27. Ray

«C’è nessuno?» Picchiai sulla porta della cella. «Ehi!»

Nessuna risposta.

Mi guardai attorno, in cerca di una via d’uscita. Vidi soltanto quattro pareti bianche e una finestrella con le sbarre che si affacciava su un fazzoletto di prato. A parte quello, la stanzetta era dotata di una porta con due piccoli spioncini, chiusi. Bussai di nuovo. Non accadde nulla.

Mi chiesi cosa sarebbe successo, se avessi usato tutta l’aria di quello spazio angusto. Stava già succedendo: a ogni respiro sentivo che i miei polmoni incameravano meno ossigeno. Respirare sarebbe diventato sempre più difficile, e alla fine sarei soffocato.

La pompa dell’aria del mio acquario aveva smesso di funzionare, una volta. Lo avevo scoperto alle tre del mattino, mentre stavo per andare al lavoro. Controllavo sempre l’acquario e verificavo i livelli a quell’ora.

Il primo particolare che avevo notato era stato il silenzio: l’acqua non gorgogliava, e non si udiva il ronzio continuo della pompa. Avevo guardato all’interno alla ricerca dei pesci, ma non sfrecciavano tra gli anemoni né cercavano cibo sulla superficie del corallo. Alla fine li avevo visti: galleggiavano in superficie, a bocca aperta.

Dovevo salvarli. A cosa serviva vivere, se loro morivano? Per fortuna avevo ancora una vecchia pompa che usai come rimedio provvisorio. «Resistete ancora un po’» ricordo di avere detto loro, anche se i pesci non ci sentono, al massimo percepiscono una vibrazione. Forse lo dicevo più a me stesso che a loro. «Resistete ancora un po’». Avevo installato la vecchia pompa, l’acqua aveva ricominciato a gorgogliare, e i pesci avevano ripreso a farsi gli affari loro come se niente fosse.

Ai miei pesci non mancava mai niente. Me ne occupavo sempre io.

Nella cella d’isolamento non c’era una pompa di riserva né una via d’uscita. Niente. Nessuno sarebbe venuto a salvarmi.

«C’è nessuno?» chiamai di nuovo. «Per favore, c’è qualcuno? Devo uscire di qui. Sto soffocando!»

Udii dei passi in corridoio. Lo spioncino si aprì e vidi un viso sconosciuto.

«Tutto bene, lì dentro?»

«No» annaspai. «Non riesco a respirare. Io…» Mi portai le mani alla gola. «Per favore, apra la porta. Non c’è quasi più ossigeno, qui dentro».

«Impossibile» replicò il viso. «Guarda sul soffitto. Vedi quei condotti di ventilazione? Buttano dentro aria fresca, quindi non puoi soffocare».

«Non funzionano» gli assicurai. «Sento che non arriva niente. Sto soffocando. Voi volete che muoia».

«Stai avendo un attacco di panico» disse la faccia. «Prova a respirare, dentro e fuori, piano, con calma. Se non ti senti meglio, chiederò al medico di darti qualcosa per rilassarti, va bene?»

«Mi avete nascosto la droga in camera per rinchiudermi qui dentro, e adesso mi lasciate morire. È una trappola. Mi avete teso una trappola».

«Calmati, adesso. Ricorda quello che ti ho detto. Guarda le bocchette di ventilazione sul soffitto».

«Non funzionano. Glielo assicuro, non funzionano».

«Vuoi che lasci aperta la feritoia? Così puoi respirare da lì, se preferisci».

La faccia scomparve di nuovo e mi misi in punta di piedi per arrivare allo spioncino. Ero come François, Maria, Hannibal, Peanut, Raisin, King Kong e gli altri: succhiavo avidamente il poco ossigeno a disposizione con la bocca spalancata, in attesa della pompa di riserva.

Dopo alcune ore, mi stancai di quella posizione scomoda. Avevo un crampo alle gambe e il collo indolenzito. Mi sedetti sul pavimento; non mi importava più di morire. Anzi, sembrava perfino una possibilità accettabile, ormai.

Quando venne buio, mi portarono da mangiare. Lo sportello più grande fu aperto e posarono su una sporgenza della porta un piatto di plastica pieno di spaghetti con posate di plastica e un bicchiere d’acqua.

Balzai in piedi. «Ehi!» gridai. «Ehi, c’è qualcuno?»

Nessuno rispose, e lo sportello si richiuse.

Mi lasciai scivolare sul pavimento con il mio piatto di spaghetti. Della salsa di pomodoro mi cadde sui pantaloni bianchi e lasciò una brutta macchia rossa. Rosso su bianco.

Proprio come Rosita, quando era morta. Portava la sua maglietta bianca, quella con le spalline sottili che lasciava intravvedere seno, capezzoli e tutto. Era sempre vestita troppo leggera per ogni stagione. Non faceva molto caldo il giorno in cui Rosita era morta, ma lei preferiva alzare il riscaldamento che mettersi qualcosa addosso. Non le piaceva portare troppi strati di abiti, diceva. Avrebbe preferito stare nuda tutto il giorno.

La maglietta bianca era strappata e coperta di macchie rosse. Anche la minigonna era sporca di sangue. Quanto sangue! Dappertutto. Tutto quel sangue mi dava il capogiro, e dovevo continuare a chiudere gli occhi perché non riuscivo a guardarlo.

Anna portava un vestitino rosa. Lo vendevano da C&A. Solo che aveva una grossa macchia bagnata proprio sulla pancia. Aveva gli occhi aperti, con un’espressione che non riuscivo a decifrare. Paura? Sorpresa? Vidi le iridi azzurre, più scure sui bordi, ma i suoi occhi non luccicavano più.

Rosita aveva gli occhi socchiusi. La bocca era leggermente aperta, come se ridesse. Anche da morta rideva. Non sapevo perché. Si stava prendendo gioco di me? Mi prendeva ancora in giro?

C’era sangue per terra tutt’intorno a loro, come uova fritte con i tuorli rotti. Il sangue non era liquido, ma appiccicoso, e mi restò incollato alle scarpe, che lasciarono impronte sulla moquette beige.

«Volete proprio una moquette di colore così chiaro, con una bambina piccola in casa?» ci aveva chiesto il commesso del negozio. Immaginava che abitassimo tutti e tre insieme, e forse pensava perfino che io fossi il padre di Anna. Già solo per quello, mi era risultato simpatico. «Ne abbiamo altre, a macchioline marroni».

Ma Rosita non voleva colori scuri in casa. «Il beige è elegante» aveva dichiarato. «La gente ricca che vive in case grandi ce l’ha così. Se si sporca, ne compreremo una nuova».

La moquette era costata quasi seimila euro, installazione compresa: la metà dei miei risparmi.

E adesso era rovinata.

C’era odore di ferro arrugginito nell’aria. Non era particolarmente forte o penetrante, ma mi aveva dato il voltastomaco. Non avevo mai saputo che il sangue avesse un odore.

Fissai il piatto di spaghetti che tenevo in grembo e non mi venne in mente nient’altro da fare se non mangiare.