17.

 

Alle sei del mattino Sebag scivolò silenziosamente fuori dal letto, lasciando Claire a dormire ancora un po’. Indossò una tuta. Durante la notte c’era stato un temporale. L’aria era umida, il vento più fresco. Prima di colazione corse un’oretta nella campagna. In lontananza i primi raggi di sole asciugavano la cima del Canigou.

Ripensò al colloquio privato che aveva avuto con Lefèvre la sera precedente, prima di lasciare il commissariato. L’interrogatorio si era svolto senza incidenti. Il giovane poliziotto aveva fatto degli sforzi: non aveva lesinato nell’esprimersi con circospezione affinché la conversazione non avesse l’aria di un interrogatorio, ma era risultato falso per la maggior parte del tempo. Anche Sebag aveva mostrato buona volontà. Dovevano riuscire a sopportarsi per il tempo necessario all’indagine.

Purché non durasse troppo.

Tornando a casa si fermò in una panetteria per comprare due baguette.

Preparò la colazione in terrazza. Una grande tazza di caffè nero per sé, una tazza e una bustina di tè per Claire. Pane, burro, miele. Il vasetto di marmellata di fragole stava per finire. Aggiunse una voce alla lista della spesa. Se ne sarebbe occupata Claire in mattinata.

Accese la radio. Quella prima settimana di luglio si annunciava tranquilla in Francia e nel mondo: i primi incendi boschivi in Costa Azzurra, gli eterni consigli sulla viabilità, i tradizionali controlli igienico-sanitari per ristoranti e specchi d’acqua. La routine estiva. Più qualche autobomba a Baghdad. Nulla di cui turbare la serenità dei vacanzieri.

Stava guidando tranquillamente verso il commissariato quando con lo sguardo intercettò una locandina appesa alla vetrina di un’edicola. Un titolo del quotidiano Le Parisien-Aujourd’hui en France gridava a caratteri cubitali:

 

PERPIGNAN: IL SERIAL KILLER DELLE OLANDESI

 

Fermò la macchina in doppia fila e scese, indifferente alle bordate d’insulti di cui lo sommersero gli altri automobilisti infastiditi.

«Stanno andando via come il pane» gli confidò soddisfatto il giornalaio.

Risalì in macchina e si spostò di qualche decina di metri per parcheggiarsi meglio. Non c’era niente su Perpignan in prima pagina, ma trovò l’articolo a pagina 4.

Il corrispondente regionale del quotidiano aveva messo insieme tre fatti di cronaca che si erano verificati di recente nel dipartimento. L’assassinio di una giovane olandese di ventitré anni sulla spiaggia di Argelès a metà giugno; l’aggressione di una studentessa di diciannove anni, anche lei olandese, due notti prima per le strade di Perpignan; e infine la scomparsa, giudicata sospetta, di una terza ragazza – si trattava con tutta evidenza del caso Raven, anche se non veniva fatto alcun nome. L’articolo sottolineava diverse analogie fra i tre casi, soprattutto tra gli ultimi due, tanto che descriveva l’aggressione avvenuta a Perpignan come un “tentativo fallito di rapimento”. Il giornalista evitava abilmente di concludere che esistesse un aggressore seriale, ma lasciava più che intuire una tale ipotesi.

 

Al commissariato di Perpignan erano in atto grandi manovre.

«Il commissario la aspetta in sala riunioni» gli annunciò Martine all’ingresso. «È già su con il poliziotto di Parigi e un altro di Montpellier».

Nella sala riunioni al terzo piano il climatizzatore ronzava. Un miracolo. Sebag scelse un posto lontano dal marchingegno. Castello gli passò un fascicolo: la deposizione di Anneke Verbrucke, la studentessa aggredita a Perpignan.

«Aspettiamo da un momento all’altro una sintesi della squadra ricerche della gendarmerie che si sta occupando del caso di Argelès» gli spiegò il commissario.

Ménard era già immerso nella lettura. Aveva sottolineato con l’evidenziatore giallo i passaggi che gli sembravano importanti. Entrò anche Llach, e si vide recapitare il suo pacchetto di fogli.

Già dalle prime righe Sebag capì che Anneke Verbrucke era la ragazza che aveva incrociato in lacrime la notte prima nei corridoi del commissariato. Aveva sporto denuncia per aggressione, e non per tentato rapimento. La giovane donna era stata aggredita da un individuo incappucciato nei pressi dell’università verso le tre del mattino. Stando al verbale, era stata minacciata con un coltello alla gola. L’uomo le aveva ordinato di salire a bordo di una macchina, ma la Verbrucke era riuscita a sfuggirgli. Arrivata sul posto, la pattuglia della squadra anticrimine non aveva trovato traccia dell’aggressore né alcun testimone. Il soggetto doveva essere alto circa un metro e ottanta e di corporatura snella. Questi i soli elementi di identificazione che la vittima aveva potuto fornire. In altre parole: niente.

Il verbale era redatto come ogni verbale di ogni commissariato del paese. A prima vista, sembrava sobrio e preciso, informativo. Ma Sebag non vi aveva trovato nulla di ciò che riteneva indispensabile. La vita! Nei verbali la realtà sembrava centrifugata, filtrata attraverso un colino e poi risputata fuori in maniera preconfezionata. Ogni volta che ne leggeva uno Sebag pensava a quella frase di Alfred Sauvy in merito alle statistiche: “Sono come i bikini: si crede che mostrino tutto, ma nei fatti nascondono l’essenziale”.

Lambert e Molina entrarono e salutarono a mezza bocca. Castello si era assentato e Sebag non aveva ancora visto gli altri due poliziotti che Martine gli aveva annunciato. Lambert e Molina presero il loro fascio di fogli e si misero a leggere.

Qualche minuto dopo Castello fu di ritorno. Con un nuovo fascicolo tra le mani e Lefèvre alle calcagna, vestito impeccabilmente con un completo color antracite. Seguiva un ispettore del Servizio regionale della polizia giudiziaria di Montpellier che Sebag aveva già incrociato a più riprese. Si chiamava Petit, Bernard Petit, e indossava la giacca color grigiastro degli sbirri che lavorano sul campo.

I tre lasciarono ai colleghi il tempo di prendere conoscenza del rapporto dei gendarmes sull’omicidio di Argelès. Chiacchieravano a bassa voce. Jeanne, la segretaria di Castello, portò il caffè. Mise tre tazze sul tavolo. Indossava una gonna corta. Le gambe abbronzate danzavano tra i tavoli. I polpacci erano perfettamente torniti, le cosce sode e muscolose. La temperatura salì di un paio di gradi. Jeanne riempì le tre tazze con lentezza, sembrava non rendersi conto del subbuglio che provocava.

Dopo che fu uscita il movimento delle sue gambe aleggiò ancora nella stanza, prolungando la ricreazione di qualche istante. Il suo profumo vanigliato scomparve lentamente lasciando il posto a un delizioso aroma di caffè secco e forte.

Il corpo di Josetta Braun, ventitré anni, era stato ritrovato in un canneto nei pressi della riserva del Mas Larrieu il 17 giugno verso le cinque del mattino. Era stato un passante mattiniero, un pensionato in villeggiatura in un campeggio lì vicino, a scoprirlo. La ragazza aveva il cranio fracassato a colpi di pietra. Tre colpi, secondo il medico legale: uno sulla bocca, due sulla tempia destra. Una pietra macchiata di sangue e con resti di cervello era stata rinvenuta a una decina di metri dal corpo. Gli inquirenti avevano rilevato la chiara impronta di un pollice. Il rapporto precisava che non era stato comunicato alla stampa nessun dettaglio riguardante l’arma del delitto o l’impronta. L’omicidio era avvenuto alcune ore prima della scoperta del cadavere, probabilmente tra le ventitré e mezzanotte. La ragazza era stata uccisa sul posto. Il torso era seminudo, non portava slip sotto la gonna, ma non era stata violentata. Non aveva avuto alcun rapporto sessuale nelle ore precedenti la morte.

Josetta Braun era arrivata nel campeggio Lauriers Roses di Argelès il 5 giugno. Viaggiava da sola ma, stando alle dichiarazioni dei proprietari del campeggio, non passava molte notti da sola nella sua tenda.

I gendarmes avevano interrogato i giovani che avevano frequentato Josetta dal suo arrivo in Francia. L’impronta di pollice rilevata sulla pietra non apparteneva a nessuno di loro. In assenza di altre piste, i gendarmes avevano privilegiato l’ipotesi di un delitto commesso da un vagabondo. Ne avevano interrogati alcuni, ma il confronto con le impronte non aveva rivelato nulla neanche in quel caso. Erano stati tutti rilasciati. Visto che le indagini brancolavano nel buio, era stato pubblicato un appello sui giornali affinché eventuali testimoni si facessero avanti. Senza esito. Le indagini proseguivano, affermavano i gendarmes alla fine del rapporto. Un eufemismo per dire che si era a un punto morto. La famiglia era venuta a riprendersi il corpo: Josetta era stata seppellita il 27 giugno in Olanda.

Sebag sapeva che, a meno di sorprese, l’indagine non sarebbe ripartita. I gendarmes avevano molto da fare l’estate ad Argelès. Da meno di diecimila abitanti fuori stagione, la popolazione nel periodo estivo toccava le centomila unità. I turisti si distribuivano in una sessantina di campeggi, cosa che era valsa al comune il titolo, non necessariamente ambìto, di “capitale europea del turismo all’aria aperta”. Dopo diversi episodi spiacevoli provocati all’inizio degli anni Novanta da alcuni giovani di banlieue in vacanza al mare, Argelès riceveva ogni estate rinforzi sotto forma di una compagnia mobile di gendarmes. Nonostante questo sostegno, gli sbirri del posto non potevano dedicarsi ad altri compiti oltre il mantenimento dell’ordine.

Sebag aveva terminato la lettura e restava perplesso. Difficile individuare un nesso fra quei tre casi. Un omicidio, un rapimento, un’aggressione. Anche ammettendo di riconsiderare quest’ultima come un tentato rapimento, non vedeva alcuna possibile analogia a causa della mancanza di un modus operandi comune. Per quanto riguardava Ingrid Raven, il suo sequestro era stato effettuato in tutta tranquillità in un luogo isolato e sembrava essere stato preparato con almeno qualche giorno d’anticipo. Nel caso di Anneke Verbrucke, se tentato rapimento era stato, si era verificato in pieno centro città e in maniera improvvisata. Fatta eccezione per la nazionalità delle tre vittime, Sebag non vedeva come si potesse stabilire un serio collegamento tra i vari casi.

Il mormorio delle conversazioni lo distolse dai suoi pensieri. I colleghi avevano finito di studiare i fascicoli e si scambiavano i loro pareri. Con un gesto della mano il commissario pose fine alle conversazioni private.

«Signori, avete appena letto i rapporti sui tre casi di cui adesso ci dovremo occupare. Vorrei sapere le vostre impressioni».

La domanda era formulata in maniera aperta. Castello non si sbilanciava.

«Quando dice che ci dovremo occupare di questi tre casi, intende dire che la polizia prenderà ufficialmente in mano l’omicidio di Argelès? La gendarmerie è stata esclusa dalle indagini?».

Era stato Llach a porre la domanda. Sempre più che pignolo sulle prerogative di ognuno.

«Assolutamente no» rispose Castello. «Non abbiamo i mezzi per seguire tutto».

Si tirò leggermente indietro con la sedia per mettere in mostra i suoi due vicini.

«Anche se abbiamo avuto rinforzi da Parigi e da Montpellier, non possiamo combattere su tutti i fronti. Per noi la priorità resta il rapimento di Ingrid Raven. Lavoreremo sugli altri due casi solo finché non avremo scartato la possibilità di un collegamento».

«È un’ipotesi ufficialmente accreditata, quindi?».

Sebag aveva preso la parola senza riflettere. In realtà non gli andava di essere il primo a esprimersi sulla questione.

«Per il momento sì» confermò Castello. «Non possiamo permetterci di ignorarla. Tra l’altro è questo il senso della riunione odierna».

Sebag sospirò.

«La cosa le crea problemi?» intervenne Lefèvre.

«No, assolutamente. Se abbiamo tempo da perdere...».

Sebag si morse le labbra. Non voleva mostrarsi aggressivo. La tregua con Lefèvre si stava rivelando molto fragile.

«Lei non crede all’esistenza di un legame?» chiese Castello.

Sebag gettò uno sguardo alla finestra. Il vento aveva cacciato via le nubi, il cielo era tornato limpido ovunque. Si ricordò di quando aveva provato a insegnare a Léo qualche accordo di chitarra. Rammentava la difficoltà di cercare le parole per spiegargli come accordare lo strumento. La nota è giusta oppure non lo è. L’orecchio la sente oppure no. A che servono le parole? Quel giorno era la stessa cosa. Sentiva un mezzo tono abbondante di scarto tra il rapimento di Ingrid e l’aggressione a Perpignan. Quanto all’omicidio di Argelès, apparteneva a tutta un’altra scala musicale. Ma come esprimere quella sensazione?

Tutti gli sguardi erano puntati su di lui. Quello di Lefèvre aveva ritrovato il suo scintillio ironico. Sebag non poteva limitarsi a condividere le sue sensazioni. Doveva costruire nel giro di qualche secondo un’argomentazione solida. Prese un respiro profondo.

«C’è un evidente elemento comune fra i tre casi: le vittime sono giovani donne di nazionalità olandese. Punto. Anzi, punto e basta. Non sembra esserci nulla di paragonabile nel modo in cui si sono svolte le aggressioni, e le ragazze non hanno nemmeno subìto lo stesso tipo di violenza».

Brutto esordio. Non gli piaceva quel tono categorico. Di norma, sapeva modulare meglio le frasi.

«Che cosa le permette di dire che non si tratta dello stesso tipo di violenza?» chiese Lefèvre.

L’arroganza di Lefèvre lo irritava, ma non voleva una guerra. Gettò uno sguardo ai colleghi: nessuno sembrava deciso a prendere la parola. Anzi, attendevano che restituisse il colpo.

«Una è morta, l’altra è stata rapita e la terza è sana e salva» rispose alla fine.

«Anneke è viva e Josetta è morta, su questo siamo tutti d’accordo» concesse Lefèvre. «Ma Ingrid? Chi può affermare che oggi non si trovi in un qualche fosso col viso fracassato da una pietra?».

«L’omicidio di Josetta Braun è una selvaggia aggressione che assomiglia a un raptus di follia. Niente a che vedere con le capacità organizzative di cui ha dato prova il rapitore di Ingrid Raven».

«Magari abbiamo imboccato una strada sbagliata riguardo a questo caso» replicò Lefèvre. «Forse non si tratta di un rapimento premeditato e organizzato dal cliente di José Lopez, il famoso BW che avrebbe pagato tremila euro per le prestazioni di Ingrid. Non possiamo scartare l’ipotesi che un assassino, un criminale seriale sia passato da quelle parti».

«Nel caso di Argelès, il corpo di Josetta è stato lasciato sul posto» replicò Sebag. «L’assassino avrebbe dunque agito diversamente per Ingrid? E Lopez, che fine fa in questo scenario?».

Lefèvre si girò verso Castello.

«I dintorni dell’eremo di Força Réal sono stati ispezionati a dovere?».

«Due volte. Una prima volta in maniera sommaria, dopo la scoperta del taxi di Lopez, e una seconda più accuratamente, dopo che abbiamo messo in relazione la scomparsa di Lopez con quella di Ingrid Raven. Posso chiedere ai gendarmes di fare una terza ispezione allargando l’area delle ricerche».

«Sarebbe opportuno».

Rivolgendosi di nuovo a Sebag, Lefèvre riprese:

«È ingenuo pensare che un omicida seriale agisca sempre nella stessa maniera. Questo vale solo se il criminale in questione è uno psicopatico grave».

“Ingenuo”... L’aggettivo suonava quasi insultante.

«E poi, tre giovani olandesi vittime di violenza in meno di quindici giorni nel vostro dipartimento... La cosa vi avrà sicuramente messo in allarme, no?».

Sebag lasciò passare qualche istante, tuttavia i colleghi ancora non si decidevano a intervenire.

«In tutta franchezza, no. Non conosco il numero esatto di olandesi attualmente in vacanza nella regione, ma a mio avviso saranno diverse migliaia. Se prendiamo in mano i registri degli ultimi quindici giorni del commissariato e di tutte le gendarmeries del Roussillon, troveremo altri reati commessi ai loro danni: aggressioni, stupri, un qualche illecito, che so, furto di carte di credito, scippi...».

Le parole di Sebag s’erano fatte più rapide, il tono era diventato più aggressivo. Forse perché Lefèvre continuava a sorridere. Ménard prese la parola per salvare capra e cavoli.

«Nel discorso di Gilles ci sono diversi elementi da prendere sul serio. Dovremo esaminare più attentamente tutte le denunce del mese scorso. Forse ne troveremo altre riguardanti cittadini olandesi. Se sono molto numerose o di non particolare interesse, andremo nella direzione indicata da Gilles. Se ne dovessimo scoprire un paio di maggiore entità, questo potrebbe confermare l’ipotesi dei crimini seriali. E potrebbe fornirci ulteriori informazioni sull’eventuale autore. Una sorta di identikit, perché no?».

Castello approvò.

«François, se ne occuperà lei, allora».

Dal fondo della sala Llach prese la parola.

«E che ne è della pista dei terroristi? È stata messa da parte?».

«Non è mai stata presa sul serio» gli rispose Castello. «Né a Parigi né nei Paesi Bassi».

«E la rivendicazione? Cosa dobbiamo pensare, allora? Di fatto abbiamo la prova che gli autori della lettera tengono prigioniera la ragazza».

«Quella rivendicazione effettivamente ci dà da pensare. Devo dire che non sappiamo bene come considerarla».

«Ciò significa che è fuori discussione pagare il riscatto richiesto?».

Castello sospirò.

«Centocinquanta milioni, Joan, lei si rende conto dell’entità della somma».

La discussione proseguì per un quarto d’ora ancora. E ben presto tornò sulla questione del nesso fra i tre casi. Si formarono due fazioni. Molina mostrò uno scetticismo solidale con Sebag. Raynaud e Moreno si allinearono alla tesi difesa da Lefèvre e anche da Ménard. Castello non si pronunciò, e nemmeno Llach e Lambert. Al di là delle argomentazioni degli uni e degli altri, Sebag ebbe la sensazione che i colleghi temessero soprattutto di tralasciare qualcosa di importante. Di favoloso. Tutti gli sbirri un giorno o l’altro hanno sognato di dover affrontare un serial killer. Di giocare con i grandi.

Era bastato un articolo di giornale per cambiare radicalmente l’orientamento dell’indagine. Chi è che prima aveva parlato di ingenuità?

Il commissario concluse distribuendo i compiti. Le piste intraprese nel quadro delle indagini sul rapimento di Ingrid Raven vennero mantenute: Llach e Lambert avrebbero continuato a cercare i negozi in cui erano state acquistate la carta e la busta utilizzate per la lettera di rivendicazione del rapimento; Raynaud e Moreno si sarebbero occupati ancora di rintracciare tutti i BW presenti nel dipartimento. Molina fu incaricato di recarsi ad Argelès per raccogliere altre informazioni sull’omicidio di Josetta Braun. Infine, Castello domandò a Sebag di riprendere in mano le indagini sull’aggressione di Perpignan.

«Ho notato diverse lacune nel lavoro della squadra anticrimine. Bisogna riesaminare tutto con metodo e serietà. Conto su di lei».

Era un complimento camuffato, il suo modo di far sapere a Sebag che il commissario non lo rinnegava affatto. L’ispettore apprezzò quell’attenzione.

 

«Che succede con Kevin Costner?».

«Con chi?».

Jacques si divertì al suo stupore.

«Kevin Costner».

Sebag sgranò gli occhi. Erano tornati nel loro ufficio ed erano a quattr’occhi. Molina sorseggiava del caffè nero guardandolo da sopra l’orlo della tazza. Sebag non capiva perché mai all’improvviso gli stesse parlando di cinema.

Jacques decise che si era divertito abbastanza alle spalle del collega.

«Non trovi che Lefèvre abbia un qualcosa di Kevin Costner?».

Jacques era un asso nel trovare somiglianze, sia per quanto riguardava i volti che le voci.

«Dici? Se vuoi sapere come la vedo, penso che abbia soprattutto un qualcosa da vera faccia di culo».

Pensandoci, però, trovò che Jacques non aveva poi tutti i torti. Un viso volitivo e dolce pieno d’energia trattenuta, occhi azzurri sotto sopracciglia dritte, una figura alta e slanciata. I due uomini sembravano albergare una determinazione fuori dal comune, una qualità che Sebag riteneva seducente in Costner, ma quasi presuntuosa in Lefèvre.

«Cos’è che non ti piace di lui?» insisté Molina.

«Non mi è piaciuto il suo ultimo film».

«Sto parlando di Lefèvre».

«Anch’io. La trama è debole, la sua interpretazione una caricatura. A parte questo, non ho granché da rimproverargli. Se la tira un po’, certo, ma del genere “poliziotto parigino in missione tra i campagnoli” ne abbiamo visti di peggio».

Jacques annuì: avevano gli stessi ricordi.

«E allo stesso tempo» continuò Sebag, «non appena parla e qualunque cosa dica, a me viene voglia di dissentire».

«Pensi davvero che i casi di cui ci stiamo occupando non abbiano niente in comune tra loro?».

«Sì, è una pista sbagliata, secondo me. E tu che ne pensi?».

«Non lo so. È vero che la cosa sembra abbastanza tirata per i capelli, ma allo stesso tempo...».

«Allo stesso tempo, cacchio, un serial killer a Perpignan sarebbe una bella storia, no?».

«No, non è questo, credo. Tu lo sai, a me la routine sta benissimo. Però penso che non sia il caso di farsi sfuggire qualcosa di grosso. T’immagini? Se mai ci fosse un responsabile comune per tutti e tre i casi e noi rinunciassimo a seguire questa pista quando perfino la stampa l’ha ipotizzata, faremmo veramente la figura dei coglioni».

«Capisco, sì. Ora più che mai, dunque, bisogna mettere in pratica il famoso detto...».

«Ho paura di quello che stai per dire...».

«“La prudenza è la madre delle sicurezze”. In questo caso, della pubblica sicurezza».

«Be’, sì. Non lo conoscevo questo proverbio».

«Ok, la prossima volta mi metterò al tuo livello».

Molina fece finta di lanciargli dietro il telefono, ma si accontentò di sganciare la cornetta per chiamare i gendarmes di Argelès.

In fin dei conti Sebag non era poi così fiero del suo proverbio. Decisamente non era la sua giornata.