17. Ray

«Hai visite stamattina» annunciò Mo.

In tutto il periodo che avevo trascorso in prigione, mia madre era venuta a trovarmi soltanto un paio di volte. Anche Margaret e Pierre erano venuti, una volta. Tornavano in Olanda quasi ogni estate, quando in Francia faceva troppo caldo, e, avendo saputo che non ero più in via Regina Guglielmina, erano venuti a trovarmi in carcere. Margaret però aveva detto che sarebbe stata l’ultima volta, perché Pierre stava diventando troppo vecchio per viaggiare.

Era cambiato, Pierre. Camminava più lentamente e doveva fermarsi a riprendere fiato ogni pochi passi; e c’erano soltanto dieci passi dalla porta della sala visite al tavolo con le quattro sedie.

«Tutti quegli anni nel panificio lo hanno distrutto» aveva spiegato Margaret, con la sua voce stentorea come un tempo. «Non ha più voglia di far niente, vero, Pierre?»

Per tutta la durata della visita, venti minuti, era stata Margaret a parlare. Pierre non aveva detto una parola, non mi aveva neppure guardato. Neanch’io parlai molto. Penso che fossimo tutti e tre molto contenti che Margaret riempisse il silenzio descrivendo il mercato di Grasse.

Rosita non fu mai nominata. La pasta madre neppure.

«Mia madre è qui?» domandai a Mo. Non pensavo che sarebbe venuta. Era stata molto chiara sull’argomento: neanche per una chiacchierata con il dottor Römerman, o almeno così lui mi aveva detto. Il dottor Römerman, però, aveva detto anche che era arrivato il momento per me di accettare ciò che avevo fatto, anche se non avevo fatto nulla.

«No, un’altra signora». Mo diede un’occhiata a una lista. «Iris Kastelein».

«Chi è?»

«Non la conosci?»

«No».

«Strano. Dice che è tua parente».

Hank mi si sedette accanto a pranzo. Mi aveva evitato negli ultimi giorni. Non sapevo perché, ma non mi andava di chiederglielo.

Era il giorno delle tortine di pesce. Erano su un vassoio in fondo al tavolo, ma ne sentivo l’odore e ne desideravo una.

«Io e te siamo amici, vero, Ray?»

Il vassoio stava venendo dalla mia parte, ma non era abbastanza vicino perché riuscissi a prenderne una.

«Non sono io l’unico con cui parli? L’unico che ti difende?» Hank si voltò e gridò: «Ehi, passate quelle tortine di pesce!»

Un nuovo detenuto, che si chiamava Jamal, gliene gettò una, ma il vassoio rimase dov’era.

«Jamal, so che devi ancora abituarti alle regole, qui, ma una è che non si lancia il cibo» disse l’assistente sociale con gli occhiali, di cui non riuscivo mai a ricordare il nome.

«Un comportamento maleducato durante i pasti significa essere confinati in camera per due giorni. Sì, lo sappiamo tutti» disse Hank. Non aveva paura di quel tipo. Avevo sentito dire che l’assistente sociale con gli occhiali talvolta spacciava cocaina, lì dentro. La vendeva a cinquanta euro al grammo, e di qualità eccellente. Avevo sentito Eddie che lo confidava a Rembrandt.

Hank continuava a sproloquiare, ma la mia attenzione era altrove. Pensavo alle tortine di pesce, che stavano facendo il giro del tavolo senza avvicinarsi mai a me, e alla notizia della visitatrice che sarebbe venuta a trovarmi. Non sapevo se quella novità fosse bella o brutta. Mia madre era l’unica famiglia che avessi, e non si chiamava Iris Kastelein.

«Mi stai ascoltando?» Hank mi alitava in faccia e puzzava di tortine di pesce e tabacco.

Annuii.

«Sei un tipo sveglio. Ti mostrerò come si fa, visto che siamo amici. Intesi?»

«Sì certo» mi affrettai a rispondere.

«Potresti…» Hank si fermò, l’assistente sociale lo stava fissando. «Ehi, ti va una tortina di pesce?» mi disse.

«Sì, per favore».

«Maledizione, Deepak, passa quella roba!»

Hank mi fece arrivare il vassoio. C’era rimasta una sola tortina, un po’ schiacciata e con una crepa da cui usciva il ripieno bianco. La presi e le diedi un morso. Era buona. Amavo l’accostamento tra l’esterno croccante e l’interno caldo e cremoso con i pezzetti di pesce.

«Ma guardatelo come se lo succhia quell’affare! Ehi, Rano, è buooono, eh?» gridò Eddie.

«Bene, ora basta» dichiarò l’assistente sociale con gli occhiali.

«Stanno venendo a prendermi, lo so» piagnucolò Ricky.

«Oh, Ricky bello, non dovrebbero aumentarti la dose?» disse Eddie.

Tutti trovarono la battuta divertentissima.

Mi avevano già fatto sedere al tavolo dei visitatori, quando entrò la donna chiamata Iris Kastelein. Mo, che la seguiva, si sedette su una sedia accanto alla porta, vicino alla guardia, e mi fece un cenno di saluto: «Tutto a posto, Ray?»

Iris Kastelein era una giovane donna, carina. Come quelle dei quartieri con le case grandi, che venivano apposta al panificio e facevano la lunga fila per comprare i miei croissant.

«Buffo» fu la prima cosa che disse, «mio figlio è spiccicato a te».

Era appena arrivata e mi trovava già buffo. Non risposi, concentrato a tenere ferme le mani.

Cominciavo ad arrabbiarmi e mi sentivo confuso. Cosa voleva da me?

Si sedette sulla sedia di plastica davanti a me e mi guardò, proprio come faceva a volte lo strizzacervelli di Mason Home, come se, fissandomi negli occhi, potesse leggermi nel cervello. Non mi piaceva.

«Ti starai chiedendo chi sono e cosa faccio qui». Aveva una bella voce, calma, dovevo ammettere. Parlava come le presentatrici in televisione, non come la gente che viveva in via Regina Guglielmina; e meno ancora come i tizi che abitavano lì dentro. «O forse sapevi della mia esistenza? L’hai sempre saputo?»

La guardai in faccia. Aveva sopracciglia e ciglia tinte di nero con il mascara, come Rosita.

«Penso di essere tua sorella». La voce le tremò.

Mi ci volle un po’ per ritrovare la mia. Non aveva senso. Non poteva essere. Quella donna era chiaramente pazza.

«Puoi dire qualcosa, per favore?» disse.

«Non ho sorelle».

«Come si chiama tua madre?»

«Agatha Antonia Boelens» dissi.

«Ecco, Agatha Antonia Boelens è anche mia madre. Sono nata nel 1985. Ma tu dov’eri?»

Era troppo per me. Le mie mani cominciarono ad agitarsi in tutte le direzioni.

Me le afferrò e le tenne strette tra le sue, come faceva Rosita.

Mi liberai subito con uno strattone.

«Scusa» disse la donna che si chiamava Iris Kastelein e diceva di essere mia sorella. «Vuoi qualcosa? Un bicchiere d’acqua? È possibile?» chiese alla guardia.

La risposta era no, non durante la visita.

Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella mi guardò. Somigliava molto a mia madre. Aveva gli stessi occhi. Mi stupii di non essermene accorto prima. Distolsi lo sguardo.

«Hai tutti i diritti di guardarmi, sai? Mi rendo conto che dev’essere un brutto colpo per te, e mi dispiace di essermi presentata qui così, senza preavviso, ma…»

La guardai di nuovo e vidi che aveva gli occhi umidi. Perché stava piangendo? E cosa si aspettava da me?

«Cosa ti è successo, Ray? Dove sei stato tutto questo tempo?»

Mi costrinsi a fermare il movimento delle mani e mi ci sedetti sopra. Ecco, così era meglio.

«Farebbe meglio a porgli domande più semplici» suggerì Mo dal suo angolo.

«D’accordo» disse Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella. «Fino a che età hai vissuto con la mamma?» Parlava molto lentamente, ora, come se fossi un ritardato.

Le risposi comunque: «Nove anni».

«Dove… andasti… a… vivere… dopo?»

«Puoi parlarmi normalmente».

«Scusa, certo. Dove andasti a vivere dopo?»

Era troppo per me. Quella donna veniva lì e mi faceva tutte quelle domande. Come potevo essere certo che fosse davvero mia sorella? Mia madre non aveva mai detto di avere un’altra figlia, né che fosse una figlia nuova di zecca, migliore di me. Una signora, addirittura, con un completo elegante. Perché mia madre avrebbe voluto un altro figlio, dopo essersi liberata di me?

«Ray ha difficoltà a gestire le emozioni» spiegò Mo, «e devo dire che si tratta di un colpo davvero duro da digerire».

«Sì, me ne rendo conto. Va bene se resto ancora un po’, Ray? O è troppo?»

Non risposi.

«Dove hai vissuto dai tuoi nove anni in poi? Quando te ne sei andato di casa?»

«Mason».

«Cos’è?»

«Una casa per ragazzi».

«Ray viveva in un collegio per ragazzi difficili» spiegò Mo. Dubito che avesse il diritto di divulgare informazioni confidenziali su di me. E poi, da che parte stava? Dalla mia o da quella di lei?

«Che orrore!» disse Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella, e che aveva ancora gli occhi umidi. «Non so cosa dire. Non riesco a credere che la mamma non mi abbia mai parlato di te, è incredibile. Ti veniva a trovare in collegio? La vedi ancora?»

La conversazione si stava facendo faticosa e confusa per me, soprattutto nel momento in cui chiamò mia madre “mamma”. Non avevo l’energia per rispondere alle sue domande. A un tratto notai un Pholcus phalangioides, un ragno ballerino, passeggiare sul muro.

«Preferisci che torni un’altra volta? Per lasciarti un po’ di tempo per pensarci?»

Il ragno avrebbe tessuto la sua tela sul soffitto, poi avrebbe aspettato che un altro ragno o un insetto vi restasse intrappolato, e avrebbe usato altro filo per imprigionarlo. Lo avevo visto tante volte su Discovery Channel.

«Ray?» mi chiamò Mo. «Iris ti ha fatto una domanda».

«Scusa». Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella mi stava fissando con la faccia di mia madre; il che non mi spaventava, ma mi rendeva nervoso.

«Sono stanco. Voglio tornare in camera mia». Mi alzai.

«Aspetta». Frugò nella borsa ed estrasse un mazzetto di foto. «Ti ho portato qualcosa».

«Non può consegnargli nulla di persona» intervenne la guardia. «Dia a me, ci penseremo noi a darle al detenuto».

«Oh...»

«Mi spiace, ma le regole sono regole. Abbiamo qualche problema con alcuni pazienti che fanno uso di droghe» spiegò Mo.

«Capisco» disse lei, quindi si rivolse a me: «Ho scattato alcune foto al tuo acquario, Ray. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere vederle».

King Kong, Hannibal, Saturn e Maria! Peanut e François! Tornai a sedermi.

«L’acquario funziona bene. La mamma chiama un tizio, Maurice, una volta alla settimana a fare la manutenzione. Il corallo è cresciuto parecchio. E di recente è venuto anche il signor Van de Akker.»

«Van de Akker?»

«Sì».

Il suo viso aveva un’espressione che non riuscivo a interpretare. Era paura, preoccupazione?

«Ha detto che l’acquario non è magnifico come quando te ne occupavi tu, ma che è ancora molto bello» continuò.

«E i pesci? Parlami dei pesci». Mi sporsi per non perdermi neanche una parola.

«Cosa posso dirti? Saturn e Chili trascorrono gran parte del tempo nascosti tra gli anemoni di mare e…»

«Sì?» Il semplice fatto di udir pronunciare i loro nomi mi riempiva di gioia.

«Margie nuota in cerchio tutto il giorno. Lo faceva anche prima?»

«Sempre».

«Be’, lo fa ancora. Ogni tanto litiga con François. Credo che sia per questioni di territorio».

Chiusi gli occhi per ascoltare quelle storie, come quando ero piccolo e mia madre mi leggeva le favole la sera, a letto. Quando andava ancora tutto bene.

«… Aaron, mio figlio, adora l’acquario. Ha quasi quattro anni, e il gioco che preferisce è guardare i pesci dalla mattina alla sera. Conosce i nomi di tutte le specie a memoria. I suoi preferiti sono i pesci chirurgo». Fece una pausa. «Ti mancheranno».

«Chi?»

«I pesci».

«Ci penso ogni giorno. Ogni giorno ripeto ad alta voce i loro nomi».

«Sono sicura che anche loro pensano a te».

«I pesci non pensano. Non come facciamo noi, in ogni caso. Non riescono neanche a distinguere una persona da un’altra. Come vuoi che facciano a pensare a me?»

«Penso che tua sorella intendesse farti un complimento» intervenne Mo. «Credo volesse dire che ti occupavi così bene dei pesci, che nessuno è in grado di sostituirti in modo adeguato».

«Sei molto preciso, vero?» chiese Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella.

Io però non riuscivo a pensare a lei come a mia sorella. Le sorelle per me erano sempre bambine piccole, come Anna.

La guardia mi consegnò le foto. «Tutto a posto».

Le presi e me le strinsi al petto.

«Non vuoi guardarle adesso?»

«Quando sarò solo».

«Non c’è nient’altro che possa fare per te? Hai bisogno di qualcosa? Soldi? Cibo? Vestiti?»

«L’unica cosa che voglio è tornare a casa, dai miei pesci».

Si rattristò. «Mi dispiace, in quello non ti posso aiutare».

«Non sono stato io. Mi tengono chiuso qui, non mi lasciano andare, ma sono innocente».

Rimase in silenzio a lungo, fissandomi ancora con quell’espressione strana. «Potrei rivedere il tuo caso, se vuoi».

All’inizio non capivo cosa intendesse.

«Sono avvocato. Posso dare un’occhiata e vedere se posso fare qualcosa per te. Non posso prometterti nulla, però».

«Non sono stato io». Era l’unica cosa che mi venisse in mente da dire.

«No?»

«No. Non sono stato io».