Sedevo davanti al mio acquario e osservavo i pesci. Guardavo Venus e Peanut che ogni tanto mettevano fuori il capino dalla loro grotta, per tornare subito a rifugiarsi all’interno. Seguivo Margie che nuotava in cerchio senza stancarsi. O François che era tanto cresciuto dall’ultima volta che lo avevo visto, quasi nove anni prima. È una fortuna che i pesci vivano a lungo. Avremmo avuto ancora molti anni da passare insieme.
«Vi abituerete. All’inizio è difficile, ma vedrete che presto vi piacerà, qui».
L’assistente sociale dell’unità di Autismo mi aveva detto che potevo stare in camera tutto il giorno, se volevo. Non sarebbero venuti a portarmi via, come avevano fatto l’ultima volta che avevo visto i miei pesci. Ricordavo che, mentre mi spingevano nell’abitacolo della macchina della polizia, continuavo a chiamarli per nome.
Era successo subito dopo che avevo trovato Rosita e Anna. Cercai di non ripensare a ciò che avevo visto, quando, aperta la porta, le avevo trovate per terra nell’ingresso. Così immobili. Così morte.
«Ehi, Anna. Ciao, Rosita» avevo sussurrato. «Eravamo quasi una famiglia, vero?» Ma Rosita non mi rispose, naturalmente. Restò là ferma, gli occhi fissi al soffitto. Aveva trovato il modo per rompere con me una volta per tutte. Mi ero sentito molto triste.
L’avevo toccata. L’avevo sfiorata sull’incavo tra le clavicole, la fossa sopraclavicolare, il punto più bello del mondo. Aveva la pelle ancora tiepida. Non so quanto fossi rimasto lì seduto. So, però, che a un certo punto l’odore del sangue penetrato nelle narici mi aveva fatto venire il vomito.
Ero corso a casa mia. Appena entrato, avevo notato un sacco della spazzatura, che io non l’avevo lasciato, e sentito l’acqua scorrere.
«Ray!» Mia madre si stava lavando. Era rimasta sconvolta nel vedermi lì, e io nel vedere lei. Aveva lasciato cadere qualcosa nel lavandino e si era asciugata le mani con un canovaccio. «Cosa ci fai qui?»
L’avevo guardata negli occhi, avrei voluto dire qualcosa, ma non mi venivano le parole.
«Perché non sei al lavoro?»
«Non ce la facevo più» avevo risposto.
Aveva guardato ai miei piedi ed era impallidita. «C’è sangue dappertutto sul pavimento!» Si era precipitata nell’ingresso e aveva aperto la porta di casa. «Mio Dio, hai lasciato impronte da casa loro fino a qui! Oh, mio Dio!» Di ritorno in cucina, aveva avvolto in un foglio di carta da giornale quel che aveva lasciato cadere nel lavandino, qualsiasi cosa fosse.
«Perché non sei rimasto al lavoro? Oggi avresti dovuto rimanere lì. Maledizione, Ray!» Aveva le lacrime agli occhi. Afferrato il fagotto di carta da giornale, l’aveva portato nell’ingresso, dove la seguii per vedere che lo gettava in un sacco della spazzatura.
«Non posso restare. Mi dispiace…» A mia madre non capitava mai di non sapere cosa dire. «Non saresti dovuto venire». Scosse il capo: «Adesso non ti posso aiutare. Perdonami, ma dovrai cavartela da solo». Aveva afferrato il sacco dell’immondizia e attraversato il salotto per andare alla porta sul retro. «Devo andare. Mi dispiace. Non volevo che finisse così».
Subito prima di uscire si era voltata e mi aveva afferrato per le spalle: «Non puoi dire a nessuno di avermi visto qui, oggi. Capito, Ray? Qualunque cosa ti chiedano». Mi aveva stretto il braccio tanto da farmi male; era molto forte, mia madre. «Guardami, Ray. Concentrati. Verranno a prenderti. Vorrei che non lo facessero, ma la colpa è soltanto tua. Non saresti mai dovuto tornare a casa stamattina. Ma se dirai loro di avermi vista qui, non potrò occuparmi dei tuoi pesci, e chissà cosa succederà loro. Capisci? Non mi hai vista qui. Non dire neanche il mio nome. Ci riuscirai?»
Dopo che se ne fu andata, ero tornato davanti all’acquario e avevo recitato i nomi dei pesci finché non ero riuscito a calmarmi. Poi erano venuti a portarmi via, proprio come aveva detto mia madre.
Adesso, che avevo i miei pesci con me nella cella, non c’era più bisogno di ripetere i loro nomi. Mi sentivo in pace. Non poteva più accadermi nulla di male. Ero al sicuro, finalmente.
Chiusi gli occhi e ascoltai il ronzio della pompa. A casa l’acquario era al piano inferiore, non lo sentivo quando ero a letto. Ero contento, ora, di averlo a cinque passi dal letto, così io e i miei pesci ci vedevamo sempre. Amavo il rumore che faceva. Amavo anche quella fioca luce metallica. Luce diurna, mi aveva detto una volta Van de Akker. Le lampadine dell’acquario imitano la luce di un giorno di sole filtrata dall’acqua, quattro metri circa sotto la superficie dell’oceano. Mi piaceva molto più della luce naturale, tanto che decisi di non aprire più le tende.