10.

 

La questione stava sfuggendo di mano.

Castello aveva afferrato il telefono e chiamato il procuratore, il quale aveva deciso di istruire immediatamente un’indagine preliminare. Eppure la simultaneità della scomparsa di Ingrid Raven e José Lopez avrebbe potuto rassicurarli, rinforzando l’ipotesi di una fuga d’amore. Invece il magistrato aveva preferito coprirsi le spalle, in quel caso che coinvolgeva una cittadina straniera. Aveva chiesto anche che fosse effettuata una perquisizione a casa del tassista.

Sebag e Molina erano passati a prendere Sylvie Lopez a casa dei suoi genitori. La donna aveva preferito portare la figlioletta con sé. La teneva tra le braccia e sopportava con pazienza le sue urla. La presenza della bambina le permetteva di non pensare, offriva una distrazione alla sua angoscia. Perché adesso aveva paura per il marito. Paura che gli fosse successo qualcosa di grave. E paura che avesse fatto qualche cazzata. Non sapeva quale delle due ipotesi temere di più.

Gilles Sebag ripensò al suo breve minuto di gloria. Il sorriso fiero del capo e quello sorpreso di Lefèvre. Anche le smorfie di alcuni colleghi. Magnanimo nel suo momento di trionfo, Sebag aveva lasciato che Molina esponesse a grandi linee il caso che li teneva impegnati da vari giorni. Jacques se l’era cavata a meraviglia, dando grande risalto ai loro insignificanti progressi e insistendo particolarmente sugli elementi che avevano suscitato dei dubbi. Persino Sebag aveva finito per credere alla loro perspicacia.

I Lopez abitavano in zona Moulin à Vent, un quartiere costruito negli anni Sessanta sulle colline di Perpignan. Gli edifici erano un po’ vecchiotti, ma nell’insieme facevano ancora bella figura. Palme vigorose e agili pini prosperavano su prati ben tenuti. Le logge con balaustre di legno rallegravano le facciate dei caseggiati, mentre le composizioni di mattoni a giorno nascondevano lo squallore di ripostigli ingombri. Infine, i tetti di tegole rosse conferivano a quegli immobili squadrati una poetica aria da villaggio. Il quartiere inizialmente aveva accolto centinaia di pied-noir di ritorno dall’Algeria col cuore pesante e le mani vuote. Poi, con la rinascita della locale università verso la fine degli anni Settanta, aveva cominciato a ospitare una tranquilla e simpatica fauna studentesca.

«Abbiamo traslocato quando José ha iniziato col taxi» raccontò la donna. «Prima abitavamo in una casa popolare a Bas Vernet. Era più economica, però José aveva troppa paura per la macchina. Sapete, i giovani oggi non hanno più rispetto di nulla. E José dormiva tutte le notti nel taxi. Non potevamo vivere così».

L’ascensore li portò fino al terzo piano. Jacques propose di prendere lui in braccio la bimba per permettere a Sylvie di riposarsi un po’. Tese le braccia, ma la piccola si mise a piangere all’istante. La donna declinò l’offerta educatamente.

«Jenny è un po’ timida. Non si sente a suo agio con le facce nuove».

Davanti alla porta dell’appartamento la mamma, con le braccia occupate, lasciò la borsa all’ispettore.

«C’è un mazzo di chiavi con un grosso portachiavi rosso sangue e oro, i colori dell’usap» disse indicandolo a Jacques.

Preso improvvisamente da una timidezza quasi da ragazzino, Molina cercò la chiave con la punta delle dita osando appena spostare i diversi oggetti. Aveva sete, e due grosse gocce di sudore gli comparvero sulla fronte aggrottata per lo sforzo. Sebag pensò con stupore che alcuni uomini si vergognavano di più a frugare nella borsa di una donna piuttosto che nelle sue mutandine. Dopo qualche secondo di uno sforzo sovrumano, l’ispettore brandì il mazzo di chiavi con la stessa fierezza di un giocatore del Perpignan che avesse sollevato il trofeo della finale del campionato di rugby allo Stade de France. Adoperò immediatamente le chiavi, e la porta si aprì su un appartamento immerso nella frescura e nell’oscurità.

Sylvie Lopez aprì le imposte di ogni stanza. Una cucina, un soggiorno, due camere e un bagno. Molina annuì con aria soddisfatta: la perquisizione non sarebbe durata a lungo.

La padrona di casa propose qualcosa da bere. Jacques optò per una birra, Gilles per un semplice bicchiere d’acqua. Stupita da tanta frugalità, la donna insisté almeno per insaporire l’acqua con uno sciroppo alla frutta o un po’ d’anice. Lui non cambiò idea, ma riuscì ad accontentarla chiedendole un po’ di ghiaccio. Fuori, il sole era già alto e la tramontana era calata. Avrebbe fatto caldo.

La donna mise la figlia su un tappetino da gioco nel soggiorno e se ne andò in cucina.

«C’è un posto in particolare in cui suo marito conserva le cose personali?» le chiese Sebag dal soggiorno.

«I vestiti sono nell’armadio in camera».

Gilles attese che tornasse con le bibite per precisare quello che intendeva.

«Per cose personali intendo dire documenti, carte, fascicoli...».

La domanda suonò strana alla donna. Il marito non era un amante delle scartoffie. Alla fine indicò il pc che troneggiava su una scrivania in un angolo del soggiorno. Proprio accanto al tappetino da gioco.

«José passa parecchio tempo al computer, ma più che altro per giocare con dei cd-rom o per navigare su Internet. Non credo che lì tenga molte cose personali».

«E la contabilità del taxi?».

«Sì, è tutto sul computer, ma sono io a occuparmene. José si innervosisce in fretta quando si tratta di conti».

Sylvie Lopez lasciò cadere due cubetti di ghiaccio in un bicchiere d’acqua che poi tese a Sebag.

«Vuole anche lei un bicchiere?» chiese a Jacques.

«No, non si preoccupi. Preferisco bere dalla bottiglia».

«Anche José» replicò lei con una punta di fierezza.

Finito di bere, si divisero i compiti. Sebag si incaricò del soggiorno, Jacques delle camere. Sylvie Lopez esitò un istante prima di decidersi a seguire Molina.

Gilles fece un sorriso alla piccola Jennifer pur mantenendosene prudentemente a distanza.

«Tu da dove cominceresti?».

La bimba fece partire un ruttino niente male.

«Ah sì? Dici?».

Il mobilio era modesto e disparato. Sebag decise di esaminare innanzitutto una strana pila di cassette di legno grigio che volevano fare da libreria. Il mobile non era alto e i libri poco numerosi. Qualche best seller recente, un vecchio vincitore del Goncourt e un’opera lussuosa che raccoglieva foto aeree del Roussillon. In basso c’erano tre album di fotografie che ignorò. La soluzione del caso, lo sentiva, non era nella vita familiare dei Lopez.

Spostò il vincitore del Goncourt, sollevò una candela colorata e passò un dito sul legno della mensola. Nessuna traccia di polvere. Sfogliò i libri uno dopo l’altro, li scosse. Dal Codice da Vinci cadde un pezzetto di carta. Lo raccolse con cura. Si trattava di un foglietto strappato da un quaderno a quadretti. Sopra c’era un numero di telefono. Un cellulare. Nient’altro.

Si mise a guardare la rubrica di famiglia appoggiata sulla scrivania. Cognomi, talvolta solo dei nomi, o anche nomignoli – un Jeff, un o una Fred, una Lulu –, ma nessuna sigla strana, né abbreviazioni o iniziali. Niente di oscuro né di sospetto. Tuttavia Sebag non trovò traccia del misterioso numero di telefono. Estrasse una bustina di plastica dalla tasca dei pantaloni e vi depose con cura il foglietto.

«Guarda bene cosa faccio, eh, Jenny, ho bisogno di un testimone. È la legge!».

Si avvicinò a un mobile in formica che ospitava il televisore. Sotto il ripiano un lettore dvd, poi più in basso due cassetti che contenevano dei film: serie americane, la collezione completa di Star Wars, commedie francesi, due o tre film sentimentali. Quindi spulciò la collezione di dischi della coppia. I cantanti che imperavano in tv convivevano senza problemi con i maggiori successi inglesi. Sebag notò l’impressionante collezione di cd di Barry White. Ne prese uno a caso e lo mise nel lettore. Regolò il volume al minimo. Il cantante americano gli sussurrò all’orecchio parole dolcissime.

Passò un dito sullo schermo del televisore. Anche qui, niente polvere. I suoi sospetti vennero confermati. Sylvie Lopez era una perfetta donna di casa. Quasi maniacale, forse.

Sebag si chinò sulla scrivania. Inciampò nel tappetino. La piccola Jenny lo seguiva con lo sguardo. Emanava un odore acre.

«Oh, che profumino...» disse Sebag tappandosi il naso.

Spinse l’interruttore del pc. Era un modello recente, a schermo piatto. La pagina iniziale rivelò la presenza di due profili utente. Uno a nome Lopez, l’altro col nome José. Sebag cliccò su Lopez. La foto di un neonato apparve come sfondo. Si trattava senza dubbio alcuno di Jennifer Lopez – toh, lo stesso nome dell’attrice, realizzò solo in quel momento – appena qualche minuto dopo la sua nascita. Un berretto di lana le proteggeva la testa e la fronte, ma non era riuscito a nascondere la voglia che ornava una delle palpebre.

Sebag si immerse negli occhi neri della neonata.

Anche Séverine aveva gli occhi neri quand’era nata. La pelle era rossa e rugosa, i capelli già ispidi e scuri. Un’adorabile bambolina inca. La rivedeva ancora subito dopo il parto, tutta congestionata sulla pancia bianca e rotonda della madre. Erano passati tredici anni.

Un soffio, un istante.

Lo schermo del computer si spense. Aveva approfittato delle fantasticherie dell’ispettore per mettersi in stand by. Sebag toccò un tasto a caso. Lo schermo si riscosse e acconsentì a riaccendersi. Sebag passò in rassegna le icone. I soliti programmi forniti di serie con il computer. Un collegamento portava alla contabilità del taxi. Non aveva tempo da perderci, adesso.

Uscì dalla sessione familiare e fece per avventurarsi in quella privata del marito. Impossibile. C’era un blocco. Chiamò in aiuto Sylvie Lopez. La donna comparve nel giro di tre secondi. Sorrise riconoscendo la musica.

«Anche a lei piace Barry White?» chiese.

«Sì. Be’, insomma... così così» rispose lui educatamente. «Non lo conosco bene. Spesso ho sentito le sue canzoni alla radio, come tutti».

«José è un suo fan. Sfegatato. Certi dischi a volte li ascolta a ripetizione. Mi fa strano... sentire questa musica quando lui non c’è».

Per camuffare il disagio si chinò sulla figlia, l’annusò e la prese in braccio.

«Le dà disturbo?».

«Assolutamente no. Abbiamo chiacchierato. È una bimba deliziosa».

Sylvie Lopez gli rivolse il suo più radioso sorriso da mamma.

«L’ho chiamata perché ci vuole una password per accedere al profilo utente di suo marito. La conosce?».

«Una che?».

«Una password».

La donna sembrava continuare a non capire. Lui spiegò.

«L’accesso al pc è libero, ma il profilo utente di suo marito è protetto. Si può accedere solo con un codice, una password che lui ha impostato».

Indicò il cursore che lampeggiava.

«Vede? Lì bisogna scrivere una parola segreta, un nome, un cognome, qualsiasi cosa. E poi si apre tutto, semplicemente».

Sylvie Lopez si chinò verso lo schermo malgrado il peso che aveva tra le braccia. A Gilles dispiacque per la sua schiena. Aveva sempre ammirato la capacità tutta femminile di tenere in braccio per ore un bambino continuando a occuparsi di altre faccende come se niente fosse.

«Non ha mai usato il pc con il profilo di suo marito?».

Lei era perplessa. Sempre china sul computer, teneva il sedere di sua figlia vicino al naso dell’ispettore.

«Credo che ci sia un piccolo problema» osò dire.

Sylvie si raddrizzò.

«Mi spiace. Uso il computer solo per i conti del taxi, e non mi serve nessuna password».

Lui sospirò.

«Non fa niente, grazie lo stesso. Può tornare dal mio collega».

Dopo una breve esitazione aggiunse, indicando il pannolino:

«Il piccolo problema riguarda, ehm... un grande bisognino».

Gli occhi della donna sorrisero. Erano dello stesso nero profondo di quelli di Jennifer.

«Oh, sì. Mi scusi. Vado a cambiarla».

Sebag restò solo. Era così che preferiva lavorare, anche se non era per niente legale. Aprì i cassetti della scrivania. I fascicoli erano ben etichettati. Tasse. Gas. Elettricità. Salute. Come a casa sua. Come a casa di chiunque, immaginava. Sorvolò tutto rapidamente. Non ci fu nulla che lo colpì.

Andò a sedersi sul divano di fronte alla tv. Era morbido. Troppo morbido, come sempre. Era incredibile il numero di divani scomodi che si riuscivano a inventare. Sebag preferiva le poltrone, ma per osservare tutta la stanza la posizione migliore era dal divano. Sgombrò la mente, sforzandosi di non prestare più attenzione ai dettagli. Voleva sentire l’anima di quell’appartamento.

La luce del sole faceva splendere il bianco puro delle pareti del soggiorno. Sebag accarezzò l’intonaco con la punta delle dita. Era ruvido. Una semplice mano di base. Soltanto una riproduzione di un quadro, appeso a destra della tv, animava la stanza con una macchia di colori vivaci.

Nonostante il calore che progressivamente stava riempendo la stanza, Sebag rabbrividì. Qualcosa non quadrava. Il mobilio disparato, l’arredamento incompleto, la totale assenza di disordine. Quelli erano gli elementi oggettivi, e d’altronde si potevano ritrovare in molte altre case. Ma quello che lui percepiva al di là di tutto era come... un’assenza di vita. Ecco! Ecco cosa lo colpiva profondamente. Non c’era vita a casa dei Lopez.

«Ho ispezionato le camere e il bagno» lo interruppe Molina. «Non ho notato nulla di particolare».

L’irruzione di Jacques l’aveva fatto sussultare. Sollevò lentamente gli occhi verso di lui. Sylvie Lopez entrò a sua volta. Sempre con la piccola Jennifer tra le braccia. Profumava di latte detergente.

«In realtà non abitate spesso qui, vero?».

La donna sembrò come colpita da un pugno a quella strana domanda. Respirò più veloce, incurvò un po’ la schiena. Sebag aveva voluto essere diretto, non brutale, ma aveva toccato un punto sensibile. Sylvie Lopez si passò la figlia da un fianco all’altro e rispose guardando il pavimento in linoleum.

«Sa, lavoriamo molto, e soprattutto rientriamo tardi. Perciò sì, quando certe sere passo dai miei a riprendere Jenny e la vedo dormire tranquilla, non ho il coraggio di disturbarla. A volte mi corico accanto a lei, e altre vado a dormire in quella che era la mia camera quando ancora abitavo con i miei. Così, se la bambina si sveglia piangendo, se ne occupa mia madre e io posso recuperare un po’».

La piccola Jennifer si agitava. La madre la tirò un po’ più su, sul fianco.

«La prima sera che suo marito è scomparso lei in realtà non era a casa, vero?».

«No» ammise in un soffio. «Ero dai miei».

Rimasto fino a quel momento in silenzio, Jacques intervenne.

«Allora potrebbe anche essere rientrato a sua insaputa?».

La donna si girò verso Molina. Sollevò gli occhi dal pavimento. Erano più neri che mai. Il colore della notte.

«No, non è rientrato. Di questo sono sicura».

«Come può esserne sicura se lei non c’era...» insisté Jacques con una dolcezza che Sebag non gli conosceva. José Lopez sarebbe potuto passare per casa almeno un attimo. Quella stessa notte, oppure un’altra. O in qualsiasi momento della giornata.

Lo sguardo della giovane madre passò dall’uno all’altro. Non sapeva come spiegarsi. Allora assunse un’aria ostinata.

«Me ne sarei accorta, se fosse rientrato».

Sebag le andò in aiuto. Sapeva che lo spirito d’osservazione del poliziotto più esperto era comunque inferiore all’occhio affilato e inquisitorio di una casalinga.

«Pensa che avrebbe lasciato inevitabilmente traccia del suo passaggio, vero? L’impronta di una scarpa nell’ingresso, una macchia di caffè sul tavolo della cucina, un bicchiere sporco nel lavello. O semplicemente un oggetto spostato e poi non rimesso al suo posto».

Gli occhi scuri della donna si posarono sull’ispettore e si schiarirono per un istante. Infilando la mano in tasca Sebag sentì la busta di plastica. La tirò fuori e mostrò a Sylvie Lopez il foglietto che vi aveva riposto.

«Questo numero di telefono le dice qualcosa?».

La donna lo fissò con attenzione. Le sopracciglia, unendosi, le scavavano dei solchi sulla fronte. Poi, all’improvviso, i suoi tratti si rilassarono.

«Dove l’ha trovato?».

A Sebag non piaceva quando un testimone gli rispondeva con un’altra domanda, ma decise di non adombrarsi.

«In un libro, nella libreria».

«È il numero di telefono di un’amica appena tornata in Francia dopo un periodo in Nuova Caledonia. Suo marito è un militare. L’ho scritto l’altra sera quando mi ha chiamata, e non riuscivo a ritrovarlo».

Sollevò il braccio per prendere la bustina, ma all’ultimo momento si fermò.

«Posso prenderlo o è importante per le indagini?».

Sebag evitò lo sguardo di Molina. Intuiva il sussultare delle ampie spalle, il collega lo prendeva gentilmente per i fondelli. Tirò fuori il foglietto dalla busta e lo diede a Sylvie Lopez. Gli venne un’altra idea.

«Avete un garage?».

«Sì, certo. È anche per questo che ci siamo trasferiti qui».

Molina reagì in fretta.

«Può mostrarmi il garage, signora Lopez? Il mio collega ha sicuramente altro da fare qui».

La donna ci pensò su un istante. Sebag seguì il suo sguardo dalla piccola Jennifer al tappetino da gioco.

«Ci metteremo molto?».

«Dipende» rispose elusivamente Molina. «Ci sono molte cose in garage?».

«No. Degli attrezzi, qualche scatolone».

«Un quarto d’ora scarso dovrebbe bastare, allora».

«Un quarto d’ora? Allora andiamoci subito».

Si sistemò meglio la figlia sul fianco e accompagnò Molina.

Sebag si ritrovò solo, libero di curiosare nell’appartamento. Le pareti della camera di Jennifer erano le uniche a essere rivestite con carta da parati. Angioletti su sfondo azzurro. Una grande foto era appesa sopra la culla: papà, mamma e la piccola Jenny. Il solo legame fra i tre membri della famiglia.

La coppia Lopez zoppicava, era chiaro, ma si erano mai potuti definire una coppia? Di gente come i Lopez, Sebag ne aveva conosciuta parecchia nel suo lavoro. Addirittura troppa. Un uomo e una donna si incontrano una sera, escono insieme. Lui avrebbe potuto scegliere un’altra, lei sarebbe potuta capitare peggio, e scambiano questo evento fortuito per amore. Un giorno fanno un bambino. Perché quando un uomo e una donna stanno insieme da anni, fanno un bambino. Per forza. Perché in fondo è più facile che scegliere di non farlo. La prospettiva del futuro mantiene intatta l’illusione.

José e Sylvie Lopez di certo si incrociavano, di tanto in tanto. A tavola, davanti alla tv, chini sulla culla o semplicemente sul pianerottolo, magari. Non erano felici insieme, ma nemmeno infelici.

La musica terminò e il silenzio si rimpossessò della stanza. Sebag si alzò, mise a posto il disco e si sedette di nuovo.

Chi era veramente José Lopez e che ruolo giocava in quella faccenda? L’innamorato in fuga? Non ci credeva più. Quell’ipotesi non quadrava né con il taxi abbandonato né col profilo della giovane Ingrid. Sarebbe potuta fuggire in capo al mondo col suo tassista, viverci d’amore e d’accordo e continuare a telefonare tutte le sere a mamma e papà. Bisognava prendere in considerazione ipotesi peggiori. Lopez era una vittima o un assassino? I suoi precedenti, tra cui quello per violenza, indicavano che non era un agnellino, ma di lì a farne automaticamente un assassino... Chi fa trenta non fa automaticamente trentuno. Non se trentuno significa ammazzare una ragazza.

La porta in fondo al corridoio s’aprì. Molina lo trovò di nuovo seduto sul divano, perso tra i suoi pensieri.

«Dormi?».

Jacques si voltò verso Sylvie Lopez.

«Si fidi del mio collega. Sembra che dorme, ma riflette. Per me invece vale piuttosto il contrario...».

Ritenne necessario precisare ulteriormente:

«Quando gli altri pensano che rifletto, in realtà io dormo».

Sebag si alzò.

«Hai trovato qualcosa?».

«Negativo. Il garage è quasi vuoto. Ovvio, visto che la macchina è... da un’altra parte».

Sebag contemplò di nuovo la riproduzione del quadro appesa al muro. Si avvicinò. La tela era firmata Derain. Un classico del fauvismo.

Staccò il quadro dal muro per verificare un’idea.

«È nuovo questo quadro, vero?».

«Nuovissimo».

«L’ha portato José qualche giorno fa, vero?».

«Come fa a saperlo? Ha a che fare con la sua scomparsa?».

«No. Cioè... non direttamente».

Non ebbe cuore di spiegare di Ingrid e dei suoi studi di pittura. Prima, al telefono, Molina non era stato per nulla esplicito. Si era limitato a dire che la scomparsa di José Lopez presentava preoccupanti analogie con quella di una giovane turista olandese, e che quella coincidenza rendeva necessarie indagini più approfondite e dunque una perquisizione.

«Lei sa che suo marito aveva avuto dei guai con la giustizia?».

«Si è trattato di una zuffa. Era un ragazzo».

«Negli ultimi tempi le è sembrato preoccupato?».

«No, tutt’altro. Non si arrabbiava più per il taxi: doveva sempre restituire i prestiti, ma diceva che ce la saremmo cavata».

Gli ispettori meditarono su quelle risposte. Poi Sebag fece segno di andar via.

«Credo che non abbiamo più nulla da fare qui. L’abbiamo disturbata abbastanza, per oggi».

Sylvie Lopez assicurò che no, non l’avevano disturbata, che non c’era nulla di peggio che aspettare senza far niente, e che così almeno aveva avuto l’impressione di aiutarli nelle indagini per qualche minuto. Offrì nuovamente da bere prima di andar via, poi davanti al loro educato rifiuto finì per fare la domanda che le bruciava sulle labbra.

«Pensate che sia successo qualcosa di grave a José?».

I due uomini si guardarono in silenzio. Tergiversavano aspettando ciascuno che fosse l’altro a sbilanciarsi. Dalla manfrina uscì vincitore Sebag.

«È troppo presto per dirlo» spiegò Jacques. «Sa, ogni anno in Francia scompaiono molte persone, e la maggior parte delle volte tutto si risolve per il meglio».

Da un punto di vista statistico Molina aveva ragione. Quello che volontariamente ometteva di dire era che la maggior parte delle volte si trattava di minori scappati di casa o persone anziane che si perdevano. Per quanto riguardava la scomparsa di persone adulte, spesso era più complicato.

Il sole accese una scintilla nelle pupille scure della giovane donna. Sylvie Lopez tirò su col naso. Ben presto la scintilla annegò. Jennifer appoggiò una mano sulla guancia della madre, fu stupita di sentire le lacrime sotto le piccole dita.

«Andrà tutto bene, vedrà» fece Jacques appoggiandole una mano sull’esile spalla.

La donna fu così educata da accontentarsi di quelle banali parole. Prima di andarsene, Sebag e Molina presero il computer e le fecero riempire il modulo di rito. Dietro loro richiesta, mentre portavano il pc in macchina, Sylvie Lopez scarabocchiò su un foglio qualche possibile password. Il nome della piccola e i suoi vari soprannomi, il nome dei suoi suoceri, il luogo di nascita di suo marito, i nomi di posti legati a un qualche ricordo... tutto quel che le veniva in mente. Sebag sentiva che si stava impegnando, ma dubitava della sua ispirazione.

 

Il motore girava piano e l’aria condizionata gli faceva dimenticare il calore dell’estate nascente. Parcheggiato davanti a una palestra, assisteva a una magnifica sfilata di donne. Alcune erano tremendamente ben messe. Lo sapevano e non temevano di uscire in body. Roba da far venire voglia di fare sport...

Sebag e Molina erano rientrati in commissariato per primi. Magari era un buon segno per le altre pattuglie. Si sarebbe capito poi. Appuntamento in commissariato nel primo pomeriggio.

Aveva due ore per sé e voleva approfittarne per fare una sorpresa a Claire. Passare a prenderla dopo la palestra e portarla in un ristorantino che gli aveva consigliato Jacques. Era l’una meno un quarto e Claire non si decideva a comparire. La lezione di step era finita da un quarto d’ora abbondante. Il tempo di fare una doccia, di rimettersi in ordine, sarebbe già dovuta essere fuori.

Davanti alla macchina di Sebag due enormi turbine trasudavano un’acqua sporca e stagnante per buttare in strada l’aria satura della palestra. L’aria condizionata è una droga dolce che si diffonde nel mondo, si disse. Con un gesto che giudicò eroico spense il motore. La bocchetta gli inviò ancora qualche soffio di freschezza, ma ormai era questione di secondi. Era tempo di abbandonare la sua oasi precaria per affrontare il mondo.

Un lungo bancone in legno chiaro accoglieva i soci della palestra. Dietro di esso, una bruna alta gli sorrise. Era l’istruttrice di Claire. La primavera precedente avevano bevuto qualcosa tutti e tre insieme. La donna voleva farsi togliere una multa. L’ispettore aveva rifiutato. Lei non aveva gradito.

«Salve».

Aveva i capelli corti e la vita alta. Era muscolosa, ma senza grandi forme. Il suo fascino risiedeva principalmente nella voce roca vivacizzata da un accento canterino.

«Buongiorno. Sono il marito di Claire Sebag».

«Oh sì, mi ricordo bene...».

Poco c’era mancato che dicesse “dello sbirro”. Si era trattenuta per un pelo.

«Sono passato a prendere mia moglie. È già uscita?».

Lei si stupì.

«Non l’ho vista stamattina».

«Ah, ok».

Sorrise. In maniera idiota, gli sembrò. Un marito ha sempre l’aria stupida quando ignora dove si trovi sua moglie. Si sentì obbligato a spiegare.

«Deve aver avuto un contrattempo. In ogni caso non le avevo detto che sarei venuto».

E uscì. Per strada telefonò per annullare la prenotazione e si diresse a grandi falcate verso il fast food più vicino, decisissimo a ingozzarsi di hamburger e patatine.

 

Le finestre restavano chiuse, le tende abbassate, ma il sole filtrava comunque nella sala riunioni del commissariato. Le fronti erano umide, e le ascelle altrettanto. Il climatizzatore aveva tirato le cuoia. Doveva essere sostituito, ma di certo non se ne sarebbe parlato prima dell’autunno. Sebag tirò su col naso. La puzza di sudore avrebbe presto coperto l’olezzo di frittura che aleggiava tra le fibre dei suoi vestiti. Raynaud e Moreno mancavano all’appello: a quanto pare, lavoravano a un caso urgente. Come al solito.

All’estremità del tavolo il capo si era tolto la giacca, ma non aveva ancora allentato la cravatta. Accanto a lui Lefèvre restava impeccabile. Sorriso Colgate e alito fresco. Capelli ingelatinati. Sembrava appena uscito dalla doccia.

«Bene, signori. Chi comincia?».

Il commissario Castello assunse un tono “serio e solenne”. Gli ispettori recepirono il messaggio. Come a scuola, conveniva iniziare dagli ultimi, calcolò Sebag. E si immolò. Riassunse il loro magro bottino. Il disco fisso di un pc che veniva analizzato in quel momento e la conferma che una parte della vita di Lopez si svolgeva al di fuori dell’ambito familiare. Castello non si adirò.

«Era prevedibile, ma bisognava fare quella perquisizione. Non avete trovato niente che possa collegare Lopez al contrabbando di sigarette?».

Sebag ci mise un po’ a capire. Aveva già dimenticato quel che si era inventato quattro giorni prima per suscitare l’interesse di Castello.

«Ehm... no... Non abbiamo trovato scorte a casa sua e... ehm... la moglie non è al corrente di nulla».

«Peccato».

«Cos’è questa storia delle sigarette?» chiese Lefèvre.

Castello gli raccontò la faccenda in due parole. Lefèvre parve perplesso.

«E lei pensa che questo possa avere a che fare con Ingrid Raven?».

La domanda era per Sebag. L’ispettore incrociò lo sguardo divertito di Molina.

«In fin dei conti, no».

Con gran sollievo di Sebag il commissario si girò verso Llach, che iniziò subito a raccontare la sua mattinata. Con Lambert avevano fatto visita a Fabrice Gasch, l’altro amico di José Lopez. Il proprietario di Securita Catalana aveva riconosciuto immediatamente Ingrid Raven sulle foto. Era lei la ragazza che accompagnava Lopez la sera del 26 giugno e che si faceva chiamare Vanessa. Gasch ben presto aveva confessato che le partite di biliardo con Barrère e Lopez prevedevano una posta in denaro, e che Lopez perdeva spesso. Talvolta dai cento ai duecento euro a sera. Aveva finto di non sapere nulla riguardo alla provenienza dei soldi. Si era accontentato di buttare lì che il suo amico – come tutti i liberi professionisti – doveva mettere da parte un po’ di denaro liquido. Giustamente, aveva persino aggiunto.

«Gli ci vorrebbe un bel controllino fiscale» borbottò Castello.

Interrogato in merito alla scomparsa del suo amico, Fabrice Gasch aveva mostrato “sincera preoccupazione”. Non aveva alcuna idea di dove si potesse trovare Lopez e soprattutto non credeva all’ipotesi di una fuga d’amore. Non era la sua prima avventura extraconiugale, e mai, ma proprio mai aveva dato la sensazione di voler lasciare la moglie. In ogni caso, sempre secondo Gasch, se avesse dovuto lasciare Sylvie non l’avrebbe mai fatto in quel modo.

Castello diede la parola a Ménard. Lambert ne approfittò per eclissarsi con discrezione. Ménard aveva parlato con Barrère. Anche il responsabile di Perpign’And Co aveva riconosciuto Ingrid sulle foto. Stavolta aveva anche ammesso di aver ingaggiato Lopez più volte quella sera, per accompagnare alcune persone a visitare il dipartimento.

«Sembrerebbe una prassi usuale quando ci sono in ballo grossi contratti» precisò Ménard.

Molina ridacchiò.

«Perpignan by night: discoteche, club privati e ragazze mozzafiato. Vero è che, a quanto pare, queste cose aiutano a concludere gli affari. C’è un aspetto da approfondire in questa storia. L’altro giorno con Gilles avevamo già discusso del fatto che Vanessa è uno pseudonimo molto comune tra le ragazze squillo. In ogni caso, ci sono più Vanesse che Martine o Brigitte».

«E quali conclusioni bisognerebbe trarne, secondo voi? Che Ingrid Raven aveva trovato tramite Perpign’And Co un nuovo modo per pagarsi gli studi?».

«Perché no?» rispose Molina.

«Potrebbe spiegare alcune cose, allora» disse il commissario, enigmatico.

Si accarezzò la barba. Al mattino era ancora irsuta, poi era stata accuratamente tagliata. Anche i capelli erano più corti.

Lefèvre digitò qualcosa sulla sua agenda elettronica.

«Personalmente, ho l’impressione che Barrère ci stia nascondendo ancora qualcosa» riprese Ménard. «Non mi è sembrato molto a suo agio durante la nostra conversazione. Era esasperato, ma anche teso. Penso che ci desse le informazioni col contagocce, non ha voglia che frughiamo troppo nei suoi affari».

«E io invece credo che sarà quello che faremo al più presto» annunciò Castello. «Ci sono troppi elementi che gettano nuova luce su questo caso».

Si prese un attimo per osservare gli astanti prima di aggiungere:

«Perché anch’io ho delle novità. Stamattina ho fatto riesaminare l’auto di Lopez. L’ispezione di routine effettuata nel fine settimana non aveva evidenziato nulla, a parte una moltitudine di impronte. Soprattutto nella parte posteriore della vettura, com’è comprensibile».

Lambert rientrò timidamente e riprese il suo posto, non senza aver lasciato dietro di sé una scia di profumo dozzinale. Il giovane ispettore, temendo di emanare odori personali troppo forti, si cospargeva regolarmente di profumo. Ed era proprio questa la ragione per cui i colleghi temevano la sua vicinanza.

«In seguito alla nuova importanza assunta da questo caso» proseguì il commissario, «stamattina ho chiesto ai nostri tecnici di rivoltare il veicolo da cima a fondo, come sanno fare così bene i nostri colleghi della dogana. Ed ecco cos’hanno trovato».

Da una borsa estrasse due sacchetti di plastica, uno contenente una fascetta di banconote e l’altro un blister di pillole blu.

«Smontando la portiera dal lato guidatore abbiamo trovato quasi duemila euro in contanti e una ventina di pillole di Viagra».

Gli ispettori si chinarono sul tavolo per contemplare meglio il bottino. Solo Lefèvre non si mosse. Aveva richiuso l’agenda elettronica. Non c’era bisogno di prendere appunti. Evidentemente aveva avuto la notizia in anteprima. Castello fece circolare i sacchetti di plastica.

«A quanto pare, dunque, José Lopez riusciva a fare un po’ di soldi all’insaputa della moglie e del fisco. Innanzitutto, perché tutte le corse notturne che effettuava per conto di Barrère erano sicuramente in nero. E poi con ogni probabilità approfittava di quelle serate per vendere di nascosto del Viagra ai clienti di Barrère. Infine, ma questo è tutto da dimostrare, può darsi che avesse intenzione di diventare il protettore di Ingrid Raven nell’ambiente».

«Taxi, prostituzione, droga. Lopez è un vero specialista nei trasporti di ogni genere...» ironizzò Molina.

«In ogni caso, niente a che vedere col lavoratore onesto e tranquillo padre di famiglia, mi sembra chiaro».

Castello si slacciò la cravatta, poi prese il telefono che aveva davanti. Chiese alla segretaria di portare dell’acqua. Lambert, spostando la sedia, si avvicinò con discrezione al climatizzatore. Pigiò tutti i bottoni, ma la macchina che dispensava il freddo non ne volle sapere.

«Bene, oggi abbiamo fatto progressi riguardo a questo caso, ma non facciamoci illusioni: nulla di quanto abbiamo scoperto ci permette di sapere cosa ne sia stato di Ingrid dopo la sua scomparsa».

Si schiarì la gola prima di continuare.

«Questo pomeriggio la polizia olandese dovrebbe trasmetterci le impronte digitali e il profilo dna della ragazza».

Bussarono alla porta, tre colpetti timidi. Jeanne, la segretaria del commissario, comparve carica di bottiglie di acqua minerale. Era una brunetta dalle forme conturbanti. Un fuseaux verde militare le fasciava il sedere e la T-shirt bianca dichiarava che era stata “stagista alla Casa Bianca”. Sebag non vi vide nulla di malizioso finché non si accorse dell’occhiolino che gli stava facendo Molina. Allora si ricordò della storia Clinton-Monica Lewinsky, e non poté reprimere un sorriso. Apprezzò la sfrontatezza – o l’incoscienza – di quella ragazza che passava in scioltezza e a suo agio da un tavolo all’altro sventolando quella battuta sotto il naso di un bel gruppetto di uomini ormai sul viale del tramonto. Scherzava con il fuoco mentre, contrariamente a quello che le piaceva far credere, non era per nulla una ragazza facile. Stando a quello che diceva Molina, che ci aveva sbattuto il muso.

«Sempre riguardo alla giovane Ingrid» proseguì il commissario dopo che l’uscita di scena della segretaria permise alla squadra di ritrovare la concentrazione, «aspettiamo anche che i gendarmes riescano a identificare la coppia di artisti di Collioure che avrebbe ospitato la ragazza. Anche in questo caso speriamo di avere notizie nel pomeriggio».

Aprì la bottiglia e riempì un bicchiere di plastica. A quel segnale tutti lo imitarono. L’acqua era fresca, gradevole.

Molina si alzò per aprire la finestra alle sue spalle. Un soffio d’aria calda entrò nella stanza. Il sollievo che seguì fu sia effimero sia relativo, ma Molina sembrò soddisfatto. Va detto che era seduto accanto a Lambert.

Dopo aver poggiato il bicchiere vuoto, Castello si schiarì nuovamente la voce. Il pomeriggio era già inoltrato ed era ora di distribuire i compiti per il proseguimento delle indagini. Come temeva, Sebag si vide affidare l’incarico di esaminare la contabilità del taxi di Lopez, Ménard da parte sua avrebbe fatto lo stesso con quella di Barrère. Lambert fu incaricato di individuare la stanza di Ingrid Raven e a Llach fu affibbiato il giro dei musei che la studentessa poteva aver visitato.

Castello si girò verso Molina.

«Aveva impegni, stasera?».

«Niente di particolare» rispose l’ispettore, preoccupato.

«Ha qualcosa in contrario a fare un po’ di straordinario?».

«Non ne vado matto...».

«Ah sì? Peccato. Pensavo di chiederle di portare avanti le indagini nell’ambiente delle squillo. Bisognerebbe rintracciare e interrogare quelle che hanno partecipato alle serate di Barrère con Lopez. Ma posso affidare l’incarico a qualcun altro...».

«Non si preoccupi» lo interruppe Molina. «Quando si fa questo lavoro, a volte bisogna sapersi sacrificare».

«È proprio quello che dico io. E bisogna anche utilizzare al meglio le competenze di ciascuno, non è vero?».

 

«Uauuu. Un cellulare! Troppo figo! Finalmente ti sei deciso...».

La riconoscenza di Léo era del tutto relativa, ma era bello vedere la sua gioia. Aveva capito ancora prima di aprire il pacchetto, Sebag gliel’aveva letto negli occhi.

«E hai credito illimitato» precisò perfidamente.

«Illimitato? Posso chiamare quanto mi pare?».

«Esatto».

Il ragazzo era stupitissimo. Sebag attese qualche secondo, il tempo di lasciarlo cullare nelle sue illusioni. Claire lo guardava severa.

«A condizione ovviamente di chiamare qui a casa, oppure me o tua madre sul cellulare. Per le altre telefonate, ovviamente paghi tu».

«Ah, be’, d’accordo... volevo ben dire...».

Digitò un numero e si andò a isolare in fondo al giardino mentre Séverine finiva di sparecchiare. Claire e Gilles restarono seduti da soli. Avevano cenato in terrazza. Un’insalata di pomodori ravvivata, stavolta, da pinoli raccolti sotto i pini del quartiere e qualche foglia di maggiorana del loro giardino. La serata era stata magnifica. L’ultima che avrebbero passato insieme per un po’ di tempo. Il giorno successivo Léo sarebbe partito per le Cevenne, in colonia. Tema della vacanza: moto e quad. Suo padre avrebbe preferito arrampicata, trekking o anche kitesurf o windsurf, ma Léo era attratto solo dagli sport motorizzati. Anche Séverine sarebbe partita per passare il mese di luglio con la famiglia di un’amica in Costa Brava. Gilles sperava che ne avrebbe approfittato almeno per ripassare un po’ di spagnolo.

Durante quel periodo Claire avrebbe perfezionato la propria abbronzatura tra mare e piscina. Prima nel Roussillon, poi in crociera. Per quanto riguardava agosto, ci avrebbero pensato poi. A seconda delle voglie, delle disponibilità e dei figli che avessero voluto unirsi a loro. Era la prima estate che rischiavano di passare completamente soli. Avrebbe dovuto essere un’occasione per ritrovarsi. Per ripartire da capo, per immaginare e preparare un futuro a due e non a quattro.

«Sei pensieroso» disse Claire passandogli il dorso della mano sulla guancia.

Era ormai sera inoltrata, ma faceva ancora caldo. Léo e Séverine si dibattevano rumorosamente in piscina. Le lampade a energia solare che ornavano il giardino si accendevano una dopo l’altra.

«Sei preoccupato per il caso di cui ti stai occupando?».

Sebag colse il pretesto che gli aveva fornito.

«Ho la sensazione che sarà un’indagine lunga e difficile. Non so perché, ma la penso così. Grattiamo via un primo strato dal muro, pensiamo di fare progressi, poi sotto troviamo il cemento. Troppo duro da demolire, troppo liscio da scalare».

La mano di sua moglie scivolò sul mento sfregando la barba che di sera cominciava a spuntare.

«Lo sai che non riesco a seguirti quando parli troppo per immagini».

Lui raccolse un pezzo di pane caduto per terra e lo posò sul tavolo. Aveva spulciato i conti di Lopez fino alle sei di sera e non aveva trovato niente di significativo. C’erano registrate tre corse per Perpign’And Co, il che lasciava supporre che, come aveva suggerito Castello, le altre dovevano essere state pagate in nero. Per quanto ne sapeva, anche i colleghi non avevano fatto grandi passi avanti.

«Non so come spiegarlo, ma ho un brutto presentimento».

Sul tavolo ormai restava solo il suo bicchiere di vino mezzo pieno. Ne bevve un sorso.

«Al momento, stiamo cercando di ricostruire i movimenti della ragazza olandese e la provenienza di alcuni soldi trovati nel taxi di Lopez. Un po’ alla volta magari scopriremo qualcosa e riusciremo a ricostruire il puzzle, ma è probabile che il quadro che comporremo non ci dirà nulla di utile».

«Continuo a non seguirti».

«Le sparizioni non hanno per forza a che fare con i traffici di Lopez. Quanto ai movimenti di Ingrid, una volta che avremo colmato tutti i buchi ci ritroveremo all’ora x della sua scomparsa senza avere una sola pista seria».

Si levò un grido acuto seguito da un rumorosissimo plof. Léo aveva appena gettato in acqua Séverine. Claire li richiamò dolcemente all’ordine: era tardi, i vicini avevano diritto a un po’ di silenzio. Non aveva neanche finito di parlare che un altro plof si fece sentire al di là della siepe di alloro. La serata era calda anche per i vicini. E tanto peggio per quelli che non avevano una piscina.

«Non è sempre così, un’indagine di polizia?» chiese Claire portandosi alle labbra il bicchiere di vino del marito.

Lui alzò le spalle.

«Sì, certo, ma in questo caso non lo so. Sento che non va».

Claire gli strinse i capelli per scuotergli dolcemente la testa.

«Povero Gilles... direi che invecchiando non migliori. Non hai imparato proprio niente dall’esperienza? Da quando sei in polizia, fai così ogni volta che inizi a occuparti di un caso. Ti preoccupi, ti demoralizzi davanti all’enormità del compito, ma alla fine riuscite sempre a trovare il filo per sbrogliare la matassa».

Lo fissò negli occhi.

«E sai anche che la maggior parte delle volte sei tu a trovare quel filo».

In fondo al cuore lui sapeva che la moglie aveva ragione, ma quella volta era peggio del solito. Sentiva anche che tutti i suoi dubbi non dipendevano solo dal caso che stava seguendo. La sua crisi di pessimismo serale aveva altre origini.

«Non è vero» insisté, «non sempre troviamo il filo. Soprattutto nei casi che riguardano persone scomparse».

Claire si alzò e con passo leggero entrò dentro casa. Tornò dopo poco, in costume da bagno. Accese la luce della piscina e scese lentamente i tre gradini che portavano in acqua. I figli capirono e le lasciarono campo libero. Séverine avvolse i lunghi capelli scuri in un asciugamano. Passò accanto a suo padre, gli diede un bacio in fronte e disse che andava a dormire. Anche Léo si avvicinò e mise una mano sulla spalla del padre.

«Domattina partiamo alle sette, non te lo dimenticare».

«Ho già puntato la sveglia» lo tranquillizzò. «Arriverai in orario».

Gilles appoggiò la mano su quella del figlio. Non osava chiedergli un bacio. L’indomani, magari, al momento della partenza...

Claire scivolava nell’acqua senza sforzo apparente. Arrivata a un’estremità della vasca, si immerse per emergere di nuovo solo all’altra estremità. Era capace di andare avanti così per ore. E Gilles era capace di seguirla con gli occhi altrettanto a lungo.

Intanto s’era fatta notte. Gilles non aveva bisogno di entrare in acqua a sua volta, si sentiva già meno accaldato. Claire uscì dalla piscina. Si tolse il costume e lo mise ad asciugare. Si avvolse un telo intorno alla vita. I seni ballonzolarono quando iniziò a camminare. E poi si chinarono verso di lui. Gli passò ancora la mano tra i capelli.

«Vieni a dormire? Io sono distrutta».

«La lezione in palestra è stata stancante?».

Eppure si era ripromesso di non chiedere nulla. E di sicuro non così. Era per un attacco improvviso di gelosia o per deformazione professionale che aveva teso quella stupida trappola? Non l’avrebbe saputo mai. Con sua grande disperazione, Claire abboccò.

«Non so che avesse l’istruttrice oggi. Doveva essere di cattivo umore. Ci ha fatto sgobbare come non mai».

E lo lasciò solo in balìa dei suoi foschi pensieri. L’acqua della piscina si ricordava ancora dei movimenti natatori e continuava a ondeggiare stupidamente. La sua luce azzurrina faceva danzare sornioni i rami della palma.

Come diceva il proverbio: chi la fa l’aspetti.