36. Iris

«Sai che, se Rosita fosse ancora viva, sarebbe milionaria?»

Mia madre era in cucina e preparava un tortino di verdure. Aaron sedeva sul divano (protetto dalla trapunta, naturalmente) e guardava i pesci. Da Utrecht avevano detto che la morte di King Kong e Hannibal era dovuta a un organismo sconosciuto. Avrebbero mandato qualcuno a prelevare campioni di acqua e a osservare gli altri pesci. La loro morte sembrava piuttosto singolare.

Mia madre stava tagliando patate bollite a spicchi tutti uguali e li disponeva in una pirofila, alternando con strati di melanzane e pomodori. Era un piatto che preparava spesso. Assomigliava un po’ alla moussaka, anche se lei negava qualunque somiglianza.

«A quanto pare, la madre di Rosita aveva uno zio in Inghilterra che aveva fatto fortuna nell’allevamento dei polli e ha lasciato a Rosita due milioni di sterline».

«Che disdetta» disse contrariata. «Possiamo parlare di qualcos’altro, adesso?»

«No, perché?»

Sparse formaggio grattugiato sul piatto con scatti brevi e irritati.

«Non abbiamo ancora finito di parlarne» proseguii. «Ho appena accettato il caso, e stanno cominciando a emergere fatti strani. Vuoi sapere chi eredita i due milioni di sterline di Rosita? Hai tre possibilità».

Mia madre infilò la pirofila in forno e chiuse lo sportello di scatto. «Non sono dell’umore giusto per gli indovinelli e non ho nessuna voglia di fare questa conversazione».

«Il patrigno. In teoria avrebbe dovuto ereditare sua figlia Anna, ma è morta anche lei. L’altro erede, in ordine di priorità, sarebbe stata la madre di Rosita. Pure morta. Chi resta? Il patrigno. Lui e la madre erano legalmente sposati, quindi tutti i suoi beni vanno a lui. Tombola!»

«Sposatelo, allora».

«È più vicino alla tua età che alla mia, mamma. Sto solo cercando di dirti che qualcuno trae vantaggio dalla morte di Rosita e, pur ammettendo che sia molto improbabile che non sia stato Ray, penso che dovremmo indagare, glielo dobbiamo».

Mia madre passò in salotto. All’improvviso le era parso urgente riordinare i giocattoli di Aaron.

«Voglio soltanto capire cos’è accaduto. Perché ce l’hai con me?»

Mi lanciò un’occhiata esasperata e cominciò a gettare manciate di Lego nel contenitore.

Mi inginocchiai per aiutarla. «Cosa sai di Rosita?»

«Iris... ne ho abbastanza. Per favore, cambia argomento».

«Andiamo, aiutami. Ti prego. L’hai mai incontrata? Secondo la sua dirimpettaia, andavi spesso a trovare Ray».

«L’ho vista qualche volta».

«E?»

«Cosa vuoi che ti dica? Una puttanella furba, ecco cos’era. Sapeva esattamente come ottenere ciò che voleva, da Ray».

«Cosa, ad esempio?»

Mia madre si alzò con un sospiro infastidito. «Te l’ho appena detto, non sono dell’umore giusto per le tue domande. Se vuoi continuare a piagnucolare a proposito di Ray, non venire più qui». Aprì la credenza per prendere i piatti.

«Capisco che le mie domande ti turbino, ma puoi almeno spiegarmi perché non mi hai mai parlato di lui? E perché non vuoi più vederlo? Dopotutto, è ancora tuo figlio...»

Si voltò di scatto per tenermi testa: «Non ti devo nessuna spiegazione, Iris. Non hai idea di quello che ho dovuto subire con Ray. Non hai idea».

«Allora, dammi un’idea. Perché, credimi, continuerò a insistere finché non mi darai una risposta».

Altro sospirone.

«Cos’hai dovuto passare? Com’era Ray da piccolo?»

Si mise le mani sui fianchi: «Era un treno incapace di fermarsi, neppure se ce la mettevo tutta. Non riuscivo a controllarlo, era impossibile. Non faceva che rompere oggetti, fare la cacca in giro per casa, anche a otto anni, e poteva passare ore a sbattere la testa contro il muro». Enumerò quei comportamenti come se li avesse imparati a memoria.

«Dev’essere stato terribile per te, mamma». Lo pensavo davvero.

Proseguì con voce più pacata: «Non potevo mai prevedere cosa avrebbe scatenato una crisi. Cacciava un grido assordante e continuava a ripeterlo fin quasi a farmi impazzire. Era come vivere con un animale selvaggio. Ma era anche capace di essere molto dolce. Restava seduto a giocare con il Lego per ore, e adorava disegnare. Bei disegni di uccelli o astronavi, ricchi di dettagli; ma se gli dicevo che era ora di mettere via le matite, scoppiava una crisi».

Guardai Aaron, che stava ancora fissando l’acquario con occhi vuoti, lontani. Riuscivo a immaginarlo mentre attraversava lo spazio, ben oltre la Via Lattea, tra milioni di soli lontani e lune in orbita.

«E poi, tutti i problemi con gli altri bambini, le zuffe quotidiane, perché stuzzicare Ray funzionava sempre. Non puoi immaginare quanto fosse aggressivo. Non sto a dirti quante volte dovetti umiliarmi e scusarmi. “Devi essere più severa con lui” diceva il nonno. “Fatti rispettare. Sculaccialo, se rifiuta di ascoltare”. E i vicini: “Una madre sola che non sa tenere suo figlio”. Continuavo a punirlo, gridavo, imploravo, piangevo, lo ricattavo, lo ignoravo, gli davo sberle, lo picchiavo, lo picchiavo tanto, troppo... Era un incubo».

C’era qualcosa di fastidiosamente famigliare in quella storia. Anch’io mi sentivo spesso una fallita come madre, nonostante tutti i buoni consigli che ricevevo.

«Quando la situazione divenne insostenibile, lo mandai a Mason Home, un collegio per bambini difficili. Accadde...» deglutì a fatica «... dopo che Ray ebbe ucciso un cane».

Saperlo da mia madre era ben diverso che sentirlo dall’ispettore De Winter. Riuscivo a cogliere l’orrore, la vergogna e la frustrazione che si annidavano sotto quelle parole. Come mi sentirei se Aaron facesse una cosa del genere? mi domandai.

«Il cane dei vicini» proseguì. «Fu spaventoso. Il fatto che fosse capace di uccidere era già terribile in sé, ma ancora più preoccupante era la sua incapacità di capire che fosse sbagliato. Mi resi conto che Ray era un pericolo per la società e che non potevo più assumermene la responsabilità». Fece un sorriso tremulo: «Adesso lo sai».

Mia madre e io non avevamo spesso contatti fisici, ma in quel momento mi gettò le braccia al collo e restammo abbracciate a lungo, anche se con un leggero imbarazzo.

«Cosa fate?» chiese Aaron appollaiato sul divano.

Mia madre e io ci staccammo, come se fossimo state sorprese a compiere atti osceni.

«Tra un po’ ceniamo, tesoro» disse mia madre, avvicinandosi a lui e passandogli una mano tra i capelli. Era sempre fonte di stupore, per me, vedere con quanta facilità dimostrasse affetto ad Aaron, e quanto le costasse invece essere espansiva con me. «Come stanno i pesci?»

«Venus è strana» rispose Aaron.

Venus era una Gramma brasiliensis: fucsia davanti e giallo brillante dietro. Lei e il suo compagno, Peanut, stavano quasi sempre nella grotta, una struttura di plastica coperta di coralli e anemoni. Nonostante i colori vivaci, era un pesciolino di piccole dimensioni, facile da dimenticare.

Ora galleggiava in superficie, con la bocca spalancata. La stessa posizione in cui avevo trovato King Kong. Era ancora viva, ma chissà per quanto?

«Oddio, quei maledetti pesci» esclamò mia madre. «Cosa facciamo?»

«Versiamo antibiotici nell’acqua?»

Mia madre scosse il capo e andò alla credenza: «Mi faccio un appunto per chiamare Utrecht domani, altrimenti mi dimentico. Se non avessi la testa attaccata al corpo, mi dimenticherei anche quella. Ultimamente faccio molta fatica a concentrarmi».

«Ray sarebbe ben contento di occuparsene».

«Te l’immagini, un acquario così grande in una cella?» Mia madre posò la vistosa penna dorata.

«Forse tra non molto gli daranno il permesso».

«Hai proprio deciso di andare avanti con questa missione insensata?»

«Certo».

«Lo sai che è un caso disperato».

«La maggior parte dei casi che tratto sono disperati, mamma».

Udimmo un trillo dalla cucina: la non-moussaka era pronta.