41. Ray

«Dimmi: quando vivevi a casa, com’era la mamma?» esordì Iris Kastelein.

«Arrabbiata. Era quasi sempre arrabbiata» risposi.

Scoppiò a ridere, ma non capii perché. Mi stava prendendo in giro?

«Perché era arrabbiata?»

Mi strinsi nelle spalle: «Non sono capace».

«Cosa intendi?»

«Vuoi sempre parlare di emozioni. Non sono bravo con le emozioni. Non lo sapevi?»

Rise di nuovo. «Non ti volevo confondere. Vuoi che ti racconti qualcosa di me? Sono tua sorella, dopotutto».

Stavo per dire di no, ma ricordai lo psichiatra, a scuola: devi mostrare interesse per gli altri. Allora annuii.

«Mamma non si arrabbiava spesso con me. Direi che era indifferente, come se fossi un progetto non ancora completato. Per fortuna avevo mio padre». Tacque, corrugando la fronte. «Mio padre è morto dieci anni fa. Sai chi era tuo padre?»

Cominciavo a sentire caldo. Tanto caldo che non riuscivo quasi più a respirare. «Posso togliere il maglione?» chiesi a Mo.

«Perché?» volle sapere.

«Sto soffocando, qui dentro».

«Le dispiace?» chiese Mo a Iris Kastelein.

«No, affatto».

Mi sfilai il maglione e rimasi in maglietta bianca. Stavo meglio, ma avevo ancora caldo.

«Stavamo parlando di tuo padre» disse Iris Kastelein. «Sai chi è?»

Strinsi i denti e cominciai a digrignarli. Facevano un suono irritante.

«Mamma non ti ha mai parlato di lui?»

Perché mi facevano tutti domande alle quali non sapevo rispondere? Chi è tuo padre, tuo padre questo, tuo padre quello... Non ne avevo idea. Pensavano forse che non glielo avessi chiesto? Mi credevano idiota?

«Scusa» disse Iris Kastelein, «ora la smetto di tormentarti. Sai, avevo sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano. Ripensandoci ora, tutto questo spiega parecchie cose: ad esempio, ogni tanto la mamma diceva di andare a una fiera di giardinaggio, e non voleva mai che papà la accompagnasse. E poi c’era il suo studio segreto. Lo sapevi? Una stanza, in casa, dove mi era proibito entrare. Non cedette mai su quel punto».

Fissava qualche cosa al di sopra della mia spalla. Mi voltai e vidi che guardava Mo, seduto in un angolo. Mi chiesi come mai.

«Un’altra cosa» proseguì Iris Kastelein, «ho convinto il direttore a cercare di scoprire com’è arrivata la droga nella tua cella».

«Stanza» precisò Mo dal suo angolo. «La chiamiamo “stanza”».

«Ah, d’accordo». Anche Iris Kastelein sembrava avere caldo, del resto era arrivata in completo elegante e camicia bianca. «Signorina elegantina» diceva sempre Rosita. Non le piacevano quelle come Iris. Era abbastanza tollerante, anche con i vicini curiosi, ma non sopportava la gente che si vestiva bene. «Si credono migliori degli altri. Perché? Perché hanno più soldi in banca? Perché le perle che indossano sono vere? Non si vede neanche la differenza; bisogna morderle per saperlo. Che vadano al diavolo quelle!»

Mi chiesi se Iris Kastelein si credesse migliore degli altri.

«Comunque» proseguì «ho spiegato che non poteva essere tua la droga che ti hanno trovato in camera. Non ti droghi e non spacci. Non sei mai risultato positivo al test delle urine, e gli assistenti sociali non hanno mai osservato in te sintomi compatibili con l’uso di droghe. Giusto?»

«Sì».

«Appunto. Intendo richiedere un’indagine approfondita su quanto è accaduto». Incrociò le braccia e mi guardò con un’espressione buffa. Era come se la sua bocca volesse sorridere, ma gli occhi no. Quando la gente sorride, socchiude un po’ gli occhi; quelli di Iris Kastelein, invece, erano bene aperti.

«Cosa sei adesso?» chiesi.

«Cosa intendi?»

«Cosa sei adesso? Arrabbiata? Triste? Spaventata? Felice?»

«Determinata» rispose.

«Oh».

«Sai che ho parlato con Victor Asscher?»

«Il padre di Anna».

«Esatto. È ancora molto scosso dalla morte di Rosita e Anna».

«Avevano litigato. Due giorni prima che Rosita morisse. Se n’è andato di corsa nel cuore della notte e non è più tornato».

Iris si sporse sul tavolo con gli occhi socchiusi: «Perché avevano litigato, secondo te?»

«Lei aveva detto qualcosa a qualcuno. Gridavano. Era notte fonda, li sentii attraverso il muro».

Le mie parole parvero rendere Iris Kastelein molto felice. Si sporse ancora di più: «Sei sicuro?»

Annuii.

«E litigavano per quello?»

Annuii di nuovo.

«Interessante».

Questa volta non annuii.

«Avevo la sensazione che non tornassero i conti, in questa storia. Pensi che Rosita potrebbe avere minacciato Victor di rivelare a sua moglie la loro relazione?»

«Come faccio a saperlo?» Cominciai a scrutare il muro bianco in cerca di ragni. Forse potevo catturarne uno e portarlo nella mia cella, così avrei avuto un animale tutto mio.

Iris Kastelein si appoggiò allo schienale. «So che è difficile per te, ma dobbiamo parlare del giorno in cui morirono Rosita e Anna. Fosti tu a trovarle, vero?»

A un tratto ricominciai ad avere un gran caldo. Il sudore prese a colarmi lungo la schiena, anche se indossavo solo una maglietta. «Sì» risposi a fatica. «Sì».

«Cosa accadde?»

«Vidi la porta aperta ed entrai. Erano sdraiate lì».

«Ed erano già morte?»

Tutto quel sangue: lo vedevo ancora, nella mente. Cercai di scrollare il capo, ma non riuscii a liberarmi del sangue.

«Ray?» chiese Mo. «Hai sentito la domanda?»

«Sì» bisbigliai. «Erano già morte».

«Prima di entrare hai visto qualcos’altro? C’era nessuno in strada? Vicini? Altre persone di tua conoscenza? Sconosciuti?»

Provai a riflettere, ma, lì seduto davanti ad altre persone, era difficile ricordare cosa fosse accaduto il 17 maggio 2003. Di notte, nel buio della mia cella, era tutto molto più chiaro e reale.

«No» risposi, anche se non ero sicuro. «Non credo».

Iris Kastelein scrisse un appunto sul suo blocco. La conversazione stava cominciando a stancarmi. «Voglio tornare nella mia cella» dissi.

«Per favore, resta ancora un po’».

Volevo essere forte per rispondere a tutte le sue domande, ma l’impastatrice nella mia testa stava mischiando tutti i pensieri.

«Credo che sia ora, invece» disse Mo dal suo angolo. «Non vogliamo che Ray si stressi troppo».

«Va bene. Certo».

Mi alzai. «Ciao, Iris».

Mentre la guardia mi accompagnava fuori, la sentii dire a Mo: «È la prima volta che mi ha chiamata per nome».