina fu abbattuto e sostituito da una vetrata.
A un tratto mi ritrovai con gente che mi guardava mentre sbucciavo le mele per le tartelettes e mi stava a osservare mentre impastavo con movimenti calmi e regolari. Mi vergognavo e mi sentivo insicuro.
Prima, ogni couronne che preparavo pesava cinquecentoventicinque grammi esatti. Facevo in modo che fossero tutte rigorosamente identiche, era importante per me. Con la vetrata, certe volte una couronne arrivava a pesare quasi seicento grammi, perché mi tremavano le mani quando pesavo gli ingredienti. Altre volte invece lasciavo bruciare i canelés. Detestavo essere guardato. Finché non conobbi Rosita. Da quel momento in poi tenni lo sguardo fisso sulla vetrata, in modo da non perdermi neppure un istante, quando entrava in negozio. Alla fine mi abituai agli sguardi curiosi, e tutto ritrovò il giusto peso.
Non avevo mai avuto grandi rapporti con i vicini. Non sapevo cosa dire. A volte mi salutavano, allora ricambiavo il saluto, e la cosa finiva lì. Ero molto impegnato con le mie attività quotidiane. Il forno. I pesci. Mangiare. Dormire. Lavarmi. Pulire. Fare il bucato. Stirare. Far compere. Respirare.
Il giorno in cui Rosita si trasferì vicino a me, c’era il sole e faceva caldo. Arrivò a bordo di un vecchio furgone per le consegne arrugginito, con una bambina in un seggiolino per auto blu scolorito e un uomo con i capelli unti stretti in una coda. I due adulti portarono dentro qualche mobile: divano e poltrone marroni, un tavolo piccolo con due sedie e il letto matrimoniale più grande che avessi mai visto.
L’uomo pareva stanco e vecchio, perfino più logoro ed esausto del divano di pelle marrone o del materasso. Portò dentro i pochi mobili tra lamenti e sospiri. Rosita, invece, era tutta sorrisi, anche se il sudore le cadeva dai ricci neri sulla maglietta. Sulla schiena aveva una grossa chiazza bagnata. Non era molto vestita, un paio di pantaloncini cortissimi e una canottiera. Credo che non portasse il reggiseno.
Decisi che era la donna più bella che avessi mai visto. Più carina delle ragazze alla televisione, molto più bella di quelle che vedevo per la strada. Avevano tutte i denti gialli, e neanche loro portavano il reggiseno, ma non avevano il seno sodo di Rosita, e poi urlavano sempre. Contro il marito. Contro i figli. Contro i cani randagi che facevano i loro bisogni nel giardino davanti a casa ed erano colpevoli del cattivo odore che regnava in via Regina Guglielmina, soprattutto in primavera, quando si scioglieva la neve.
Perché i vicini non si prendevano cura dei loro giardini? Mi mandava in bestia, quella trascuratezza. A volte, di notte, prima di cominciare il turno, prendevo un paio di cesoie con me. Non potevo certo mettermi a fare giardinaggio a casa d’altri, ma almeno le siepi lungo via Regina Guglielmina erano perfette.
Ero contento che il vecchio con i capelli strani non venisse quasi mai. Rosita, invece, la vedevo spesso. Mi piaceva spiarla da dietro le tende rosso scuro che mia madre aveva scelto per me. Appena tornavo a casa dal lavoro, sempre alle tre e cinque del pomeriggio, mi sedevo davanti alla finestra della cucina e guardavo fuori, sperando di vederla.
Quando non pioveva, di solito usciva a fare un giretto con il passeggino. Da dove ero seduto riuscivo a seguirla con gli occhi lungo la via, finché non voltava all’angolo con via Principessa Beatrice.
Il suo modo di camminare… a testa alta, con i tacchi che schioccavano a ogni passo e il bacino che ondeggiava a un ritmo silenzioso. A volte contavo ad alta voce: «Uno, due, tre, quattro. Uno, due, tre, quattro». Non perdeva mai il ritmo, neanche per una frazione di secondo.
Ogni tanto si fermava a chiacchierare con un vicino o per rimettere il ciuccio alla bambina, ma più spesso andava dritta per la sua strada senza arrestarsi.
La prima volta che la vidi svoltare dietro l’angolo, balzai in piedi e corsi fino a casa sua per leggere la targhetta accanto al campanello: “Rosita e Anna Angeli”, c’era scritto. Le lettere erano incise su una lastra di ardesia marrone. Ripetei il suo nome ad alta voce almeno cento volte: «Rosita, Rosita, Rosita». Sembrava il nome di una deliziosa brioche, con gouda ed erbe di Provenza.
I momenti che preferivo erano quelli in cui tornava dalla passeggiata, quando potevo scorgerla in viso, anche se in lei trovavo persino più attraente, se possibile, l’incavo tra le clavicole.
A volte mi salutava con un gesto della mano, allora mi nascondevo dietro la tenda. L’idea di dovere rispondere al suo saluto mi rendeva nervoso. Non ci sarei mai riuscito.