50. Iris

Mia madre giocava a bridge ogni mercoledì dalle sette e mezzo alle dieci e mezzo al centro per la terza età, a un paio di isolati da casa. Il circolo di bridge aveva un nome eccellente, Materia grigia, che alludeva non solo al colore dei capelli dei giocatori, ma anche al fatto che il gioco doveva mantenere giovani le cellule cerebrali. Mia madre si tingeva ancora i capelli. Aveva sempre detto che sarebbe rimasta bionda fino al giorno della sua morte. Avevo perfino dovuto promettere che le avrei ritoccato le radici prima di esporre il suo corpo nella camera ardente.

A casa sua c’era una luce accesa nell’ingresso e una lucina più piccola in salotto. Se vuoi far sapere che non c’è nessuno a casa, lascia accesa una lampada sola: sarà come un faro che guida le navi in porto. Avevo cercato di spiegarglielo, ma secondo mia madre i ladri non avrebbero osato introdursi in casa, se avessero visto una luce, anche se solo una abat-jour in un angolo della stanza.

Avevo lasciato Aaron con Binnie, seppure con qualche apprensione. L’ultima volta che gli aveva fatto da baby-sitter gli avevo trovato gomma da masticare nei capelli, il giorno dopo. Ma aveva giurato solennemente di non dargli chewing gum, stavolta, e, siccome mia madre non era la persona giusta cui rivolgersi, dal momento che volevo introdurmi proprio in casa sua, avevo deciso di correre il rischio. Binnie si era dichiarata entusiasta.

Avevo già messo a letto Aaron e gli avevo cantato mille ninnananne, finché le palpebre non gli si erano chiuse. Speravo che non si svegliasse. Binnie era un’ottima amica, ma i bambini non erano il suo forte.

Infilai la chiave nella toppa e mi guardai alle spalle. Un uomo passò davanti a casa con il cane al guinzaglio, ma non fece caso a me. Girai la chiave ed entrai.

Ero nervosa. Anche se era improbabile che mia madre tornasse a casa prima dalla partita di bridge, era pur sempre possibile. Trovarmi qui non le avrebbe fatto piacere.

Siccome rifiutava di parlarmi di Ray o di suo padre, avevo deciso di svolgere qualche indagine. L’ultima volta che ero andata a caccia di indizi mi ero concentrata su Ray. Questa volta volevo provare a vedere se riuscivo a trovare qualcosa su suo padre.

Attraversai in punta di piedi il salotto – non che qualcuno potesse sentirmi, naturalmente – e illuminai con la torcia la scrivania.

L’acquario era inquietante al buio. Gettava un alone blu-verdastro su tutta la stanza, sembrava di trovarsi in una grotta sotterranea. I pesci nuotavano tranquilli, ignari di tutto.

Aprii i cassetti e ne esaminai il contenuto: estratti conto della banca, garanzie, bollette del gas, dell’acqua, dell’elettricità, una scatola di elastici e graffette, una ricetta per lo Xanax, uno stradario di Amstelveen, biglietti dell’autobus e una cartolina spedita due anni prima dalla Spagna da uno degli ex colleghi di mio padre. Sfogliai l’agendina degli indirizzi: conteneva tanti di quei nomi di sconosciuti che non ne ricavai nulla.

La stilografica d’oro posata sulla scrivania attirò la mia attenzione. Avevo visto spesso mia madre usarla, ma a un tratto ne notai la somiglianza con quella di Peter van Benschop. La girai tra le dita finché la torcia non illuminò la scritta: “Trasporti marittimi Van Benschop”.

Dove l’aveva presa? Una stilografica del genere era troppo costosa per essere distribuita come gadget gratuito. Qualcuno doveva avergliela regalata. Presi di nuovo in mano il libriccino degli indirizzi e cercai meglio. Come si chiamava l’anziano signore che avevo incontrato nel parcheggio di Victor Asscher? Lo trovai sotto la a: Antoine, senza cognome.

«Aha!» Quanti Antoine potevano mai esserci? Estrassi il cellulare e composi il numero.

«Trasporti marittimi Van Benschop. I nostri uffici sono aperti dalle…»

Mia madre conosceva Antoine van Benschop. La famiglia Van Benschop era uno dei clienti più importanti di Bartels & Peters da parecchio tempo. Mia madre aveva forse chiesto ad Antoine van Benschop di convincere Bartels & Peters ad assumermi? Il lavoro perfetto: un part time, dietro casa. Con il senno di poi, quella proposta era stata perfino troppo bella per essere vera. Se, infatti, prima di Aaron non era raro che i cacciatori di teste si facessero vivi con offerte da parte di studi legali, una volta rimasta incinta, le proposte erano cessate.

Mia madre mi aveva esortata a cercarmi un altro lavoro. Avevo mosso i miei contatti, poco convinta, ma sembrava che nessuno studio legale sulla faccia della Terra volesse una madre sola in cerca di un lavoro part time. Subito prima del congedo di maternità, però, Lawrence aveva chiamato e, guarda caso, cercava proprio un avvocato part time. Ero troppo felice e sollevata per essere sorpresa. Le mie colleghe erano invidiose: «Lavorerai part time in uno studio legale? Sul serio? Incredibile».

Più ci pensavo, più mi convincevo: non poteva essere una coincidenza che mi fosse stato proposto quel lavoro. Martha aveva fatto qualche allusione, Rence conosceva per vie traverse mia madre, e Van Benschop si era comportato come un cane preso in trappola, quando aveva saputo il mio nome. Ora la questione era: come faceva mia madre a conoscere Antoine Benschop, e come mai poteva permettersi di chiedergli favori?

Le due ore trascorse da Aaron con Binnie erano passate senza incidenti. Si era svegliato una sola volta, e lei gli aveva dato il succo di frutta. Ne fui felice.

«Posso soltanto tirare a indovinare» dissi a Binnie, una volta terminato il resoconto della mia perlustrazione. «La domanda è: come mai mia madre lo conosce? Comincio a pensare che…»

«… che Antoine van Benschop sia il padre di Ray».

«Stento a crederci, ma pare proprio di sì. Cosa sai di questo Antoine? Non hai fatto qualche ricerca sul “tuo futuro marito”?»

Binnie si portò le mani alle tempie – diceva che l’aiutava a riflettere – e chiuse gli occhi. «Antoine van Benschop…» ripeté diverse volte. «Il cognome originale, tanto per cominciare, non era Van Benschop».

«Cosa?»

«Inizialmente aveva un altro cognome, qualcosa come Blumenveld, Parrotpiss, ma non importa. Il nome lo prese dalla moglie, quando si sposò».

«Ah! Doveva avere una buona ragione, per farlo».

«Cosa credi? Il vecchio Van Benschop, il padre di Barbara e Lillian, insisté perché i generi adottassero il cognome della famiglia, se volevano rilevare l’attività commerciale».

«Capisco…»

«Adesso mi torna in mente» dichiarò Binnie, togliendosi le mani dalle tempie, «ricordo che Antoine lavorava da Van Benschop e fu praticamente spinto nella braccia di Barbara dal patriarca».

«Vero amore».

«Vero amore» convenne Binnie.

«Chi rifiuterebbe mai l’azienda Van Benschop come dote?»

«Io no di certo».

«Mia madre faceva la segretaria. Forse lavorava lì. Forse è lì che conobbe Antoine van Benschop».

«Che cosa intendi fare, adesso? Affrontare tua madre? Chiamare Antoine?»

«Entrambe le cose, forse».

«È assurdo, te ne rendi conto?» disse Binnie. «Se Antoine è il padre di Ray, allora Ray è fratellastro di Pissing Peter».

Mi presi la testa tra le mani e gemetti.

«Non preoccuparti, se non altro non siete parenti di sangue» aggiunse nell’intento di rassicurarmi.

Alle nove e mezzo del mattino seguente chiamai, ma mi rispose una segretaria: «Il signor Van Benschop viene soltanto il martedì e il mercoledì. Temo che dovrà richiamare la settimana prossima».

«Devo parlargli, è urgente» spiegai. «Forse gli può far sapere che Iris Kastelein di Bartels & Peters gli dovrebbe parlare di una faccenda della massima importanza».

«Gli ho preparato un appunto, ma non posso prometterle niente. Il signor Van Benschop fa come crede».

«Non ho dubbi su questo».

Antoine van Benschop mi richiamò quello stesso giorno. La conversazione fu breve. Prima ancora che avessi modo di spiegargli cosa volessi da lui, mi avvertì: «Ne resti fuori».

«Cosa intende?»

«Sa benissimo cosa intendo. Se ha un briciolo di buon senso, lasci perdere».

«Bene! A giudicare dalla veemenza della sua reazione, sono sempre più propensa a pensare che lei sia davvero il padre di Ray Boelens».

«Non c’è proprio nulla da concludere» sbottò, e riattaccò.