42. Iris

«Iris! Yuhuuuu!»

Non conoscevo molte persone che oggigiorno gridassero: «Yuhu!» per salutare, quindi immaginai che fosse un’amica di mia madre. Era ora di pranzo ed ero appena corsa al supermercato per comprare gli ingredienti per una cena veloce e nutriente per me e Aaron: spaghetti alla bolognese. Li mangiavamo almeno due volte alla settimana.

Mi voltai e vidi Lina che, con un sacchetto di patate in mano, si sbracciava esageratamente, anche se si trovava soltanto a qualche metro di distanza.

«Che bello vederti, cara!»

«Ciao, Lina. Non sapevo che venissi qui a fare la spesa». Lina viveva vicino a mia madre, a Buitenveldert. Quel supermercato del centro non era nella sua zona.

«Sto andando a fare pittura a dita con i miei poveri bambini Down» disse facendomi l’occhiolino, anche se stentava a tenere aperto l’altro occhio.

«Ah sì?»

«Tua madre non te l’ha detto? Insegno a fare lavoretti manuali agli handicappati, tutti i mercoledì pomeriggio».

«Mia madre non mi dice niente, soprattutto non le cose importanti. Da quanto vi conoscete, voi due?»

Lina aggrottò le sopracciglia e guardò al soffitto del supermercato. «Probabilmente da trentacinque anni o giù di lì. Tua madre si era appena trasferita nel nostro quartiere. Conoscevo la sua vicina, che è morta diversi anni fa, ma non ti tedio con questi particolari da vecchi. Ricordo che era il compleanno di questa vicina, e facemmo conoscenza in quell’occasione. Agatha non conosceva quasi nessuno, allora, e io avevo smesso di lavorare perché mi ero appena sposata. Funzionava così, a quei tempi. Fu così che cominciammo a frequentarci. Dopo che tu e Carla ve ne andaste, creammo un circolo di bridge, ma quella è tutta un’altra storia.

«Frequentava già mio padre?»

La ruga sulla fronte di Lina si fece ancora più profonda, come se le avessi chiesto di calcolare a mente trecentotrentacinque per seimilaottocentonovantatré. «No, tuo padre non c’era ancora, quando incontrai Agatha. Lo conobbe sei mesi dopo essere venuta a stare dalle mie parti. Ricordo che mi disse, arrossendo: “Lina, lo sposo, quell’uomo. Si prenderà cura di me”».

Temo di avere assunto la stessa espressione corrucciata di Lina. «Allora, prima viveva in un’altra casa?»

«No!» esclamò Lina con gesto teatrale. «No, era già proprietaria della villetta. Era una cosa rara, di quei tempi, una donna con una casa propria e nessun marito all’orizzonte. Tutte noi la invidiavamo, in segreto».

Mi chiesi come avesse fatto mia madre a trovare i soldi per l’anticipo per una villetta a Buitenveldert. Ormai case come la sua costavano più di un milione. Sapevo che aveva frequentato una scuola per segretariato d’azienda, ma non mi aveva mai detto di avere lavorato. Avevo sempre dato per scontato che fosse stato mio padre a comprare la casa. Chissà, forse mia madre aveva uno zio ricco, nascosto da qualche parte, che le aveva lasciato una bella sommetta, proprio come Rosita. «Dove pensi che abbia trovato i soldi?»

Lina si strinse nelle spalle: «Doveva avere dei risparmi».

«Che risparmi?»

«Non chiederlo a me. Mi disse che prima aveva avuto un buon posto di lavoro».

Un buon lavoro mentre si occupava di un bambino piccolo? Mi sembrava improbabile. «Strano, però» commentai.

«Strano, certo, ma a volte va così. Più invecchi, meno capisci». Diede un’occhiata all’orologio. «Accidenti, hai visto che ore sono? Devo andare, tesoro. I miei piccoli amici mi stanno aspettando». Mi salutò con un gesto della mano e un gridolino vezzoso e si allontanò in fretta dal reparto frutta e verdura con il sacchetto di patate in mano.

Mentre gettavo nel cesto della spesa un mazzo di sedano, un vasetto di salsa di pomodoro, due etti di carne macinata biologica e un sacchetto di parmigiano grattugiato, mi chiesi se Lina sapesse dell’esistenza di Ray. Ne dubitavo fortemente.

Di ritorno in ufficio chiamai il catasto. Nel giro di un minuto ebbi la risposta: la casa era stata acquistata nel 1983 per centocinquantamila fiorini in contanti, senza ipoteca. Doveva essere stata una somma astronomica, allora.

«Ecco la mia ragazza preferita!» Non avevo sentito Rence entrare. Non era sua abitudine palesarsi nel mio studio così all’improvviso. Di solito, ero io a essere convocata nel suo.

Si sedette sul bordo della scrivania e accavallò le gambe. Portava un paio di calze rosse. «Come procedono le indagini sul caso Boelens?»

Risposi con un mormorio poco convinto.

«Avanti, racconta. Con chi hai parlato, cosa dicono i verbali, quali sono le tue prime impressioni?»

«Diciamo che tutti i resoconti collimano, più o meno. Tutti quelli con cui ho parlato dicono la stessa cosa: Ray Boelens è un individuo con problemi psichici; la sua vicina lo sfruttava, poi l’ha mollato e lui ha dato fuori di matto. Non ha mai confessato, ma ha rilasciato alcune dichiarazioni compromettenti. Non solo aveva un movente, ma si trovava anche sulla scena del delitto e ha ammesso, più o meno, di possedere l’arma. Niente di utile, insomma».

«Con chi hai parlato finora?»

«Vicini, amici e parenti della vittima…»

«E?»

«Be’, ecco, il patrigno è un tipo piuttosto losco. È stato dentro per ricettazione e spaccio. Con Rosita e Anna morte, diventa l’unico erede di una fortuna lasciata dallo zio della defunta moglie. Potrebbe essere un movente, se non fosse che è passato troppo tempo: chi commetterebbe un omicidio e sarebbe poi disposto ad aspettare anni prima che lo zio muoia di morte naturale? Se fosse così, sarebbe davvero lungimirante».

«Mmm».

«Poi c’è l’amante. Boelens udì Asscher e Rosita litigare poco prima degli omicidi. Asscher avrebbe gridato qualcosa come: “Non avresti dovuto dirglielo”. Forse Rosita aveva parlato alla moglie della loro relazione, movente plausibile, a prima vista. Solo che Asscher era in vacanza a Creta al momento dell’omicidio».

«Un sicario?»

Mi strinsi nelle spalle: «Possibile».

Lawrence prese la foto che ritraeva me e Aaron allo zoo e la guardò. «Cosa pensi? Credi che Ray Boelens sia innocente? C’è almeno qualche indizio in questo senso?»

«Oltre alle sue parole, intendi?»

Annuì e appoggiò la foto.

«Per essere sincera, no. A parte il fatto che Ray non fuma, e il colpevole ha spento una sigaretta sul cadavere della bambina, ma non è un argomento molto convincente».

«Non direi» convenne Rence. «Tu cosa ne pensi?»

«Non posso affermare di avere le idee molto chiare, finora».

Balzò in piedi e scrollò il capo con foga: «No! Non parlo di idee, parlo di intuito! Avanti, Iris, cosa ti dice il cuore, quando guardi Ray Boelens?»

«Mi sento confusa» confessai abbacchiata.

«Siamo arrivati a un punto tale per cui o mobilitiamo un gruppo di persone su questo caso o lasciamo perdere. Da quello che mi dici, propendo per la seconda possibilità».

Esitai. Se si fosse scoperto che Ray era mio fratello, e che avevo dedicato moltissimo tempo a quel caso, sarei finita in guai seri. D’altra parte non volevo piantarlo in asso. Non ora, dopo avere saputo che Asscher e Rosita avevano litigato subito prima della morte di lei. Avrei potuto sempre rinunciare più avanti. «Vorrei riprovarci con Asscher. Aveva un movente valido e, come hai appena detto, non doveva per forza commetterlo lui, il delitto. Avrebbe potuto ingaggiare qualcun altro».

«Vuoi che dia un’occhiata al fascicolo?»

«Sì, per favore».