15.

 

La suoneria lo strappò a una confusione ovattata. Si raddrizzò con lentezza. Le lampade a energia solare costellavano il giardino di malinconici puntini blu. Accanto alla sedia a sdraio giaceva una bottiglia vuota. Si chinò per raccoglierla e sentì un’ondata di nausea. La testa gli girava. Strinse gli occhi per mettere a fuoco.

Talisker. Aveva finito la bottiglia sotto le stelle. Bevendo direttamente a canna.

La sveglia smise di suonare.

Guardò l’orologio. Le 3.20. E Claire non era ancora rientrata. Non era la suoneria della sveglia che l’aveva ridestato dal coma. Non a quell’ora. E poi dalla terrazza non avrebbe potuto sentirla.

Rientrò in casa. Aveva lasciato il cellulare da qualche parte. Sul mobile bar. Il display indicava che aveva un messaggio. Chi poteva mai chiamarlo a quell’ora di notte? Il commissariato? O forse Claire?

Le era successo qualcosa.

Compose febbrilmente il codice di accesso alla segreteria telefonica. Cosa temeva di più, un messaggio dell’ospedale che l’informava che Claire aveva avuto un incidente o un messaggio di Claire che gli annunciava che non sarebbe tornata, che non sarebbe tornata mai più? Prima di avere il coraggio di darsi una risposta, una voce forte dall’accento vigoroso gli ferì le orecchie sensibili.

«Mi scusi se la disturbo a quest’ora, signore, sono Ripoll, André Ripoll, sono di guardia questa notte ed è appena arrivata una lettera per lei, sembra che sia urgente ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla sul cellulare. Non so se la devo chiamare anche a casa, sono molto in imbarazzo...».

Il messaggio non era ancora finito che il telefono fisso sulla scrivania si mise a suonare. Ripoll doveva essersi deciso. Sebag interruppe il messaggio e andò a rispondere.

«Buonasera, parla Ripoll, André Ripoll. Mi scuso...».

«Va bene, taglia» lo interruppe. «Ho sentito il tuo messaggio. Cos’è questa storia di una lettera urgente in piena notte?».

«So che può sembrare strano, ma prima c’è stata una telefonata, una mezz’ora fa, per dire che c’era una busta per lei nella buca delle lettere del commissariato e che era urgente. Non sembrava uno scherzo e quindi sono andato a controllare. Ed effettivamente nella cassetta c’era una busta con su scritto “Urgente”».

«Me la puoi descrivere questa busta, com’è fatta?».

«Be’, nulla di speciale, è una normale busta, ecco. Bianca. Col suo nome scritto a macchina. Niente francobollo, devono averla infilata direttamente nella buca delle lettere».

Certo, a quell’ora! Cosa credeva Ripoll, che i postini di Perpignan facessero un secondo giro tutte le notti verso le tre?

«È tutto? Niente mittente?».

«No, c’è solo un disegno sul retro».

«Un disegno?».

«Sì. Si direbbe un uccello».

Un brivido attraversò Sebag da parte a parte.

«Com’è fatto quest’uccello? È una rondine?».

«Forse. Non ne capisco molto, di uccelli, ma potrebbe essere benissimo una rondine, sì».

 

Buttò due aspirine in un bicchiere d’acqua prima di mettersi sotto la doccia. Non toccò nemmeno il rubinetto dell’acqua calda e soffiò rumorosamente sotto lo schiaffo del getto ghiacciato. Dopo essersi asciugato si rivestì in maniera degna di uno sbirro. «Lo sbirro scende in campo, toh, che ridere». Poi ingoiò velocemente le aspirine. Sul tavolo del soggiorno, bene in vista, lasciò un breve biglietto per Claire. Per niente dispiaciuto di non essere lì quando sarebbe rientrata. Magari si sarebbe preoccupata un po’ anche lei.

Le strade di Perpignan erano vuote e in cinque minuti arrivò in commissariato. Entrando nel parcheggio per poco non si scontrò con una macchina di pattuglia che usciva a tutta velocità. Allertato dal lampeggiante, inchiodò all’ultimo minuto. C’era un’operazione in corso. Relativamente urgente: gli agenti non avevano azionato la sirena. Una nota di servizio diffusa l’anno precedente aveva limitato drasticamente l’uso dei segnalatori sonori di notte. Bisognava rispettare il sonno dei bravi cittadini. A rischio di provocare incidenti. Di chi sarebbe stata la responsabilità in un caso del genere? La nota di servizio non lo diceva.

Ripoll gli rinnovò le sue scuse tendendogli la busta con le sue mani grassocce. Sebag rifiutò di prenderla.

«Non hai dei guanti?».

Il poliziotto di guardia comprese in ritardo che anche lui avrebbe dovuto essere più prudente. Aprì il cassetto della scrivania all’ingresso e passò a Sebag un paio di guanti di lattice.

«Non potevo sapere...» balbettò.

«No, ovviamente. Una busta anonima indirizzata a un ispettore e consegnata in piena notte, nulla di più normale, vero? Ne ricevo ogni notte».

Si infilò i guanti e prese la busta. Era effettivamente una busta come ne circolavano milioni ogni giorno in Francia. Era indirizzata in maniera pomposa all’“Egregio ispettore di polizia Gilles Sebag, Commissariato di Perpignan”. L’intestazione era stata battuta a macchina, ma con un carattere che imitava la grafia a mano. In alto a destra la parola “urgente” era stata scritta in rosso e sottolineata a mano. Sul retro, come firma, vi era il disegno stilizzato di una rondine che aveva qualche somiglianza col tatuaggio di Ingrid Raven.

«Le telecamere all’esterno sono sempre rotte?» chiese Sebag.

«Avrebbero dovuto ripararle la settimana scorsa, ma non l’hanno fatto. Non so perché. Questa settimana faccio il turno di notte, non mi hanno detto niente».

«Nessuno ha visto chi ha infilato la lettera nella cassetta? Una pattuglia di rientro in quel momento?».

«Non che io sappia, ma farò circolare il messaggio tra le pattuglie di notte».

«La telefonata almeno è stata registrata?».

«Probabilmente sì. Come tutte le telefonate».

«Non hai verificato».

«Ehm... no. Non ancora».

Ripoll era a disagio. Forse sonnecchiava o stava bevendo qualcosa in caffetteria quando il telefono aveva squillato. Aveva pensato sicuramente di passare una tranquilla notte di guardia. A metà settimana, spesso era così.

«Recupera il nastro e portamelo nel mio ufficio. Lo voglio entro cinque minuti».

Lo udì borbottare qualcosa in catalano. Intanto lui corse nel suo ufficio, rimproverandosi di aver sfogato il malumore sul povero Ripoll. Non era tipo da prendersela coi sottoposti, ma tutti potevano avere un attimo di debolezza. Soprattutto quando non si erano avuti che pochi minuti per smaltire la prima sbornia dopo vent’anni.

Poggiò la misteriosa missiva sul tavolo da lavoro e si sedette. La stanza era immersa nel buio e nel silenzio. Accese la lampada sulla scrivania. Sapeva che sarebbe stato meglio affidare il documento ai colleghi della scientifica, ma non aveva la pazienza di aspettare l’indomani.

Dopotutto, quella lettera era indirizzata a lui. Ed era già domani.

Sempre indossando i guanti prese un tagliacarte dal cassetto e aprì con cautela la busta. All’interno trovò una lettera su carta riciclata scura. La spiegò. Solo poche righe, scritte al computer. Il messaggio era chiaro e diretto:

 

Vogliamo 150 milioni di euro per la liberazione della giovane olandese. Seguiranno altre istruzioni.

 

Firmato:

 

Fronte della Resistenza delle Isole Molucche

 

Centocinquanta milioni! La somma all’inizio lo sorprese. Quasi un miliardo di franchi. Chi poteva mai possedere una cifra del genere? Amministratori delegati di multinazionali, calciatori o star della canzone. Il vincitore della lotteria europea, anche, ma di certo non i genitori di Ingrid Raven.

Lo sguardo si soffermò poi sulla firma. Fronte della Resistenza delle Isole Molucche... Gli tornarono in mente alcune immagini in bianco e nero. Un treno. Un treno fermo in aperta campagna. Si ricordava le teste incappucciate catturate dal teleobiettivo di una videocamera dietro i finestrini di uno scompartimento. Rivedeva una porta che si apriva lentamente e un corpo che cadeva pesantemente sui binari. Un commando delle Molucche – Molucche del sud, probabilmente – si era impadronito di un treno nei Paesi Bassi. Erano gli anni Settanta, se la memoria non lo ingannava. L’aveva visto in tv. C’erano stati dei morti.

«Che vuol dire questa buffonata?».

«Scusi? Ho fatto qualche altra sciocchezza?».

Non aveva sentito arrivare Ripoll. Il brigadiere era restato sulla soglia. La sua grossa sagoma si stagliava contro la luce nel corridoio.

«No, scusami, parlavo da solo».

Ripoll si avvicinò. Depose un nastro sulla scrivania.

«L’ho riavvolto fino al messaggio che le interessa».

Gli tese un piccolo registratore e aggiunse:

«Con questo sarà più facile».

«In effetti può essere utile» rispose Sebag regalandogli il suo sorriso più amabile. «Sei riuscito a contattare tutte le pattuglie?».

«Sì, ma nessuno ha visto nulla di sospetto».

«Peccato. Grazie per la rapidità».

Il piantone fece per voltarsi, ma Sebag lo fermò prima che oltrepassasse la soglia.

«Che impressione t’ha fatto il tipo che ha telefonato?».

«In che senso, che impressione? Non so. Può ascoltare lei stesso».

«Lo farò, ma non sarò nel tuo stesso stato d’animo. Io ascolterò con dei preconcetti. Vorrei sapere quello che hai sentito tu. Per esempio, perché hai capito subito che non si trattava di uno scherzo?».

Ripoll si prese il tempo di riflettere prima di rispondere. L’ispettore non poteva vedere il suo viso in controluce, ma lo sentì lusingato dalla domanda.

«Aveva una voce bassa e abbastanza lontana, ma il tono era duro. Ha detto solo una decina di parole e poi ha attaccato subito. E non si fa così quando si fa uno scherzo».

«Ah, bene. E secondo te come si fa?».

Ripoll si passò una mano tra i capelli brizzolati.

«Non so. Credo... ehm... credo che si aspetti qualche secondo, almeno per vedere la reazione dell’altro. Se si fa uno scherzo è per questo, no?».

«Giusto. Che altro?».

«Be’... nulla».

«Grazie. Ti chiamerò se avrò bisogno di altre precisazioni».

«A disposizione. Sarò qui fino alle sette».

Ascoltò Ripoll allontanarsi lungo il corridoio con passo pesante. Respirò a fondo e mise il nastro nel registratore. Dopo qualche scricchiolio si udì una voce maschile. Una sorta di sussurro.

«Nella buca delle lettere del commissariato c’è una busta per l’ispettore Sebag. È urgente, molto urgente».

Il suono di telefono libero che seguì quelle due brevi frasi gli perforò i timpani. Il tono dell’anonimo che aveva chiamato era sicuro, fermo, duro, come aveva detto Ripoll, quasi autoritario. Il testo era sobrio, come quello della lettera, ma era difficile farsi un’idea della voce, visto che sussurrava. Riavvolse e riascoltò il nastro facendo attenzione, stavolta, a fermarlo subito dopo l’ultima parola. Non vi era la minima esitazione nel pronunciare rapidamente le due frasi. Nemmeno l’ombra di un accento. In effetti non sembrava uno scherzo.

Si alzò per aprire la finestra. L’aria era più mite, ma la temperatura non sarebbe scesa ancora.

Se solo avessero potuto localizzare la telefonata! Da due anni promettevano una nuova centrale telefonica più avanzata, ma ogni volta la consegna veniva posticipata. Mancavano i soldi, c’erano sempre altre priorità. Una macchina di pattuglia parcheggiò con prudenza. Quella con cui per poco non si era scontrato arrivando. Sebag vide scendere due agenti. Con loro c’era una ragazza.

L’aria di fuori gli faceva bene. Il mal di testa era scomparso. L’immagine di Claire cercò di imporglisi alla mente, ma lui rifiutò di farle posto. Non serviva a niente rimuginare. C’era una sola domanda da farsi, una sola risposta da darsi. Voleva sapere?

Passò la fine della nottata su Internet a documentarsi sulle isole Molucche e i loro movimenti sovversivi. Fece delle pause in caffetteria e mandò giù di malavoglia diverse tazze di un caffè cattivo. Le smorfie che non riuscì a reprimere ingollando contribuirono a mantenerlo sveglio quasi quanto la bevanda.

Verso le cinque, risalendo da una delle sue spedizioni in caffetteria, incrociò per le scale i due agenti e la ragazza. Una bella bionda. Abbastanza alta. Puzzava di sudore e paura. Piangeva. La fine della serata doveva essere stata tremenda per lei. Sebag notò che si teneva un fazzoletto sul collo.

 

«Bon dia» disse Rafel Puig, il proprietario del Carlit. «Com vas? Sei caduto dal letto, stamattina? Hai un’aria sfatta. Non dirmi che sei andato a correre prima di venire».

«No. He treballat tot la nit».2

Sebag frequentava un corso serale alla Generalitat de Catalunya, una sorta di ambasciata ufficiosa della Catalogna del sud a Perpignan. Capiva il catalano e riusciva a mettere insieme qualche frase semplice.

«Tota la nit? Carall, non deve succederti spesso».

Sebag fece spallucce.

«Non si può sempre scamparla».

Rafel passò automaticamente una pezzuola sul bancone impeccabile. Il padrone del Carlit mescolava sempre catalano e francese nei suoi discorsi. Era il suo personalissimo modo di divulgare la lingua del proprio paese, una modalità aperta e didattica che Sebag apprezzava.

«Una tassa de cafè, com de costum?».3

«Un caffè triplo in tazza grande, per favore. Con due uova a occhio di bue ben cotte. La notte è stata breve, la giornata sarà lunga».

«Dài, vatti a sedere. Ti porto tutto tra cinque minuti».

Alle sei di mattina Sebag aveva deciso di concedersi una vera pausa. Passando all’ingresso aveva chiesto a Ripoll di svegliare Castello per informarlo degli avvenimenti della notte. Poi aveva attraversato la strada per spingere la porta del Carlit.

Prese il giornale fresco di stampa e andò a sedersi in disparte. La loro impresa del giorno precedente era in prima pagina sul quotidiano locale. All’interno una grande foto mostrava il prefetto davanti a uno scatolone sventrato da cui traboccavano sigarette spagnole. Gli scatoloni erano stati sparpagliati a terra e, così disposta, la quantità di merce confiscata sembrava impressionante. L’articolo citava il sequestro di tremila stecche per un ammontare di centocinquantamila euro. Il calcolo finale doveva essere stato fatto sul prezzo di vendita ufficiale in Francia e non su quello del mercato nero. Non aveva senso, ma in questo modo si arrivava a una cifra sbalorditiva. Centocinquantamila euro erano una bella somma. Convertiti in franchi – semplice operazione di calcolo mentale che numerosi lettori avrebbero fatto – davano quasi un milione, un numero simbolico che pertanto colpiva gli animi.

Fece un rapido calcolo: ci sarebbero voluti mille sequestri come quello per raggiungere la somma reclamata dai presunti rapitori di Ingrid Raven. Quella richiesta di riscatto era folle!

Un secondo articolo parlava delle irruzioni della polizia in una decina di bistrot di Perpignan e dell’interrogatorio di tre gestori. Su una foto, due poliziotti scortavano un uomo ammanettato nascosto sotto una giacca. I tre gestori interrogati erano in stato di fermo. I giornali azzardavano che probabilmente avrebbero passato la notte in commissariato, ma Sebag sapeva che erano stati già rilasciati. In un articoletto a fondo pagina, un avvocato denunciava quanto fosse sproporzionata l’operazione. Non aveva torto: gli interrogatori a muso duro probabilmente avrebbero avuto lo stesso effetto di una semplice multa inflitta dal giudice penale.

Rafel mise la colazione sul tavolino.

«Bon profit!».4

Il ristoratore si sedette di fronte all’ispettore e con un movimento secco del capo indicò il giornale.

«Be’, sono fortunato a essere piazzato di fianco a un commissariato. Se la mia clientela non fosse composta per oltre il cinquanta percento da sbirri, mi sa che anch’io avrei venduto cicche spagnole. Spero che non sia per questa storia pietosa che hai passato la notte in bianco».

«No, sta’ tranquillo. Sto lavorando a un caso importante, una roba con ramificazioni internazionali. Ma per il momento non posso dirti nulla».

Rafel capì che lo stava simpaticamente prendendo per il culo e non insisté. Sebag poté terminare di fare colazione in tranquillità. Il caffè era bello forte, le uova un po’ bruciacchiate come piacevano a lui. Le altre informazioni sul giornale, invece, non gli destavano il minimo interesse.

Quando ebbe finito riportò tazza e piatto al bancone. Poi tornò al casermone. Ripoll aveva finito il turno ma stava facendo lo straordinario per provarci con Martine, la piccola e graziosa ausiliaria di polizia che stava all’ingresso nel turno di giorno. Alle spalle del vecchio piantone libidinoso Sebag rivolse un gesto di compassione alla giovane poliziotta, che gli rispose con un sorriso gentile. Ripoll si girò per dirgli che il capo era appena arrivato e lo aspettava. Sebag passò a prendere la lettera e la busta nel cassetto della scrivania, le afferrò con una pinza e salì al terzo piano.

 

Castello e Lefèvre chiacchieravano in piedi davanti alla finestra. All’arrivo di Sebag si interruppero. L’ispettore depositò la preziosa lettera sulla scrivania del capo e si sedette. Castello e Lefèvre esaminarono attentamente i due reperti. Poi si sedettero a loro volta.

«Che ne pensa?» chiese il capo a Sebag. «È una cosa seria?».

L’ispettore aveva riflettuto tutta la notte sulla questione.

«Seria? Sì e no».

Castello e Lefèvre sobbalzarono all’unisono.

«In questa lettera ci sono elementi seri e altri che lo sono meno» cominciò a spiegare Sebag. «Penso che il mittente sia effettivamente implicato nella scomparsa di Ingrid. Il disegno sulla busta assomiglia al tatuaggio della ragazza, è una firma da non prendere sotto gamba. Ho scartato l’ipotesi di un mitomane che starebbe approfittando della situazione: visto che non abbiamo ancora fatto alcuna comunicazione in merito al caso, nessuno sa nulla. Tra l’altro ho appena dato un’occhiata ai giornali locali, non è trapelato ancora niente».

Castello approvò il ragionamento. Lefèvre non si espresse.

«Quel che mi sembra poco credibile è la firma. Fronte della Resistenza delle Isole Molucche... Stanotte ho fatto qualche ricerca. Le isole Molucche appartengono oggi all’Indonesia e una volta erano colonie dei Paesi Bassi. Sono a maggioranza musulmana, ma negli anni Settanta c’è stato un movimento indipendentista nel sud dell’arcipelago che reclutava i suoi seguaci tra le fila della minoranza cristiana. Quel movimento ha organizzato azioni terroristiche sul territorio olandese, ma oggigiorno sembra essere completamente scomparso».

«I movimenti terroristici islamici sono attivi in tutto il mondo» intervenne Lefèvre. «Perché scartarli a priori?».

«Forse non ci siamo capiti: non ho alcun bisogno di scartare ciò che non esiste. Come le dicevo prima, gli unici movimenti terroristici che abbiano agito nelle isole Molucche erano più che altro di provenienza cristiana. Per quel che ne so, non ci sono movimenti islamici in quella regione».

Sebag aveva sentito Lefèvre irrigidirsi durante il suo discorsetto.

«Al-Qaida ha ramificazioni in tutto il mondo musulmano» contestò il commissario parigino. «Magari lei non le conosce tutte».

«Probabilmente no» concesse Sebag, «ma rilegga il testo della rivendicazione, credo che vada nel senso in cui l’ho interpretato io. Ci chiedono soldi, punto e basta. Di solito, le rivendicazioni dei movimenti islamici sono infarcite di importanti considerazioni religiose e geopolitiche. E se alcuni casi di rapimento si sono risolti pagando un riscatto, è stato il più delle volte sotto banco».

Lefèvre non poté reprimere un sorrisetto di scherno.

«Ha una formazione specifica riguardo al terrorismo o è diventato un esperto di geopolitica navigando su Internet?».

Sebag s’innervosì, ma rifiutava di infilarsi nel cliché stupido e inutile del confronto tra sbirro di provincia e collega parigino.

«Ammettiamo pure che esista un Fronte della Resistenza delle Isole Molucche» concesse, «e che per ragioni note solo a loro i suoi militanti vogliano colpire gli interessi olandesi... Perché mai rapire una studentessa? E perché qui, a Perpignan, in quest’angolo sperduto del paese?».

Aveva calcato il tono su queste ultime parole.

«Infine, e sono certo che sarete del mio stesso avviso, se questo movimento terrorista internazionale esiste davvero ed è in grado di effettuare un rapimento così lontano dalle sue basi e le sue reti, perché mai indirizzare a me, piccolo piedipiatti di provincia, la lettera di rivendicazione?».

Castello ebbe un moto di stizza: non gli piacevano i termini impiegati dall’ispettore. Lefèvre scosse lentamente la testa, poi sorrise ironico.

«Trovo particolarmente interessante quest’ultima domanda e vorrei sapere se ha qualche ipotesi in merito. Perché lei? Che cos’ha a che fare con questa storia?».

La domanda era diretta. Castello la ripeté per cercare di attenuarne la brutalità.

«Ha qualche idea, Gilles? Forse potrebbe esserci d’aiuto».

«Non so assolutamente nulla. Ho riflettuto anche su questo, stanotte, e non ho spiegazioni».

«Nella sua carriera non ha mai avuto a che fare con movimenti estremisti di qualunque tipo» chiese Lefèvre, «o... con malviventi megalomani e amanti degli scherzi?».

«Non che io ricordi».

«Da quanto tempo è a Perpignan?».

«Sette anni».

«E prima dov’era?».

«A Chartres. Capoluogo del dipartimento di Eure-et-Loir».

«La conosco, grazie. Per quanto tempo?».

«È un interrogatorio ufficiale?».

Si sfidarono con gli sguardi per qualche secondo. Poi Sebag scosse la testa: non gli piaceva quando si lasciava trasportare dalla collera, ma era stanco e l’altro si stava comportando da vero stronzo.

«Non si offenda, Gilles, e non complichi le cose» intervenne Castello. «Non si tratta affatto di un interrogatorio, ma è di importanza capitale sapere perché i rapitori l’hanno contattata. Proprio lei e non qualcun altro. La risposta è probabilmente nel suo passato, recente o più lontano».

Fece una pausa prima di precisare:

«Dovremo fare una piccola indagine».

«Di cosa sono sospettato, esattamente?».

«Basta così, Gilles» s’innervosì Castello. «Lei non è sospettato di nulla e lo sa bene. È una delle poche piste che abbiamo, e non va trascurata. Punto».

«E chi seguirà questa pista?».

Il commissario lo guardò dritto negli occhi.

«Sa anche questo. Abbiamo la fortuna di avere qui un poliziotto che non la conosce e che non sa nulla dei casi che lei ha risolto, né dei soggetti che ha contribuito ad arrestare. Svolgerà il compito con la massima obiettività, spero».

Stavolta Castello fissò il giovane commissario parigino.

«Ovviamente» ridacchiò Lefèvre.

«Bene» concluse per il momento Castello. «Discuterete la questione più tardi».

Restarono in silenzio per un istante. Il commissariato andava pian piano risvegliandosi. Sbalzi di voce arrivavano dal corridoio malgrado la porta chiusa. Castello riprese la parola.

«La somma richiesta è insensata! Centocinquanta milioni di euro, un miliardo di franchi».

«I membri della resistenza delle isole Molucche forse non seguono molto da vicino le quotazioni dell’euro» fece Sebag, amaro.

Castello decise di non cogliere la frecciata. Lefèvre fece finta di non aver sentito. Si alzò e indicò la lettera.

«Suppongo che la farete analizzare sotto tutti i punti di vista dai vostri servizi tecnici. Prima vorrei farne delle copie. Ne manderò una via fax a un collega del controspionaggio. Vorrei il suo parere da... esperto».

Quando fu uscito, il capo si voltò verso Sebag.

«Ho un incarico per lei, Gilles, o meglio due. Il primo, gliene ho già parlato, consiste nel rispondere con precisione a tutte le domande che le farà Cyril Lefèvre».

Sebag annuì in segno di buona volontà.

«Il secondo le risulterà più facile. Dopo aver parlato con Cyril tornerà a casa a riposarsi. Ha l’aria stanca. Non ha dormito molto, immagino...».

«Un paio d’ore».

«Voglio che sia qui domani in piena forma. È importante. Dato che i nostri misteriosi corrispondenti l’hanno scelta come interlocutore, vorrei che si rendesse il più possibile disponibile nei prossimi giorni. Da buon maratoneta, lei sa che per durare sulla distanza bisogna sapersi risparmiare».

 

La casa era ancora silenziosa, ma non più vuota. Claire dormiva nel loro letto. Avanzò in punta di piedi e si stese al suo fianco. Il sole filtrava da dietro le persiane. Lei si girò e gli si incollò addosso. Il suo corpo aveva il calore tenue tipico del letto. Gli occhi verdi si aprirono lentamente, poi si posarono su Gilles.

«Non hai dormito per niente?» gli chiese con dolcezza.

«Qualche ora. E tu?».

«Non so. Che ore sono?».

«Manca poco alle undici».

«Allora ho dormito quasi le mie solite sette ore» disse lei stiracchiandosi.

Diede un colpetto al cuscino e si mise seduta. Lui ne approfittò per allontanarsi da quel corpo che gli bruciava contro la pelle.

«Quest’emergenza notturna, di che si trattava? Niente di grave, spero».

Lui le raccontò le avventure della notte. Quelle successive al suo risveglio dopo la sbornia. Aveva appena finito quando Claire gli fece la domanda. Quella che gli avrebbero fatto senza sosta fino alla fine delle indagini, quella per cui non aveva la più pallida idea di cosa rispondere.

«Perché quella lettera era indirizzata a te?».

«Che cacchio ne so».

Lei restò qualche istante in silenzio. Poi propose:

«Magari ti conosce».

«Chi?».

«Il rapitore».

«Perché il rapitore?» si stupì lui.

«Non so. Ho detto il rapitore?».

«Eh già».

«Forse perché l’hai detto tu. O dalla tua presentazione dei fatti sembrava che non potesse esserci che un unico rapitore».

Per qualche istante Sebag rifletté su quest’osservazione. Si rese conto che effettivamente cominciava a preferire il singolare.

«Neanche tu credi a questa rivendicazione?» le chiese.

«No».

«Perché?».

«Perché non ci credi tu» rispose Claire con un candore rincuorante. Aveva sempre mostrato più fiducia di lui nelle sue doti investigative, e spesso questo l’aveva messo a disagio, ogni tanto fatto arrabbiare. Ma stavolta trovava quella fiducia rassicurante.

 

Erano le due del pomeriggio passate quando si alzò. Claire stava prendendo il sole a bordo piscina. L’aveva aspettato per mangiare.

La sua borsetta aperta era ai piedi del mobile bar. Gilles riusciva a intravedere il cellulare di Claire. Non doveva far altro che prenderlo, accenderlo e scorrere le ultime chiamate effettuate. Se le aveva cancellate, sarebbe già stata una conferma.

Esitò.

Il dubbio era fastidioso. Inquietante. Angosciante. Gli avvelenava la mente. Ma la verità rischiava di rivelarsi ancora peggiore. Crudele e altrettanto destabilizzante. E poi, soprattutto, non riusciva a decidersi a utilizzare contro la moglie i metodi da poliziotto. E se, dopo essersi abbassato a pratiche di quel genere, non avesse trovato nulla? Si sarebbe sentito ridicolo e tuttavia non necessariamente rassicurato. L’assenza di prove di colpevolezza non poteva costituire una prova inconfutabile d’innocenza.

Il telefono di Claire suonò. Un breve bip. Era un messaggio. Mentre cedeva alla curiosità e allungava la mano verso l’apparecchio, anche il suo cellulare suonò. Andò a prenderlo nella tasca della giacca. Non era un messaggio, ma una foto. Léo con un sorriso a trentasei denti in sella a un quad. Sebag portò il telefono a Claire.

«A quanto pare tuo figlio è in gran forma».

Pranzarono in soggiorno. Sulla terrazza faceva troppo caldo. Claire gli raccontò della serata. Come si era svolta. Dopo il ristorante avevano rinunciato ad andare al cinema. Il film che avevano scelto a quanto pareva era troppo serio e Véronique aveva bisogno di distrarsi. Avevano dunque optato per andare in un locale. Al Maracas a Saint-Cyprien. Musica anni Settanta. Si erano divertite come ragazzine. Soprattutto Véro.

«Hai rimorchiato?».

«Secondo te?» rispose lei con un sorriso civettuolo.

Si prese il tempo di guardarla bene. Begli occhi verdi che le rughe appena accennate rendevano ancora più splendenti, naso fine e appuntito, bocca ribelle. Gli occhi scivolarono più in basso. La maglietta blu che aveva indossato rapidamente dopo aver preso il sole lasciava intuire la curva dei seni.

«Hai rimorchiato» rispose, e stavolta non era una domanda.

Claire rise.

«E quindi?» domandò lui.

«E quindi cosa?».

«E quindi?».

Il sorriso pian piano scomparve. Con la mano destra lei gli scompigliò i capelli.

«Smettila, stupido».

E lo baciò languidamente per mettere fine alla conversazione.

Il pomeriggio passò tra sole e piscina. Mentre preparava un barbecue per la cena il cellulare squillò. Il commissario Castello gli riassunse gli eventi del pomeriggio. La lettera anonima era stata esaminata in dettaglio. Sulla busta avevano rinvenuto solo le impronte di Ripoll, ma sull’angolo in alto a sinistra della lettera c’era un’altra impronta. L’avevano confrontata con quella che la polizia olandese aveva appena trasmesso. Non c’erano dubbi. Era quella di Ingrid Raven. La stessa impronta era stata rilevata sulla maniglia della portiera lato passeggero del taxi di Lopez.

Le prime informazioni provenienti dall’ufficio del dst, il controspionaggio francese, confermavano la tesi di Sebag. Il servizio non aveva mai sentito parlare di un Fronte della Resistenza delle Isole Molucche. In ogni caso, i colleghi parigini ritenevano poco plausibile che un movimento del genere – semmai esistesse – fosse in grado di mettere in atto una qualunque azione sul territorio francese, dove non aveva alcun aggancio noto alle forze dell’ordine. Il dst si sarebbe comunque messo in contatto con il controspionaggio olandese. E l’interlocutore di riferimento a Perpignan sarebbe stato Lefèvre.

«Siamo a un punto morto. La nostra unica pista è questo BW, il famoso cliente. Magari è lui il suo amico misterioso».

Sebag replicò bruscamente:

«Nessuno dei miei amici si diverte a rapire ragazze».

«Scherzavo, Gilles, scherzavo» si scusò Castello. «Quelle iniziali non le dicono davvero nulla?».

«Niente di niente».

Avendo notato l’irritazione di Sebag, il commissario volle concludere la conversazione su un tono più simpatico.

«Come va a casa?».

«Tutto bene, grazie. I ragazzi sono in vacanza. C’è un po’ di tranquillità, che non guasta».

«Se vuole un consiglio, amico mio, non sprecate questi momenti. Lei e Claire vi riscoprirete innamorati. È un momento prezioso. Una nuova luna di miele».

Sebag non rispose. Non era amico suo e non voleva consigli. Non c’era nulla di peggio di un capo che voleva giocare a fare il consulente di coppia. Soprattutto se il matrimonio del capo, da parte sua, era miseramente fallito.

 

2 «No. Ho lavorato tutta la notte».

3 «Un caffè, come al solito?»

4 «Buon appetito!»