24. Iris

Dovevo incontrare Rence dalle undici alle undici e mezzo. Immaginavo bene di cosa si trattasse. Decisi di restare tranquilla; non mi sarei scusata, avrei ammesso, educatamente, di avere perso la calma con Van Benschop, promettendo che non sarebbe successo mai più. Anche se Rence a volte poteva essere intrattabile e brusco, di solito gli passava in fretta. Speravo che sarebbe accaduto anche quel giorno.

Entrando nell’ufficio di Rence, vidi Martha Peters accanto alla finestra. Mi fece un cenno di saluto.

Durante i primi mesi da Bartels & Peters avevo cercato di creare un legame con lei. Dal momento che eravamo in nove, e Martha era l’unica altra donna, a parte la receptionist, ero sicura che saremmo andate d’accordo.

Una volta le suggerii anche di andare a pranzo insieme per conoscerci meglio, ma la sua unica risposta fu una smorfia infastidita, come se avesse avuto una mosca che le ronzava attorno al capo. Mentirei, se dicessi che non l’avevo presa come un’offesa personale. Mi sentii insultata e mi chiesi dove avessi sbagliato. Infine capii: proprio come alcune maestre sono capaci di far sentire ogni bambino come se fosse il loro preferito, Martha Peters aveva il dono, ben poco edificante, di far sentire in torto tutti, sempre e comunque.

«Ho fatto venire anche Martha, perché trovo importante che sappia cos’è successo ieri» esordì Rence.

Mi chiesi cosa significasse la sua presenza, e mi schiarii la voce: «Bene. Non intendo scusarmi, ma ammetto di essere stata un po’ brusca, ieri».

Rence era seduto dietro la sua imponente scrivania. La sua sedia era leggermente più alta di quella di fronte, quindi torreggiava sempre sugli interlocutori.

«Brusca mi pare un eufemismo. Direi “aggressiva”, invece».

«Lawrence…» intervenne Martha, ma non penso certo che volesse venirmi in aiuto.

«Il tuo comportamento è stato inaccettabile» proseguì Rence. «Esagerato. Se i Van Benschop non fossero clienti fedeli del nostro studio, lo definirei addirittura catastrofico».

Ero in attesa del richiamo ufficiale.

Si lasciò andare contro lo schienale, con le mani tese davanti a sé, appoggiate al piano del tavolo. «Mi chiedo se tu sia in grado di tenere separata la vita professionale da quella personale».

Mi sentii pervadere dalla collera e dalla frustrazione, e ribattei con voce più stridula del dovuto. «Non mi fa certo piacere essere chiamata dall’asilo e dovermi assentare per occuparmi di mio figlio. Se ti crea problemi…»

«Non lo sto dicendo per me» mi interruppe. «Lo dico per te. Sei ancora giovane, dovresti avere il mondo ai tuoi piedi. Invece, annaspi. Hai le borse sotto gli occhi, lo sai?»

«Cosa stai cercando di dire? Che posso farmi rimborsare dallo studio il Touche Eclat?»

«Touche cosa?»

«Touche Eclat» ripeté Marta, in piedi accanto alla finestra, «di Yves Saint Laurent».

«Come?»

«Lascia stare» tagliai corto.

«È un prodotto per nascondere le occhiaie» spiegò Marta. «Dovresti provarlo anche tu».

Rence le lanciò un’occhiata irritata e tornò a rivolgersi a me: «Sto meditando di darti un richiamo ufficiale».

Aveva pronunciato la parola che avevo tanto temuto. «Solo “meditando”?»

«Ecco cosa mi piace di lei: è furba come una volpe. Mi ricorda te, quando eri giovane».

Forse mi sbagliavo, ma mi parve che lo sguardo sul viso di Martha esprimesse solidarietà femminile.

«Comunque, Iris, hai sentito bene: ho detto “sto meditando”. Ora sta a te fare in modo che mediti nella direzione giusta».

Annuii. Non mi licenziava, per il momento.

«E adesso che siete qui entrambe, possiamo parlare dell’appello?»

«Il detenuto in ospedale psichiatrico» disse Martha.

«È un caso interessante» esordii, felice di cambiare argomento. «L’individuo in questione fu accusato di avere ucciso la vicina e sua figlia, una bambina. Siccome gli furono diagnosticati problemi dello sviluppo, si trova in un istituto psichiatrico, ma giura di essere innocente».

«Da quando le condanne hanno cominciato a essere rovesciate dalle prove fornite dal dna, dobbiamo partire dal presupposto che chiunque si trovi in prigione sia innocente, così possiamo fatturare sempre più ore» disse Rence.

«Giusto» convenni, anche se non la pensavo allo stesso modo.

«Eccellente, ragazza mia. Procurare nuovi casi allo studio è un’ottima idea e uno dei motivi per cui non hai ricevuto un richiamo ufficiale, per ora. A che punto sei col caso?»

«Indietro. Non ho ancora ottenuto copia dei verbali, ma ho tutti gli articoli di giornale».

«Non lasciarti sviare dai media» suggerì Martha, che ci aveva voltato le spalle un’altra volta.

«Certo».

«Come mai non hai ancora i verbali? La Corte d’appello ha già fissato l’udienza?» si informò Rence.

«Non ancora, ma è questione di giorni».

«Stagli addosso. Fa’ quello che devi. Ricorda: quando un bravo avvocato addenta l’osso, non lo lascia più andare».

Annuii, come una brava bambina.

Chiamai l’Hopper Institute e chiesi di parlare con Mo per fissare una nuova visita. Mo, però, mi disse che Ray era in isolamento e non poteva ricevere visite.

«In isolamento? Perché?» chiesi.

Seguì un breve silenzio. «Dopo la sua visita, è stata trovata droga nella sua stanza».

«Cosa?»

«Non sto neanche a raccontarle quanta droga entra qui. Ecco perché il regolamento prevede un’ispezione nella stanza dei residenti, dopo che ricevono la loro prima visita».

«Certo non gliel’ho portata io, la droga» osservai.

«Voglio crederle. In tutta onestà, anche a me pare strano. Vede, l’urina di Ray era a posto, al cento per cento negativa. Quasi tutti i tossicodipendenti non hanno pazienza di aspettare il test di controllo per drogarsi e di solito fumano o sniffano quella roba appena riescono a procurarsela. In ogni caso, Ray non mi ha mai dato motivo di sospettare che si drogasse».

«Posso assicurarle che quella droga non veniva da me» ripetei, imbarazzata.

«Vista la quantità di cocaina trovata in camera sua, si presume che spacciasse».

«Non dirà sul serio, spero! Ma lei l’ha visto, Ray?»

«In effetti, mi sembra strano, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. Per andare sul sicuro, stiamo conducendo un’indagine. Comunque andrà a finire, ci sono buone probabilità che lei finisca sulla lista nera».

«Ma è assurdo! Non c’entro niente, io».

«Potrebbe scrivere una lettera all’amministrazione, immagino».

«Se diventassi il suo avvocato, cambierebbe qualcosa?»

«Come avvocato può venire a trovarlo tutte le volte che vuole. Per rappresentarlo deve riempire un modulo ufficiale, che posso mandarle via mail».

«Sì, grazie. Lei mi crede, vero, che non gliel’ho portata io, la droga?»

Silenzio. «Le credo» rispose infine. «E poi, c’era un problema di droga già prima che arrivasse Ray. Direi che gli spacciatori hanno un complice che lavora qui».

«Sono contenta che mi creda.»

«Compili i moduli e me li rispedisca. Le farò sapere quando arriverà il permesso. Di solito ci vogliono tre giorni circa. Sarebbe opportuno che ci vedessimo la prossima volta che viene, così potrò fornirle qualche altro particolare su Ray».

«Mi farebbe molto piacere».