19. Ray

Rosita era quasi sempre allegra. Talvolta, però, capitava che fosse triste. Me ne accorgevo appena apriva la porta e la vedevo tornare in salotto senza dire una parola, strascicando i piedi. Non sapevo cos’altro fare, così la seguivo stringendo il mio sacchetto di carta con dentro la madeleine. Poi si lasciava cadere sul divano e restava seduta lì con il capo tra le mani.

«Ray!» esclamava felice Anna. Le si increspavano le labbra in un sorriso, gli occhi spalancati. Ogni volta, per prima cosa, afferrava la madeleine. Non si preoccupava di sfilarla dal sacchetto, strappava la carta e si ficcava tutto il dolce in bocca.

«Devi mangiarla piano per gustarla» le dicevo. «Devi prendere un boccone e masticare lentamente per sentire il sapore e la consistenza, e ti accorgerai che è appena croccante fuori e dolce e morbida dentro, umida ma leggera».

Anna di solito sedeva sul divano a guardare la televisione. Non la ritenevo l’attività più adatta a una bambina, e neanche mia madre. Allora decisi di comprare una grossa scatola di Lego Duplo per lei, così, quando andavo a trovarla, io cominciavo a costruire qualcosa e lei veniva ad aiutarmi. Facevamo castelli, fattorie, ville, case. Anna diceva che un giorno avremmo vissuto in un posto del genere, anche se le ripetevo sempre che non si può vivere in un castello giocattolo.

Rosita sedeva sul divano, a volte con la testa tra le mani, altre volte a osservarci o a guardare la televisione; ogni tanto, ma non accadeva spesso, veniva ad aiutarci.

Un giorno mi disse: «Non mi chiedi mai come sto».

«Non sapevo di doverlo fare» risposi. «Scusa. Vuoi che te lo chieda?»

«Sì. Non è normale? Le persone normali si chiedono a vicenda come stanno».

Ci rimasi male. Pensavo di avere fatto tutto nel modo giusto. Passavo ogni giorno, portavo sempre un dolcino, e la settimana precedente mi ero occupato del giardino.

«Non ti è piaciuto che te l’abbia detto».

«No».

«Perché no? Andiamo, ammettilo, non sei normale, vero? Stai sempre in casa da solo a fissare quei pesci. E poi la tua puntualità: ci porti sempre una madeleine ogni pomeriggio alle tre e un quarto precise. Non è normale, no?»

Alzai le spalle. Non riuscivo a guardarla.

«Smettila di muovere le mani in quel modo. Non stai impastando il pane, ora». Mi afferrò le mani e mi costrinse a tenerle ferme. Le sue erano calde. Morbide e calde.

«Oppure, prendiamo tua madre, ad esempio, a proposito di normalità: è normale che tu non la veda quasi mai, che non parli mai con lei? Perché?»

«Ha troppo da fare» balbettai.

«Stronzate! Vuoi sapere cosa penso io? Penso che tua madre dovrebbe essere orgogliosa di te. Lo sa, almeno, che c’è gente che fa la fila al panificio solo per comprare i tuoi croissant?»

«Probabilmente no».

«Vorrei dirgliene quattro, a tua madre. Hai il suo numero?»

Non osavo quasi parlare. «No».

«Come? Non conosci neanche il numero di telefono di tua madre? Perché no? Non ha il telefono?»

«Le scrivo lettere, e lei mi risponde. Mi risponde sempre».

«Scrivere? E perché? Ti telefona, ogni tanto?»

«A volte. Se deve venire in un giorno diverso da quello stabilito».

«Cosa vuoi dire?»

«Il giorno stabilito: il terzo sabato a mesi alterni».

Rosita levò gli occhi al cielo. «D’accordo. Dammi il suo nome e l’indirizzo, e cercheremo il suo numero di telefono. Adesso ci penso io, brutta strega». Parlava forte, molto più forte del solito.

«Sei arrabbiata con me?»

Rise. «Certo che no, sciocco. Sono arrabbiata con tua madre. Come osa liberarsi di te in questo modo?» Mi si avvicinò – anche l’incavo tra le clavicole si avvicinò, e faticavo a respirare – e mi prese la mano nelle sue. «Ray, è tua madre. Immagina se mandassi via Anna. Cosa penseresti?»

Guardai Anna che aveva smesso di costruire castelli e stava guardando la televisione.

«Esatto. Non si fanno, certe cose».

Avevo soltanto il numero di casella postale di mia madre, e questo mandò Rosita su tutte le furie. Chiamò il servizio informazioni, ma le dissero che c’erano almeno quaranta Boelens ad Amsterdam. «Devi chiederle il suo numero di telefono la prossima volta che le scrivi, capito? E fatti dare anche il suo indirizzo postale. Voglio proprio vedere come ne viene fuori».

Naturalmente non osai mai chiederlo a mia madre. Anche se Rosita continuava a domandarmi se l’avessi fatto.

La volta successiva che vidi Rosita con la testa tra le mani, ricordai cosa dovevo fare e le chiesi: «Come stai?»

Lei levò un poco il capo e mi fissò da sotto i ricci scuri. Aveva gli occhi rossi, ma mi fece comunque un piccolo sorriso: «Grazie per avermelo chiesto, Ray».

«Come stai?» ripetei, perché non sapevo bene cosa dire.

«Vieni a sederti accanto a me». Toccò il divano accanto a sé. «Abbracciami».

Andai a sedermi sul divano e, siccome ero come paralizzato, mi prese il braccio e se lo mise attorno alle spalle. Non eravamo mai stati seduti tanto vicini.

«Non essere tanto rigido, Ray. Abbracciami».

Strinsi di più. Volevo fare tutto nel modo giusto.

«Mi fai male. Stringimi, ma con dolcezza. Scuoti il braccio, così lo rilassi un po’, e posamelo sulle spalle. Bene, così. Benissimo».

Restammo lì seduti abbracciati. Rosita tirava su col naso, io aspettavo di vedere cosa sarebbe successo.

«Non ce la faccio più» esclamò a un certo punto. «Mi fa impazzire, vivere in questo modo». Tacque, poi disse: «Adesso mi devi chiedere perché».

Mi schiarii la voce. «Okay. Ehm… Perché? Perché… impazzisci a vivere in questo modo?»

«Non lo vedi? Sono qui con una bambina, niente lavoro, niente marito. Riesco a malapena a sbarcare il lunario. Guardati attorno. Ti pare una bella casa, questa?»

Mi guardai attorno e gli occhi mi caddero sulla fotografia appesa alla parete, di Rosita nuda e incinta. Il pene mi si indurì.

«Non posso neanche permettermi una fottutissima moquette. Una volta ero giovane e carina e mi sentivo padrona del mondo. Avrei potuto avere tutti gli uomini che volevo, uomini che guadagnavano bene. Invece, ho scelto quello stronzo». Incominciò a piangere, il mio braccio intorno alle sue spalle era scosso dai sussulti di lei.

Allungai la mano e, guardingo, le carezzai i capelli. Non mi respinse. Mi lasciò fare. Aveva i capelli morbidi, come quelli di mia madre quando ero piccolo. Solo più ricci e più scuri.

«Sai una cosa? Un giorno sarò ricca. Molto ricca. Ho un prozio ricco in Inghilterra, sai? Ma a cosa mi serve, ora? Finché non muore, mi tocca restare in questa topaia. Cosa devo fare? Mi devi aiutare, Ray».

Mi sentii prendere dal panico. Cosa voleva da me? Che uccidessi il prozio?

«Non posso continuare a vivere in questo modo. Non solo per me, ma anche per Anna».

Non sapevo cosa dire, poi ebbi un’ispirazione: «Domani andiamo a comprare la moquette. La moquette migliore che troviamo».

«Ma non posso permettermela».

«Pagherò io. Ti compro la moquette, perché voglio che tu abbia una bella casa».

Lei mi guardò. «Davvero faresti questo per me?»

Annuii. Mi sentii tutto caldo, dentro.

Mi gettò le braccia al collo e mi diede un bacio sulla guancia. Sentii il suo odore dolce e il suo seno premere contro di me. Il pene fu lì lì per esplodermi.

«Oh, Ray». Rosita si mise una mano sulla bocca. «Non sei abituato al contatto con gli altri, eh?»

Rise, e risi con lei. Ridemmo a lungo.