23. Ray

«Analisi per il test antidroga alle undici» annunciò a colazione l’assistente sociale con gli occhiali. Avevo scoperto che si chiamava André.

Stavo spalmando il miele su una fetta di pane industriale che mi si spappolava tra le dita. Avrei tanto voluto del pain de Boulogne con la crosta croccante e la mollica leggera, morbida, appena acidula, per spalmarvi sopra un velo di burro fresco; non ci sarebbe stato bisogno di altro.

André sospirò, infastidito: «Puoi guardarmi e almeno farmi un cenno per dimostrarmi che hai capito quello che ho detto?»

Sollevai la testa: «Sì».

«Sì, cosa?»

«Ho sentito».

«Verranno a prenderti alle undici meno cinque. Ti accompagneranno all’infermeria. Dovrai fare pipì in un bicchiere, proprio come il giorno del tuo arrivo».

Lasciai cadere il coltello. Avrei dovuto orinare ancora davanti a quella donna, la donna con gli occhi curiosi che non aveva niente di meglio da fare che fissarmi il pene. Ti deludono sempre, le donne. Persi di colpo l’appetito.

«Nervoso?» chiese Hank. Si guardò alle spalle, poi proseguì sussurrando: «Bevi tanta acqua. Almeno tre litri. In questo modo la tua urina sarà inservibile, non potranno trovarci niente».

«Come?»

«Non sei tanto intelligente, vero? Ora ti spiego. Devi bere tanta acqua per diluire la pipì, così non riescono a trovarci la droga. Capito?»

«Ma io non mi drogo».

Rise. «Tutti si drogano, qui dentro. Come pensi che arriviamo a fine giornata?»

«Cosa state sussurrando, vuoi due?» chiese l’assistente sociale. «Meglio che non vi sediate vicini, ai pasti. Deepak, per favore puoi scambiarti di posto con Hank?»

Hank non mi piaceva, ma almeno lo conoscevo. Mi ero abituato al suo odore di tabacco e alle macchie di sudore sotto le ascelle. Deepak non era lì da tanto.

«Non puoi fidarti di quei musi gialli. Si scopano tua moglie e ti sparano per dieci euro» aveva detto Hank.

Deepak si sedette accanto a me. «Perché devo sedermi io vicino al ritardato?» chiese a voce alta. Risatine.

Era un adultero e un killer malpagato, eppure aveva il coraggio di dare a me del ritardato. Perché non poteva farsi gli affari suoi? Andai in bestia.

Non volevo trovarmi lì, non volevo che la gente parlasse con me o di me, e di sicuro non mi andava di essere chiamato ritardato. «Non sono un ritardato!» urlai.

Non avevo mai parlato così forte nella sala comune. Nella mia cella talvolta parlavo ad alta voce, urlavo perfino, come facevo quando ero in prigione; ma lì, alla luce, circondato da tutti quei bulli, pazzi e truffatori, cercavo di tenere la bocca chiusa più che potevo.

«Vai, piccolo Rano! Sfogati!» esclamò Eddie con un fischio».

Risero tutti. Deepak più degli altri.

Afferrai il coltello e lo brandii davanti a me.

L’assistente sociale con gli occhiali balzò in piedi: «Okay, calma, adesso. Posa il coltello e finisci il tuo panino».

«Questo panino fa schifo». Agitai il coltello a conferma delle mie parole. «Voialtri non avete idea di cosa sia il pane buono! Non ne avete idea! Siete voi a essere ritardati». Mi avvidi che avevo la bava alla bocca. Ne cadde qualche goccia sul pane schifoso, sul piatto e sul tavolo.

«Posalo, Ray. Il tuo comportamento aggressivo ti farà finire in isolamento» mi avvertì l’assistente sociale.

«Andiamo, siediti, amico» disse Rembrandt. Si voltarono tutti a guardarlo. A un tratto nella stanza calò il silenzio. «Rainman non voleva. Vero, Rainman? È tutto a posto, adesso».

Volevo precisare che non mi chiamavo Rainman e che non era tutto a posto, ma la parola “isolamento” mi fermò.

«Non sei tu a prendere le decisioni qui dentro, Rembrandt» disse André, ma si risedette.

«Non voglio problemi» mi disse solo André, mentre camminavamo lungo i corridoi verso l’unità ospedaliera. Ci accompagnava una guardia. «Tu non ti droghi, vero?»

«No» risposi.

Attraversammo il cortile con lo spaccio, dove una volta alla settimana si poteva andare a comprare qualcosa sotto supervisione. Ci si trovavano fagioli in scatola, sigarette e materiale per farsi la barba. Tutto costava più che in un supermercato all’esterno, e molti si lamentavano. Uno dei detenuti aveva perfino proposto uno sciopero della fame, ma non aveva suscitato grande entusiasmo.

L’infermiera che non portava il camice bianco mi aspettava nell’unità Ospedaliera. Il dottor Römerman aveva provato a spiegarmi il motivo per cui il personale non indossava il camice bianco: era intenzionale, non volevano sottolineare la differenza tra loro e noi. Le guardie erano le uniche a portare l’uniforme. Per me, però, era fonte di confusione: non riuscivo a capire chi era un paziente e chi un medico, chi un assistente sociale e chi un infermiere. Lo si poteva intuire soltanto dal cercapersone che portavano alla cintura e dalle targhette col nome appese al collo. La catenina era fatta in modo da rompersi appena tiravi, così non rischiavano di essere strangolati.

«Sa cosa deve fare» mi disse l’infermiera con aria severa. «Si abbassi i pantaloni al ginocchio, sollevi la camicia e faccia pipì nel bicchiere».

Non mi mossi. Fissai il bicchiere e lo specchio lì accanto.

«Il detenuto è un po’ agitato, oggi. C’è stato qualche problema a colazione» » spiegò l’assistente sociale con gli occhiali.

Mi avvicinai lentamente all’orinatoio e mi fermai lì davanti.

«Giù i pantaloni».

Armeggiai con il bottone dei jeans. Le mani mi tremavano a tal punto che non riuscivo nemmeno a slacciarli. «Non ci riesco».

«Ci risiamo» commentò l’infermiera.

Il bottone si aprì e la cerniera scese.

«Giù i pantaloni». Faceva freddo. Pensai ai miei pesci che nuotavano in acqua filtrata, a pH neutro e temperatura costante di ventisei gradi centigradi.

«Ehi, non ho tutto il giorno a disposizione!»

Abbassai i pantaloni e anche le mutande. Nello specchio vidi il mio pene pendulo, inerme. Lo afferrai e mi avvicinai al recipiente.

«Sollevi la camicia» sbottò l’infermiera.

Lo lasciai andare e arrotolai la camicia fin sotto le ascelle.

«E adesso orini nel bicchiere».

Il mio pene non voleva saperne, ne ero sicuro, però ci provai. Mi sforzai più che potevo per far uscire un goccio di pipì.

«Sempre la stessa storia» disse l’infermiera. «Ha bevuto abbastanza, oggi?»

«Penso di sì» rispose André. «Hai bevuto, Ray?»

Uscì qualche goccia e poi un filo sottile.

«Bene, si può rivestire».

Mentre sistemavo i jeans e le mutande, mi veniva da piangere. «Saturn, Maria, Hannibal e King Kong» dissi ad alta voce. «Margie e Peanut. Venus e Raisin. E François».

«Cosa sta blaterando?» chiese la guardia.

Tornando nella mia unità, sentivo la mia voce che continuava a ripetere i nomi dei pesci. Tante, tante volte.

«Credo sia meglio se passi il resto della giornata in camera tua» disse André.

Ma non mi lasciarono stare in camera mia. Invece di passare il resto della giornata a guardare le foto e a metterle in ordine, fui chiamato subito in terapia.

Lì mi aspettava Jeannie. Non la vedevo da un paio di giorni, e mi mancavano le nostre conversazioni sulla pasta madre, che lei stava preparando seguendo i miei consigli. Non aveva l’equipaggiamento per mantenerla a temperatura costante, ma sembrava sulla strada giusta.

Mi piaceva parlare con Jeannie, sempre che non ci fosse troppa gente nei paraggi, nello stesso tempo però mi rendeva nervoso. Soprattutto da quando Rembrandt mi aveva detto che dovevo toccarle il sedere perché lei non aspettava altro. Forse si aspettava davvero che lo facessi. Cercai di capire se fosse vero e, in questo caso, quale sarebbe stato il momento giusto per provarci. Non riuscivo a decidermi.

Una volta mi aveva chiamato. Era davanti al piano di lavoro del cucinotto dell’unità e si stava preparando un panino. Indossava jeans aderenti. Aveva un sedere più grosso di quello di Rosita, ma forse altrettanto bello.

Mi ero avvicinato, incapace di distogliere lo sguardo dal suo didietro. Il mio cuore si era messo a battere più velocemente, non riuscivo quasi più a respirare per via del peso sul petto. Forse era il momento giusto. Mi ero fermato proprio dietro di lei e stavo per allungare la mano, come Rembrandt mi aveva detto di fare. In quell’istante lei si era voltata: «Per favore, puoi aprire questo barattolo per me? Non ci riesco».

«Siediti, Ray». La voce di Jeannie era diversa, rispetto a quando mi parlava del pane. Non era amichevole, ma fredda. Mi chiesi perché. Avevo combinato qualcosa? La pasta madre era morta?

La guardia rimase accanto alla porta. Di solito mi lasciavano da solo con la terapeuta lì in ufficio. Cosa ci faceva, allora? Cosa stava succedendo?

Jeannie puntò i gomiti sulla scrivania, intrecciò le dita e fece un respiro profondo. «Mentre ti portavano a fare il test antidroga, abbiamo ispezionato la tua stanza. È una procedura normale. Lo facciamo sempre, dopo che un residente ha ricevuto un visitatore per la prima volta».

Visitatore. Era la donna chiamata Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella. La donna che mi aveva portato le foto dei miei pesci. Alla fine ero stato contento che fosse venuta. Ora, però, non ne ero più tanto sicuro: della gente era entrata nella mia stanza e aveva toccato le mie cose, tutto per colpa sua.

«Chi è entrato nella mia stanza?»

«Io e una delle guardie» rispose Jeannie.

Il fatto che Jeannie fosse stata nella mia stanza non era terribile, potevo sopportalo. Aveva un buon odore e mani piccole. Ma la guardia, con le sue mani grosse e puzzolenti, era un problema.

«Purtroppo abbiamo trovato questo». Sollevò un sacchetto di polvere bianca. Cocaina. L’avevo vista spesso in televisione e anche in prigione. Mai così tanta tutta insieme, però. Eddie una volta mi aveva mostrato le sue provviste: il sacchetto era così piccolo che poteva arrotolarlo e nasconderselo in una narice. Secondo me doveva fargli male.

«Il bello è che più la usi, più le narici si allargano» aveva detto. «Il setto nasale comincia a marcire, e hai sempre più posto per nascondere la roba». Aveva cominciato a ridere, e mi ero tappato le orecchie perché la sua risata mi faceva impazzire.

Ora Jeannie teneva in mano un sacchetto di quella polvere.

«Di chi è?» chiesi. «Non starebbe mai nel naso di una persona».

«Certo non tutta insieme» replicò lei.

«Come è arrivata nella mia cella?» chiesi.

«Lo chiedo a te». Si appoggiò alla sedia a braccia conserte.

«Non lo so. Non è mia». Ero molto confuso. Cercai di pensare alle parole giuste. Mi sforzai di trovarle, ma non mi venivano. Allora continuai a ripetere: «Non lo so. Non lo so. Non lo so. Non lo so».

«Non è possibile che la droga sia entrata in camera tua da sola» disse Jeannie. «Mi hai deluso molto, Ray. Mi aspettavo qualcosa di meglio da te». Mi fissò senza sorridere.

Nel frattempo sentivo che il mio cervello e le mie mani erano in preda all’agitazione. Non sapevo cosa fare. Mia madre avrebbe saputo come comportarsi, ma mi aveva detto che non la potevo più contattare.

«Dovremo revocare alcuni dei tuoi privilegi, finché non ci dimostrerai che ti sei riguadagnato la nostra fiducia. Per le prossime quattro settimane sarai confinato in camera tua, anche nelle ore in cui gli altri stanno insieme, il che significa che dovrai rinunciare al giardinaggio».

Le sue parole cominciarono ad acquistare un senso: le siepi. Non avrei avuto il permesso di pareggiare le siepi. Oddio! Sempre la stessa storia: ti accusavano di qualcosa di terribile e ti toglievano le uniche cose che amavi. Rosita e Anna. I miei pesci. Il panificio. E ora, le siepi.

«Non le siepi» implorai. «Le ore in comune mi va bene, non mi interessano. Ma non le siepi! Non ho fatto nulla di male. La droga non è mia. Lo giuro».

«La droga è stata trovata in camera tua, inutile negarlo. Un punto a sfavore per te» riprese Jeannie. «La prima valutazione sarà tra diciannove mesi. In quell’occasione, vedremo se hai riconosciuto i tuoi errori e voltato pagina. I pazienti che lo fanno hanno una possibilità di ritornare nella società. Ciò non vale, però, per quelli che si ostinano a mentire e rifiutano di imparare».

Imparare? Finora avevo imparato soltanto che non faceva nessuna differenza quello che dicevi o facevi. Trovavano sempre un modo per fartela pagare. Sempre. Ero stanco di cedere.

«Non tengo droga in camera mia. Qualcun altro ce l’ha messa, mentre mi facevano fare pipì nel bicchiere davanti alla donna senza camice bianco, e non avrei voluto fare neanche quello. È stato qualcun altro. Io non c’entro».

«Mi dispiace. Vorrei tanto che non fosse accaduto».

Le avevo dato la ricetta per La Souche e lei mi toglieva le siepi. Mi stavo arrabbiando, molto. «Non il giardino!» esclamai. «Non riesci a capire che mi hanno già tolto tutto?»

«Calmati, Ray».

Ma questo mi fece agitare ancora di più. Avrei voluto afferrare Jeannie, scuoterla come faceva mia madre con me quando ero piccolo, quando ero un bambino che non le dava ascolto.

«Non toglietemi il giardinaggio!» Ormai urlavo, non tanto contro Jeannie e la guardia, ma contro il mondo intero. O forse contro la statua col perizoma in cortile, o mia madre, o Iris Kastelein che diceva di essere mia sorella. Che qualcuno mi aiuti! Chiunque! «Non il giardino!»

«Ora basta» dichiarò Jeannie. «Abbiamo finito. Puoi tornare in camera tua».

Se fossi tornato nella mia cella, sarebbe finita.

La guardia mi mise una mano sulla spalla. «Alzati».

Dovevo dire qualcosa, spiegare, ma non mi ascoltavano. Nessuno mai mi ascoltava. La patetica piantina nel vaso sulla scrivania attirò la mia attenzione. Nei laboratori della prigione uno dei miei incarichi era attaccare cartellini con nome e istruzioni sulle piantine. Oppure avvitare le viti ai bulloni. Quella era una dracena e aveva bisogno di molta luce. Avevo letto quell’adesivo almeno seicento volte.

Afferrai la pianta e la lanciai contro il muro, vicino alla testa di Jeannie. Volarono schegge in tutte le direzioni, una mi colpì perfino in fronte, e il terriccio lasciò una macchia scura sulla parete bianca.

Jeannie si abbassò di lato, anche se il vaso le era già passato accanto. Non avevo certo voluto colpirla. Nel lanciare mi ero assicurato di non farle male.

La guardia mi torse le braccia dietro la schiena e mi mise le manette. Cominciai a urlare come un animale. Forse ero un animale, ecco perché mi toglievano sempre tutto. Anche se pure i miei pesci erano animali, ma loro potevano tenersi tutto quello di cui avevano bisogno.

La porta si aprì di colpo, e la stanzetta si riempì di guardie. Non ricordo di avere mosso le gambe. Mi trascinarono fuori dall’unità, lungo corridoi, attraverso cortili, oltre diverse porte. Continuavo a urlare e cercavo di liberarmi. Volevo uscire di lì. Non era per me, quel posto. Non avevo fatto nulla di male.

Arrivammo a una cella contenente solo un letto coperto di lenzuola di carta. L’isolamento. Doveva essere la cella di isolamento. «Lasciatemi andare! Fatemi uscire!» sbraitai. Nessuno mi ascoltava. Ero circondato da almeno cinque persone, ma nessuno mi ascoltava.

«Non ho fatto nulla di male!»

Mi gettarono sul letto di pancia. Mi abbassarono i pantaloni. Resistetti meglio che potei, ma erano troppo numerosi per me. «Ti facciamo un’iniezione» disse l’infermiera senza camice bianco. Sentii una puntura dolorosa su una natica, e quasi subito tutto divenne confuso. Mi spogliarono con calma ed efficienza.

Pensai a Rosita.