24.

 

Riuniti nella sala al terzo piano, i poliziotti ascoltavano i risultati dell’autopsia direttamente dalla voce del medico legale. Nei polmoni di José Lopez, gonfi come otri, era stata rinvenuta acqua mista a fango; nello stomaco, birra scura e una dose massiccia di sonniferi. Il corpo del tassista non recava tracce di violenza, a parte un livido sulla nuca con l’impronta delle dita. Il medico legale aveva riscontrato anche alcune chiazze rossastre sotto le braccia.

«L’assassino ha fatto bere alla vittima una birra contenente un potente sedativo» spiegò il dottor Roger. «Una volta che la vittima si è addormentata, l’ha annegata tenendole la testa sott’acqua con la mano destra. Il segno è visibile, ma non molto pronunciato. Penso che la vittima si sia svegliata, ma troppo tardi per opporre davvero resistenza. L’annegamento è avvenuto in un laghetto o in uno stagno. Le tracce in prossimità delle ascelle indicano che il corpo è stato spostato subito dopo il decesso. Visto che non vi sono tracce simili sulle caviglie, possiamo concludere che sia stata una sola persona a rimuovere il corpo post mortem».

«Il cadavere in effetti è stato trascinato» confermò Jean Pagès. «Ho rilevato segni d’usura non convenzionali sulla parte posteriore delle scarpe. L’assassino ha afferrato Lopez sotto le braccia e l’ha trascinato».

«Le gambe della vittima sono state bloccate in posizione fetale» aggiunse il medico legale. «Secondo i miei calcoli, il corpo è stato conservato in un congelatore lungo meno di un metro e mezzo».

Il medico legale stimava anche che il decesso risalisse a una settimana prima, dieci giorni al massimo. Non poteva essere più preciso perché il congelamento falsava i parametri. In compenso era certo che il corpo fosse stato tirato fuori dal congelatore la notte precedente alla scoperta.

Il medico raccolse i suoi appunti e si sforzò di sorridere. Era un ometto minuto e timido in cui solo il sistema pilifero era capace di audacie: lunghi peli scuri uscivano in ciuffi selvaggi dalle narici e dalle orecchie.

«Vorrei innanzitutto ringraziare il dottor Roger per essere venuto di persona a illustrarci i risultati dell’autopsia» disse poi il commissario Castello. «So che non ama parlare in pubblico, ma questo ci ha permesso di guadagnare tempo prezioso. Domani troverete sulle vostre scrivanie il rapporto completo, redatto e approvato».

Il dottor Roger annuì fissandosi le unghie sporche. Sebag non osava immaginare quale sostanza potesse averle annerite così. Aveva già potuto constatare che, contrariamente alle più elementari norme igieniche, il medico legale non indossava guanti durante le autopsie.

Il commissario si voltò verso Pagès.

«Qualcos’altro da aggiungere?».

«Non molto. I vestiti rinvenuti sul cadavere sono quelli che Lopez indossava il giorno della scomparsa. Possiamo dunque ritenere che sia stato ucciso molto presto».

Castello annuì con decisione.

«La principale conclusione che voglio trarre da questi primi elementi è rassicurante» fece. «Lopez era morto da tempo e il corpo era già sotterrato a Força Réal quando è iniziata la nostra macabra caccia al tesoro. Il rapitore ha voluto darci l’impressione di punirci per non aver portato il riscatto richiesto, ma in realtà era solo una manovra diversiva. Era stato tutto pianificato. A quale scopo? A parte farci girare inutilmente in tondo, non ne vedo altri...».

Sebag approvò l’idea avanzata dal commissario. Già il giorno prima Castello l’aveva involontariamente messo su una pista. In merito al borsone, aveva detto qualcosa del tipo «Bisogna stare al gioco».

«La seconda conclusione» proseguì Castello, «concerne il ruolo di Lopez. Se si può ipotizzare che abbia partecipato come complice al rapimento di Ingrid Raven, oggi è chiaro che anche lui è una vittima del rapitore. Come avrete notato, ho detto “del”, perché ritengo che adesso possiamo affermare che il rapitore agisce da solo. E questa è la mia terza conclusione. C’è altro, secondo voi?».

Il commissario aveva appena dato il via alla tradizionale seduta di brainstorming. Gli ispettori afferrarono il messaggio. Sapevano che quando il capo faceva appello alla loro immaginazione non bisognava esitare a lanciarsi. Le idee più folli non erano mai derise. Solo il silenzio veniva visto male.

«José Lopez conosceva l’assassino» iniziò Llach. «Abbastanza da aver voglia di bere la birra che lui gli ha offerto».

«L’assassino deve possedere un camioncino o una station wagon» continuò Molina. «Il corpo congelato di Lopez non sarebbe mai entrato nel bagagliaio di una macchina normale».

Il medico legale abbozzò un gesto di diniego, ma Ménard rispose prima di lui.

«Non è detto. Il dottor Roger ci ha detto che il corpo ripiegato su se stesso è stato probabilmente tenuto in un congelatore di circa un metro e mezzo. Dunque poteva entrare nel bagagliaio di una berlina, no, dottore?».

«Sì, ha ragione» disse il medico. «Potrebbe essere stato sufficiente il bagagliaio di una macchina grande».

«Comunque sia» insisté Molina, «è più semplice tirare fuori un corpo congelato da una station wagon piuttosto che dal bagagliaio di una berlina. Non c’è bisogno di sollevarlo».

«Soprattutto se l’assassino ha agito da solo» disse Moreno con voce appena udibile.

Ora toccava a Castello prendere appunti. Scrisse tutte le idee espresse, riservandosi il diritto di escludere in seguito quelle meno pertinenti e riportare la discussione sulle altre.

Fino a quel momento assente, Lefèvre fece il suo ingresso nella stanza con un sorriso contento sulle labbra e un fax nella mano destra. Indossava pantaloni di tela blu marine e una polo gialla ornata del famoso coccodrillo verde. Non dev’essersi portato una valigia, si disse Sebag, ma un vero e proprio baule per dare ogni giorno l’impressione di partecipare a una sfilata. No, in fin dei conti Claire si sbagliava: mai, nemmeno agli inizi, Sebag era stato minimamente simile a quel... Kevin Costner.

Lambert si inserì.

«Si tratta di un uomo, ehm, probabilmente abbastanza forte. Ha dovuto portare di peso Lopez, a più riprese».

«Deve abitare in una proprietà grande» fece Raynaud. «Abbastanza grande da disporre di un laghetto, abbastanza isolata da potervi annegare qualcuno senza rischiare di essere visto».

«La casa deve avere una cantina» proseguì Moreno. «È la stanza più comoda per tenere prigioniero qualcuno».

«Magari possiede un secondo congelatore» fece Molina.

La sua cinica affermazione mise momentaneamente fine al fuoco di fila dei suggerimenti, e malgrado il caldo un brivido percorse gli ispettori. Il viso congelato di Lopez aleggiava ancora nelle loro menti, con quei ghiaccioli che gli sfondavano gli occhi e le stalattiti che uscivano dalle narici. Se lo erano sognato tutti, la notte precedente, e qualcuno l’avrebbe sognato ancora a lungo.

Dopo qualche istante di silenzio, Ménard chiese nuovamente la parola.

«A proposito... la domanda mi tormenta da ieri sera e suppongo di non essere il solo a farmela: perché scegliere di congelare il corpo?».

«Perché quel tizio è fuori di testa» fece Llach in tono perentorio. «Non vedo altra spiegazione».

«Magari voleva mangiarselo più in là».

La battuta di Molina ebbe lo stesso scarso successo della precedente. Nessuno si sprecò a fare un sorriso, ma al tempo stesso nessuno si adirò per questa mancanza di buon gusto: ciascuno gestiva le angosce a modo suo.

«In genere, quando si congela qualcosa è per conservarlo» fece notare Moreno.

«Ma perché voler conservare il corpo?» insisté Ménard.

Stavolta fu Sebag a rispondere.

«Per potercelo restituire a tempo debito. Era l’unico modo per trasportarlo in condizioni ancora decenti una quindicina di giorni dopo l’omicidio».

Molina picchiettava nervosamente sul tavolo con la penna che teneva come una sigaretta. Sebag appoggiò la mano su quella del compagno di squadra per farlo smettere.

«Durante la stringata relazione del commissario, ho preso nota di due cose che mi sono sembrate particolarmente interessanti».

Diede una rapida scorsa ai suoi appunti.

«Lei ha detto innanzitutto – cito parola per parola, commissario – che “tutto era pianificato”. Anch’io la penso così: il rapitore segue un piano che solo lui conosce. Poi, si è chiesto se il principale scopo di tutta la sua manovra non fosse quello di farci girare a vuoto. Sono propenso a credere che effettivamente sia questo il senso dell’intera messinscena».

«Lei ha una teoria...» disse Castello sorridendo.

Cento volte Sebag s’era rigirato la domanda nella testa, durante la notte appena trascorsa. Alla fine aveva trovato quella che gli sembrava la giusta prospettiva sul caso. Tutto cominciava a quadrare. Era stato abbastanza contento di sé, ma quella sua convinzione doveva prima passare il vaglio della luce del giorno, poi quello della critica. Sapeva che le elucubrazioni potevano sembrare fenomenali nel chiuso del proprio cervello e invece crollare come un castello di carte al primo commento.

«Secondo me, non è un caso che tutta la faccenda sia particolarmente contorta».

Si prese qualche secondo per riflettere, in modo da esprimere i propri pensieri nella maniera più chiara possibile.

«Strambe rivendicazioni in nome di organizzazioni terroristiche straniere e la richiesta di una somma esorbitante in biglietti di piccolo taglio, quindi una sorta di caccia al tesoro da Perpignan a Força Réal passando per Argelès, per poi farci arrivare finalmente dove aveva deciso di portarci sin dall’inizio. Il rapitore sta giocando con noi. Di fatto sta alzando delle cortine di fumo al solo scopo di confonderci. Credo che si stia divertendo parecchio».

Un colpo di clacson interruppe il discorso. Il climatizzatore si era rotto di nuovo e i rumori della città entravano nella stanza attraverso la finestra aperta.

«Se il rapitore avesse voluto davvero ottenere un riscatto» riprese Sebag, «intanto avrebbe richiesto una somma ragionevole. Poi si sarebbe rivolto ai genitori di Ingrid, non certo alla polizia francese».

«Secondo lei, quindi, questa sarebbe una sorta di partita a scacchi?» chiese Lefèvre.

«La chiami come preferisce. Quella che sto esponendo è solo un’ipotesi di lavoro».

«E il rapitore dunque avrebbe scelto lei come avversario?».

Il tono di Lefèvre si era fatto canzonatorio. Il giovane commissario teneva il fax arrotolato come una pergamena e lo brandiva verso Sebag. L’ispettore preferì evitare di rispondere direttamente alla domanda.

«Ieri ci ha “regalato” il cadavere di Lopez. È una tappa. Ha ancora la ragazza, il gioco può continuare. Ribadisco, è solo un’ipotesi».

«E la prossima volta troveremo il corpo di Ingrid?» chiese Molina.

«Non per forza. Perché il gioco sia interessante bisogna che ci lasci una possibilità di vincere».

«Questo tizio è davvero malato, allora!» insisté Llach.

Lefèvre picchiettava il tavolo col fax sempre arrotolato. Sembrava esitare. Poi fece un gran sorriso.

«Negli ultimi giorni, se ben ricordo, lei affermava che l’omicidio di Argelès e l’aggressione di Perpignan non avevano nulla a che fare col rapimento di Ingrid. La giornata di ieri le ha dato torto e oggi, nonostante tutto, lei sta proponendo una nuova teoria».

Tutti gli sguardi si puntarono su Sebag. I colleghi attendevano con interesse delle spiegazioni. Il percorso dettato dal rapitore il giorno prima li aveva definitivamente convinti che avevano a che fare con un criminale seriale.

«Non penso che la giornata di ieri mi abbia dato torto».

Sebag aveva riflettuto molto anche su questa questione ed era arrivato a conclusioni soddisfacenti che però avrebbe preferito tenere per sé, almeno per il momento. Il sorriso beffardo di Lefèvre gli fece perdere qualunque cautela.

«Anzi, direi il contrario».

Il giovane poliziotto si mostrò stupito.

«Lei appartiene alla categoria degli audaci, per non dire dei presuntuosi. Spero che acconsentirà a spiegarci».

«Quel che è successo ieri ha rafforzato le mie convinzioni. Penso che se ieri il rapitore ci ha portato sui luoghi degli altri due casi, è stato proprio per farci credere che tutto fosse collegato. Per confonderci definitivamente. Per gioco».

«E dunque saremmo vittime di altre cortine di fumo?».

«Penso di sì».

«E come poteva sapere di boulevard Poincaré e del campeggio Lauriers Roses?».

«Era tutto sui giornali» disse Sebag credendo di trionfare. «Non ha dovuto far altro che seguire le elucubrazioni di un giornalista. La serie di reati contro le olandesi... si dev’essere divertito parecchio».

«Lei è proprio sicuro di sé...». Il sorriso di Lefèvre si fece ironico.

«No, non sono sicuro di me» rispose Sebag. «Ho un’ipotesi e la sviluppo. Cerco di vedere se tutti gli elementi possono rientrare nel quadro di quest’ipotesi».

«E funziona?».

«Si direbbe di sì».

Sebag sentì improvvisamente di essere appena caduto in trappola. Lui, di norma così misurato, si era lasciato trascinare allo scoperto.

«Si direbbe di sì!» ripeté Lefèvre ridacchiando.

Sebag trattenne il respiro mentre Lefèvre spiegava lentamente la sua pergamena. Il giovane poliziotto parigino appoggiò il fax sul tavolo e vi passò più volte la mano sopra nel tentativo di lisciarlo. Fino ad allora aveva evitato di guardare Sebag. In quel momento sollevò gli occhi e li inchiodò in quelli dell’ispettore.

«Stamattina mi sono permesso di chiamare Anneke Verbrucke e di chiederle quale fosse il suo gruppo sanguigno. Avevamo stupidamente dimenticato di farlo. Ebbene, s’immagini, è b positivo, come il sangue ritrovato sul secondo messaggio che ci ha mandato il rapitore. Questo rientra sempre nel quadro della sua... teoria?».

Sebag non rispose. Non aveva visto arrivare il colpo, ma sapeva che stava per arrivarne un altro. Il fax che Lefèvre tentava ancora di lisciare non erano analisi del sangue, ma un tabulato telefonico. Molina reagì al posto suo.

«Dubito che Anneke Verbrucke sia l’unica persona con gruppo b positivo».

«Solo l’8 percento della popolazione appartiene a questo gruppo» rispose Lefèvre senza smettere di guardare Sebag.

«Abbastanza perché si possa trattare di una coincidenza» insisté Molina.

«Sì, è vero» parve concedere Lefèvre. «C’è una possibilità su dodici che sia una coincidenza».

«Non è trascurabile» fece notare Molina, nonostante fosse disorientato dall’improvviso mutismo del collega.

«No, ha ragione, non è trascurabile».

Il giovane poliziotto ripassò la mano sul foglio spiegazzato.

«Ho un’altra informazione da comunicare. Ancora una coincidenza, forse, ma lascerò a lei il compito di calcolarne la probabilità. Ho chiesto a France Télécom il dettaglio delle chiamate effettuate nella notte tra il 4 e il 5 di luglio dal bar in cui Anneke stava bevendo in compagnia dei suoi amici».

«Non sapevo nulla di questa richiesta» protestò Castello.

«La prego di scusarmi, commissario» replicò Lefèvre con manifesta ipocrisia. «La volontà di essere efficaci talvolta impone delle scorciatoie».

«Delle infrazioni, vorrà dire».

«Meglio delle infrazioni che degli errori gravi. Perché ho trovato una cosa molto interessante: una chiamata al commissariato nello stesso orario in cui l’agente Ripoll riceveva la telefonata anonima».

Sebag ebbe una vampata improvvisa. Un rivolo di sudore gli corse lungo la schiena. Aveva capito di quale errore parlava Lefèvre. E sapeva che era stato lui a commetterlo. Eppure aveva scritto nel suo quadernetto che avrebbe dovuto verificare gli orari di quella famosa notte.

«Si spieghi meglio» disse Castello grattandosi furiosamente la punta del naso. «Come poteva immaginare che il rapitore avesse telefonato da quel bar?».

«Visto che non abbiamo potuto stabilire la provenienza della telefonata del rapitore a causa della centralina telefonica obsoleta, ho provato la strada inversa. Poiché il punto di arrivo non ci dava alcuna informazione utile, ho cercato i possibili punti di partenza. Ho spulciato tutti i rapporti, e sono incappato nell’interrogatorio condotto dall’ispettore Sebag ad Anneke Verbrucke. Vi si menziona che la ragazza aveva trovato sospetto il comportamento di un cliente del bar. A partire da questo, anch’io ho formulato un’ipotesi: mi sono detto che se il cliente era l’aggressore e se l’aggressore era anche il rapitore, per questioni di tempistica poteva aver chiamato solo da un cellulare o dal telefono del bar. Il seguito penso le sia chiaro...».

Lefèvre brandì davanti a sé il tabulato di France Télécom. Tutti gli occhi si distolsero dal fax per andare a puntarsi su Sebag. L’ispettore cercò invano un pertugio in cui nascondersi. Tentò di darsi un tono sostenendo lo sguardo tutt’altro che amichevole di Lefèvre.

«La conclusione mi sembra evidente» riprese il giovane commissario. «Rapimento, aggressione e omicidio, i tre casi sono collegati. Punto».

Sebag capì come può sentirsi un pugile suonato quando vede l’avversario alzare i guanti al cielo mentre l’arbitro decreta la fine dell’incontro. Guardò il pubblico e capì che anche i suoi sostenitori avevano gettato la spugna. Non aveva mai preso una cantonata tale in un’indagine.

I rumori della strada non riuscivano a scalfire il denso silenzio che regnava nella stanza. L’istante sembrò durare un’eternità. Sebag si asciugò le mani umide sui pantaloni. Poi Castello venne in suo aiuto cercando di ottenere perlomeno una vittoria ai punti.

«L’efficienza è una cosa, Cyril, ma la pregherei di non comportarsi più in questo modo. Per me non si tratta di una questione di procedura, ma di lavoro di squadra. Non va bene trafficare da soli in un angolino».

Fece una pausa e gettò un’occhiata furtiva in direzione di Sebag.

«E gradirei che le dispute personali venissero messe da parte una volta per tutte. C’è troppa tensione, per i miei gusti. Siamo adulti, comportiamoci come tali. È in gioco la vita di una ragazza».

«Questo è chiaro a tutti» dichiarò Lefèvre con fare mellifluo.

«Lo spero».

Castello congedò gli ispettori e restò solo con Lefèvre per fare il punto su come procedere con le indagini. Sebag sentiva che i giorni a venire sarebbero stati i peggiori della sua carriera.

 

I rami della palma tagliavano il cielo in sottili striscioline blu che il vento si divertiva a rimescolare. Un pettirosso cinguettava vicino al tronco, protetto da un fascio di spine più affilate di pugnali.

Gilles si era appena risvegliato da un pisolino all’ombra sulla sdraio.

Alla fine della mattinata una telefonata di Séverine gli aveva tirato un po’ su il morale. Le vacanze andavano bene. I genitori della sua amica Manon erano simpatici e lasciavano alle due ragazze parecchia libertà. Loro sfruttavano la possibilità senza abusarne, aveva garantito a suo padre. Progettavano di andare qualche giorno a PortAventura, un grande parco giochi nei pressi di Tarragona.

I fischi della vicina coprivano il canto degli uccelli. Chiamava spesso il suo gatto, da un paio di giorni a quella parte. Perlopiù invano. Perché il micio, sedotto dalla nuova calma che regnava in giardino, aveva scelto di passare l’estate nella proprietà di Sebag. Bisogna dire che vi trovava anche un piatto di latte che Gilles al mattino sistemava di soppiatto sotto la palma. Per una volta, i fischi sfiatati della vicina erano musica per le sue orecchie.

Si decise ad alzarsi. Aveva mal di testa.

Prima di riuscire ad addormentarsi, si era ripassato nella mente l’intero caso. Continuava a non capire. E in un angolo della sua testa una vocina insistente gli diceva che non si era sbagliato. Non del tutto.

Accanto alla sdraio aveva appoggiato la tazza. Vi era rimasto un fondo di caffè freddo. Lo bevve.

Claire era via da un giorno e mezzo. Non si aspettava sue notizie almeno per un po’. Le comunicazioni dalla nave erano care e lei non aveva voluto portare con sé il cellulare. Viaggiare significa cambiare orizzonti, affermava, e oggigiorno per cambiare orizzonte la prima cosa da fare è rompere il filo del telefono che ci lega senza sosta al nostro mondo familiare.

E va bene.

Gilles sperava comunque di ricevere una e-mail. Quel giorno o l’indomani. Claire gli mancava, ma allo stesso tempo era contento che fosse lontana. Avrebbe tentato di rassicurarlo, ripetendogli che era il migliore e che se c’era qualcuno in grado di risolvere quell’enigma, quel qualcuno era lui. Ci sono momenti in cui la fiducia dei nostri cari ci sostiene, altri in cui ci affossa ancora di più.

Riportò la tazza in cucina.

Aveva il pomeriggio libero, ma non sapeva come impiegarlo. Faceva troppo caldo per andare a correre. Fare un bagno e rilassarsi al sole? Forse era la cosa migliore.

E invece scelse di mettersi nello studio. Accese il computer e fece partire Age of Kings, il gioco preferito di Léo. Aveva capito le regole guardando il figlio e aveva cominciato a condividere quella passione. Una volta avevano preso in considerazione l’acquisto di un secondo computer per poter giocare insieme, ma poi Léo aveva trovato su Internet compagni migliori.

Gilles giocò fino alle cinque. A pranzo non aveva mangiato nulla e ora aveva un po’ fame. Addentò qualche pomodoro fresco e stappò una bottiglia di rosé.

Dopo quel pasto improvvisato si infilò il costume da bagno e si stese a bordo piscina con un bicchiere di vino a portata di mano. Il corpo e la mente si stavano ricoprendo di un languore appiccicoso. Non aveva voglia di fare nulla. Si sentiva stanco.

Stanco di tutto e di tutti.

Forse covava qualcosa.

Un raffreddore, un mal di pancia o un accenno di depressione.

Dopo la riunione del mattino, Castello l’aveva chiamato nel suo ufficio. Gli aveva dato il resto della giornata libera.

«Mi sembra affaticato» gli aveva detto. «Faccia una pausa e torni domani in piena forma».

Il tono era piuttosto amichevole, ma per Sebag si trattava né più né meno di una punizione. L’immagine di Cyril Lefèvre lo tormentava. Il loro rapporto era stato elettrico sin dal primo giorno, ma perché? Non era la prima volta che vedeva sbarcare quel tipo di poliziotti parigini. Lefèvre non era peggio di altri. Sembrava persino più furbo e meno pretenzioso della media. E allora cos’era?

Ripensò a ciò che gli aveva suggerito Claire qualche sera prima al ristorante. Sì, era stato come Lefèvre all’inizio della sua carriera, ma il tempo l’aveva cambiato. Anche il mestiere... la triste realtà quotidiana del mestiere di poliziotto, la sgradevolezza, la ripetitività e talvolta l’inutilità delle indagini sul campo, la violenza, la miseria, il disprezzo... Poi era nato Léo, e Gilles aveva creduto di capire che la vita era altrove. Aveva smesso di fare troppo e si era accontentato di fare del suo meglio.

Rivide quel sorriso beffardo e poi ironico. Il giovane poliziotto non aveva mancato il colpo, Sebag si era fatto cogliere in castagna come l’ultima delle reclute. Non riusciva a capire come avesse potuto sbagliarsi fino a quel punto.

Che cosa non aveva funzionato nel suo ragionamento?

L’omicidio di Argelès non era un delitto pianificato, ma un gesto di rabbia, se non un attacco di follia. Niente a che vedere con la calma risoluta di cui aveva dato prova il rapitore di Ingrid. A essere onesti, voleva riconoscere anche all’aggressore di Anneke lo stesso sangue freddo, ma dove il primo aveva dimostrato efficienza il secondo si era rivelato un dilettante.

Dio santo! Continuava a pensare cazzate. Ormai era provato e inconfutabile: il rapitore e l’aggressore erano una sola persona. Era su queste basi che doveva riconsiderare tutto il suo ragionamento.

Si alzò per farsi un caffè. Scelse una varietà dell’isola di Sumatra. Un caffè dal sapore legnoso e intenso. Restò accanto alla moka. Quando la tazza fu piena tornò a bordo piscina, si sedette e mise i piedi nell’acqua.

Dimentichiamo per un istante il caso di Argelès, si disse. Consideriamo solo gli altri due casi. Reati commessi dallo stesso soggetto, dunque. Con maestria la prima volta e imperizia la seconda. Perché? Era stato costretto a improvvisare? Possibile, ma per quale motivo? Il rapimento di una persona adulta non si può improvvisare. Di conseguenza non aveva mai avuto intenzione di commettere un secondo rapimento.

Intuiva che doveva studiare la cosa da un altro punto di vista.

Si sentì addosso uno sguardo. Alzò la testa e scoprì due occhi a mandorla verdi che lo fissavano. Gli occhi lentamente si chiusero in segno di fiducia. Poi si riaprirono. Gilles lo chiamò con una sorta di lungo bacio rumoroso.

«Vieni, micio, vieni».

Il gatto chiuse gli occhi, ma non si mosse. Restò seduto sulle zampe posteriori dall’altra parte della piscina, cercando di addomesticare quell’uomo strambo che dopo settimane di indifferenza aveva cominciato a offrirgli del latte.

«Vieni, micio, vieni».

Gilles era convinto che il gatto non si sarebbe mosso. Non subito. La voce doveva essere il primo contatto. Il primo legame. Aveva già fatto una riflessione di questo tipo, recentemente. Quando? Ah, sì... l’altra mattina, vicino al deposito dei contrabbandieri di sigarette. Quando era riuscito a stabilire un contatto col ragazzo. Fargli abbassare l’arma. Evitare un dramma. Quel ricordo gli fece bene. Era un bravo poliziotto! E forse in fin dei conti era anche un buon padre. E un buon marito. Non aveva alcun motivo per essere depresso.

E allora da dove gli veniva quel malessere?

Appoggiò la tazza vuota e si lasciò lentamente scivolare nell’acqua fresca. Quando uscì, il gatto non c’era più.

Le gocce d’acqua correvano lungo il corpo. Si stese. Una nuvoletta di cotone bianco fluttuava nel cielo, persa nell’immensità dell’azzurro. Gilles si avvolse un asciugamano sui fianchi e tornò nello studio.

 

Il telefono squillò poco prima delle sette, quel pomeriggio. Era Jacques. Stava rientrando da Argelès. Con in mano la descrizione del cliente del bar fatta da Anneke, era tornato a interrogare i proprietari del campeggio e alcuni clienti abituali che erano lì già da giugno. Una giornata impegnativa. Una giornata inutile. L’appello lanciato dai gendarmes affinché i testimoni si facessero avanti non aveva sortito effetto. L’indagine di Argelès gli sembrava sempre a un punto morto.

«Però non ho perso del tutto il mio tempo» disse sottolineando la parte positiva, «mi ero munito del costume da bagno... E tu che hai fatto oggi pomeriggio?».

«Ho fatto il bagno anch’io, ma in piscina, sono stato un po’ al computer... Insomma, mi sono tenuto occupato».

«Già. Oggi ti sei fatto smerdare alla grande...».

«Un po’, sì».

Si fecero una risata.

«Hai pensato tutto il tempo al lavoro?».

«No, non tutto il tempo».

«E ora come vedi le cose?».

«Non so. Non lo so più. Devo confessare che mi sono un po’ perso. E tu che ne pensi?».

«A dire la verità, non lo so nemmeno io. Eri riuscito a convincermi».

«E ora ti ha convinto Lefèvre?».

«Ha messo a segno un paio di colpi, ma non ha spiegato tutto. Secondo me la fa un po’ facile quando dice che sulla busta della rivendicazione c’è il sangue di Anneke».

«In ogni caso, dà da pensare».

«Forse, ma un 8 percento della popolazione con sangue b positivo è comunque un sacco di gente».

«Be’, non si tratta solo di numeri».

«Che vuoi dire?».

«Quella goccia di sangue non c’è arrivata per sbaglio sull’angolo della busta. Il rapitore ce l’ha messa di proposito per mandarci un messaggio. Voleva che noi capissimo che lui era proprio l’aggressore di Anneke. Non vedo altra spiegazione possibile».

Ci fu qualche istante di silenzio sulla linea.

«La cosa peggiore» continuò Sebag, «è che alla fine mi chiedo se non sia stato per contraddire... Kevin Costner che ho preso una pista sbagliata».

«Ma no, questo no di certo».

Il tono categorico di Jacques lo stupì.

«E tu che ne sai?».

«Senti, visto da quanto ti frequento ormai comincio a conoscerti. E se c’è una cosa che mi è sempre piaciuta di te è proprio la capacità di mettere da parte tutte le considerazioni personali. Qui al sud tendiamo ad agire seguendo l’istinto, le sensazioni. Abbiamo preferenze e idiosincrasie ben marcate, e ci piace esibirle. Siamo troppo soggettivi, ecco. Tu invece riesci sempre a ignorare questi parametri. È una bella cosa».

Sebag sapeva che Molina apprezzava il suo modo di lavorare, ma non gli aveva mai fatto complimenti del genere.

«Grazie».

Era imbarazzato. Molina non diceva più niente. Di certo si stava pentendo di essersi fatto scappare quelle lodi.

«Ci vediamo domani?» chiese Gilles.

«Certo».

«Allora a domani. Buona serata».

Dopo aver riattaccato Gilles fece il giro del giardino chiedendosi come occupare la serata. Ne aveva abbastanza del computer. Cinema? Perché no, ma non sapeva nulla dei film in cartellone. In genere era Claire a decidere per tutti e due. E poi l’idea di andare a congelarsi in una sala troppo climatizzata non lo attirava per niente.

Andò in garage. La ruota posteriore della bicicletta era a terra. Le diede una gonfiatina prima di inforcare la bici. Pedalò fino alla videoteca in centro a Saint-Estève, noleggiò una commedia americana anni Settanta e un porno più recente che fece scivolare nello zaino.

Quella sera avrebbe fatto baldoria.