25.
Doveva pur tornarci al lavoro, un giorno o l’altro. Meglio bere subito il calice fino alla feccia. Fino alla fine.
Sebag aveva l’impressione che tutti lo guardassero in modo strano. Con compassione. Come un malato o un convalescente. Forse era tutta una sua fantasia. La storia non aveva fatto il giro del commissariato. Aveva messo su una teoria e si era ritrovato brutalmente contraddetto dai fatti. Ok. Non c’era da farne una tragedia. Succedeva tutti i giorni. Era solo lui, il diretto interessato, a darvi importanza. I colleghi probabilmente avevano già dimenticato l’incidente.
Salì direttamente fino al suo ufficio senza passare né dalle celle di sicurezza né alla caffetteria. Incrociò Llach per le scale.
«Come va?» chiese Llach.
Non c’era domanda più neutra di quella. Eppure Sebag vi vide un’allusione. Rispose brusco, a denti stretti.
«Bene. Perché mai dovrebbe essere altrimenti?».
«Non lo so, dicevo per dire».
Sebag si rifugiò nel suo ufficio. Accese il computer per controllare la casella di posta del lavoro. Un messaggio di Castello gli comunicava l’incarico del giorno. Incontrare Brian Wayne. Era un chirurgo inglese in pensione. Uno degli ultimi BW a non essere stato ancora interrogato. La pista del misterioso cliente di Lopez non era stata accantonata, dunque. Sebag avrebbe lavorato con Lambert.
Molina entrò nell’ufficio. Sembrò sorpreso di vederlo.
«Toh! Come va?» gli chiese.
Sebag si sforzò di rispondere il più educatamente possibile, ma si sentiva montare dentro il malumore.
«E tu? Che fai oggi?».
«Dopo il bagno di ieri ad Argelès, oggi vado a prendere la tintarella a Força Réal. Devo passare la giornata lassù per incrociare i frequentatori abituali del posto... gente che va lì a passeggio, a fare jogging, a trombare, persone che avrebbero potuto notare un individuo sospetto. Il rapitore è andato all’eremo almeno due volte da quando è iniziata questa storia».
«Credi che siano in parecchi a bazzicare quel posto? È un po’ sperduto, no?».
«Non si sa mai. È una rottura di palle, ma vale la pena tentare».
Molina andò a sedersi alla sua scrivania e accese anche lui il pc. Prima condividevano lo stesso computer, ma da un anno a quella parte ciascuno aveva il proprio. L’informatica aveva fatto da tempo il suo ingresso nella loro routine lavorativa. Nel bene e nel male.
«Sai con chi mi hanno messo in coppia oggi?» si lagnò Sebag.
«No».
«Lambert».
«Oh cazzo».
Indicò col dito il piano al di sopra delle loro teste.
«Si direbbe che lassù non ti amano più».
Sebag colse la palla al balzo.
«A proposito, ieri s’è chiacchierato molto?».
«Chiacchierato di cosa?».
«Non so... della nuova piega che ha preso l’indagine, per esempio».
«Ah, no, non troppo. Siamo rimasti tutti sorpresi per il colpo di scena. Anche un po’ infastiditi, per esserci fatti fregare da un pivello parigino. Ma va be’... magari avremo modo di prenderci la rivincita».
Sebag annuì. Aveva apprezzato quell’“avremo”, anonimo ma collettivo.
Brian Wayne abitava in un paesino nella zona di Aspres, una regione collinare che costituiva l’inizio del Canigou. Chirurgo inglese, dopo aver esercitato a Birmingham aveva deciso di trascorrere gli anni della pensione nel sud della Francia. Non appena Sebag lo vide, capì che sarebbe stata una perdita di tempo. Wayne era un nonnetto tranquillo. Alto un metro e sessanta a voler esagerare. Spalle fragili, aveva come una specie di salvagente intorno alla vita.
Gli ispettori tuttavia accettarono l’invito del chirurgo a bere un’aranciata nella biblioteca, la stanza più fresca della casa. Sebag lasciò che fosse Lambert a condurre l’interrogatorio. Il giovane poliziotto assolse il compito con serietà e impegno.
Vennero così a sapere che Brian Wayne abitava a Boule-d’Amont da una decina d’anni. Che aveva sessantanove anni. Che era vedovo. Che aveva una figlia, rimasta a vivere in Inghilterra. Wayne era per l’appunto appena rientrato dalla Gran Bretagna, dove era andato a conoscere il suo secondo nipotino, nato agli inizi di giugno. Secondo la formula di rito, dunque, Wayne era “assente al momento dei fatti”. L’interrogatorio si era rapidamente avviato alla conclusione.
Eppure Sebag non tornò del tutto a mani vuote da quella trasferta. Mentre spiegavano all’ex chirurgo le ragioni che li avevano indotti a fargli visita, il pensionato chiese loro se erano proprio sicuri che le iniziali BW corrispondessero a una vera identità.
«Che intende dire?» chiese Sebag.
«Potrebbero essere le iniziali di un soprannome, no?».
Sebag si morse le labbra per non averci pensato prima. Se davvero avesse voluto nascondere l’identità del suo misterioso cliente, Lopez avrebbe effettivamente avuto interesse a ricorrere a un doppio camuffamento. L’idea era allettante. Il problema era che conduceva a un punto di stallo.
Come potevano sperare di risalire al soprannome affibbiato da Lopez a uno sconosciuto? E cosa ancora più difficile: come riuscire poi a ritrovare quella persona a partire dal suo soprannome?
Gli ispettori si congedarono dall’ospite. Mentre lasciavano la proprietà, Lambert d’un tratto tirò Sebag per la manica.
«Hai visto laggiù?».
Lambert, tutto eccitato, indicava una macchia scura in fondo al giardino.
«Gilles, è un laghetto!».
«E quindi?».
«Be’, Lopez non è stato annegato in un laghetto?».
Sebag spinse Lambert fino a farlo sedere in macchina. Poi si piazzò al volante e partì. Il giovane ispettore mise il broncio.
«Insomma, Thierry, cazzo!» spiegò Sebag. «Non vedi che abbiamo disturbato Wayne per niente? Non ha nulla a che fare con questa storia».
«Non ne sono così sicuro. Le iniziali sono quelle giuste, ha un laghetto... Non credi che dovremmo prelevare un campione d’acqua?».
«Se vuoi divertirti così... ma stai perdendo tempo. Te lo vedi quel vecchietto a trascinare il corpo di Lopez per tutto il giardino? E non ce l’avrebbe fatta nemmeno a trascinarlo fuori dall’acqua».
«Ho imparato a diffidare delle apparenze...».
«Non hai imparato un bel niente» lo interruppe Sebag. «Il simpatico nonnetto che al calare della notte si trasforma in una belva sanguinaria... ma dove mai l’hai visto? Al cinema?».
«Mi aspettavo maggior prudenza da parte tua. Dopo quello che è successo l’altro giorno...».
Sebag inchiodò. La macchina si fermò in piena curva.
«Cos’hai detto? Vediamo se hai il coraggio di ripetere».
«Non t’incazzare, Gilles» balbettò Lambert, sorpreso dalla violenza del tono del collega. «Non volevo essere sgradevole. Scusami».
Sebag inserì la prima e si rimise in marcia.
«Scusami anche tu».
«Ok, non fa niente. Comunque però... forse dovresti ascoltare un po’ di più i tuoi colleghi».
Sebag sospirò rumorosamente. Doveva essere caduto proprio in basso se un cretino come Lambert si riteneva autorizzato a fargli la morale.
Viaggiarono in silenzio fino a Ille-sur-Têt. Dopo aver attraversato il comune, Lambert chiese di fermarsi cinque minuti. Aveva bisogno di fare pipì per via dell’aranciata. Sebag approfittò della pausa per mandare un sms a Léo.
Il tempo è bello. Lavoro e penso al mio ragazzo. Baci. Buone vacanze.
Premette il tasto Invio e immaginò il messaggio che solcava il cielo per atterrare nella tasca destra della giacca di suo figlio. La tecnologia moderna aveva i suoi lati positivi. Come avrebbe potuto sopravvivere lontano dai figli senza quel perenne cordone che era il cellulare?
Osservò Lambert attraverso il finestrino chiuso. Un movimento del gomito a destra, uno a sinistra. Lo svuotamento era terminato, ma prima di risalire in macchina il giovane ispettore fece una serie di altre oscillazioni che Sebag non riuscì a comprendere subito. Fu solo quando il collega rimontò in macchina che capì: aveva approfittato della pausa per spruzzarsi un po’ di quel suo orribile profumo sotto le ascelle.
Sebag percorse i primi chilometri in apnea, poi decise nonostante il clima di guidare con i finestrini aperti. Era pronto a sopportare tutto, ma certe cose erano decisamente al di là delle sue forze.
«Ispettore! Mi scusi!».
Sebag si voltò. Una folla eterogenea invadeva l’atrio del commissariato: vecchi aggrediti, donne malmenate, forse violentate, ragazzi che si erano fatti rubare lo scooter, stranieri in attesa di improbabili documenti, francesi arrabbiati o semplicemente nervosi. Più qualche solitario depresso in cerca di un po’ di umana compassione.
Sebag non era riuscito a individuare la voce da basso che l’aveva chiamato.
«Buongiorno, ispettore».
Un uomo alto e magro si avvicinò e gli porse la mano. Sebag la strinse con una certa titubanza. Stava studiando il viso affilato che gli sorrideva amabilmente. Non ci fu nessuna illuminazione. Non lo conosceva.
«Mi può concedere qualche minuto, per favore? Mi hanno rubato la macchina».
Sebag gettò uno sguardo verso l’ausiliaria che presenziava lo sportello all’ingresso. Pur sopraffatta dalla folla rumorosa, Martine aveva seguito lo scambio. Gli fece un cenno d’impotenza addolcito da un sorriso gentile. Sebag si voltò nuovamente verso il suo interlocutore.
«Mi spiace, non mi occupo di furti d’auto».
Stava per girare i tacchi quando l’uomo insisté.
«Peccato. Mi avevano detto che lei avrebbe potuto aiutarmi».
«E chi gliel’avrebbe detto, di grazia?».
Cominciava a innervosirsi. Si era visto affibbiare parecchi incarichi di basso rango, ultimamente, non si sarebbe di certo messo a investigare su dei furti d’auto.
«Mi ha parlato di lei Gérard Barrère. Pensava che avrebbe potuto darmi una mano. Mi ha decantato le sue qualità».
Sebag aggrottò le sopracciglia. Si stava insospettendo e si chiedeva se quel tizio non lo stesse prendendo per il culo.
«Non serve nessuna qualità particolare per occuparsi di furti d’auto. Se la sua macchina era un modello di lusso, ormai sarà già dall’altra parte dei Pirenei. Altrimenti la ritroverà nel giro di qualche giorno, tutta ammaccata in fondo a un burrone o bruciata in un parcheggio di periferia. Spero che fosse assicurato».
L’uomo fece un gran sorriso. I capelli tagliati a spazzola rendevano il viso ancora più lungo. Una mano si posò pesante sulla spalla di Sebag.
«Tutto ok?».
Molina. Con un sorriso a trentasei denti. Rilassato. Lavorare da solo sembrava giovargli.
«Sì».
«Vieni, sto andando alla caffetteria, ti offro un succo di frutta».
Rivolgendosi al proprietario della macchina aggiunse:
«Mi scusi, devo averla interrotta».
«Avevamo finito» si affrettò a dire Sebag. «Il signore ha perso la macchina e cerca un poliziotto in gamba per affidargli le indagini».
«Un poliziotto in gamba?» scherzò Molina. «Non lo troverà di certo qui!».
«Credo di avervi disturbato anche troppo» replicò l’uomo senza smettere di sorridere.
Aveva una strana luce negli occhi. La voce si era abbassata ancora di un tono. Aveva un timbro da far tremare i vetri.
«Ci saluti il signor Barrère» disse Gilles.
«Non mancherò, ispettore».
«E spero che riesca a trovare la sua macchina».
Gilles cominciava a pentirsi di aver reagito in maniera così brusca.
«Era una macchina vecchia» concluse l’uomo rimettendosi tranquillamente in fila. «E poi ho una buona assicurazione. A presto, spero».
«A presto, sì» rispose automaticamente Gilles.
«Zucchero o amaro?».
«Amaro. Così non somiglia troppo a un caffè».
Molina gli tese la tazzina senza nemmeno provare a capire.
«Era da molto che ti rompeva le scatole, Barry White?».
«Barry White? Il cantante?».
Adesso era Sebag a non capire. Molina tentò di assumere un tono grave, cosa non facile per lui.
«Ho bisogno di un poliziotto di prim’ordine per ritrovare la mia carretta...».
Un accesso di tosse gli impedì di terminare la frase. Sebag scoppiò a ridere.
«Sai che ho delle novità sul nostro caso?» chiese Molina quando fu nuovamente in grado di parlare.
«Ma davvero?».
«Ti avevo detto che dovevo passare la giornata all’eremo?».
Sebag diede un’occhiata all’orologio.
«E sei già venuto via? Sono solo le tre».
«Mi ero rotto le scatole. Non succede un granché lassù. In tutto avrò visto trentacinque persone. A voler esagerare. E otto erano insieme in un pullmino. Però ho trovato un testimone».
Molina mise due monete nella macchinetta e premette il tasto più in alto. Ristretto zuccherato. La macchinetta si scosse e sputò rumorosamente il suo succo nero. Jacques attese di avere il caffè in mano per riprendere.
«Ho trovato un ragazzo che si arrampica lassù a osservare gli uccelli. Sta conducendo uno studio su un uccelletto della zona di cui non mi ricordo il nome. Va a Força Réal tutti i giorni, talvolta anche più volte al giorno. Tra l’altro, aveva notato il taxi di Lopez abbandonato e stava per segnalarcelo quando i gendarmes l’hanno scoperto».
Rimescolò a lungo il caffè prima di berne un sorso. Sebag cominciava a spazientirsi e non fece nulla per nasconderlo. Sapeva che il collega non aspettava altro.
«E quindi?».
«Quindi?».
«Questo testimone?».
Sebag decise di accelerare le cose.
«Il tuo appassionato di uccelli ha individuato una macchina e il tizio che la guidava, non è così? E ti ha dato una descrizione precisa».
«Oh, certo che sei stronzo!».
«Uno pari, allora!».
Molina mandò giù un altro sorso di caffè.
«Dài, non era troppo difficile da indovinare».
«No, è vero» riconobbe Sebag. «Allora, com’è questo tipo?».
«Magro e piuttosto alto. Capelli biondi, carnagione chiara. Vestito di tutto punto nonostante la stagione. È tutto quello che mi ha saputo dire».
«E la macchina?».
«Una station wagon. Una Peugeot o una Volvo. Non ne capisce niente di macchine, a quanto pare. In ogni caso, rossa».
«Fantastico! Avete ritrovato la macchina e interrogato il sospettato?».
«Ehm, no, è una descrizione un po’ vaga».
«È quello che pensavo anch’io...».
«In ogni caso, corrisponde a grandi linee alla descrizione dell’aggressore fatta da Anneke».
«Prego, rigira pure il coltello nella piaga».
«Ah, scusa, non volevo».
«Fa niente, ormai è fatta».
Sebag schiacciò il bicchiere di plastica. Dentro c’era ancora un po’ di caffè, che gli schizzò sui pantaloni.
Le indagini erano a un punto morto, anche se Castello e Lefèvre rifiutavano di ammetterlo. Gli ispettori avevano ricevuto l’incarico di rifare il giro delle persone coinvolte per sottoporre loro l’identikit aggiornato – ma ancora troppo vago, secondo Sebag – del sospettato. Con Jacques dovevano interrogare di nuovo Sylvie Lopez. Il funerale del tassista era previsto per il giorno seguente.
La donna li fece entrare nell’appartamento. Li condusse in soggiorno. La stanza era immersa nella penombra.
«Posso offrirvi qualcosa? Un caffè?».
I due uomini accettarono, Jacques perché non aveva avuto tempo di prenderne uno al Carlit e Gilles perché era sempre disposto a correre il rischio. Mentre Sylvie Lopez armeggiava in cucina, Sebag esaminò i cambiamenti avvenuti nel soggiorno dalla loro ultima visita. Sui mobili le fotografie erano spuntate come funghi. José e Sylvie all’uscita dalla chiesa nel giorno del matrimonio; José da solo in uniforme da militare; José seduto su un letto d’ospedale con Jennifer appena nata tra le braccia; di nuovo loro due qualche mese dopo su una spiaggia. E poi, a troneggiare sul televisore, una grande foto di José tutto fiero al volante del suo taxi. Gli angoli della cornice erano bordati di tessuto nero. Accanto al televisore un lungo cero, spento. La giovane vedova lo accendeva probabilmente di sera, per sublimare la solitudine e il dolore. Di quello stronzo del marito stava per farne un santo. Il matrimonio era stato un fallimento, ci teneva che almeno la vedovanza andasse meglio.
La donna tornò dalla cucina con un vassoio carico di tazzine. Nei vestiti scuri del lutto sembrava più pallida e fragile che mai. Faceva venire voglia di prenderla tra le braccia e consolarla. Sebag si disse che se lui non fosse stato lì, Jacques non avrebbe represso quel desiderio.
Il caffè non sapeva di nulla – era di una comune marca economica da supermercato –, ma era ben ristretto. Bevibile. Jacques intavolò la discussione senza altri indugi. Le descrisse per sommi capi il sospettato. Che alla donna non ricordò nessuno. Gilles suggerì di dare un’occhiata agli album di famiglia. Non che si aspettasse granché.
E infatti non vi trovarono nulla di particolare. Nessuna figura sospetta, nessun viso conosciuto. Momenti di felicità come se ne trovano in tutte le famiglie del mondo. Quelli della famiglia di Sebag non erano diversi. Meno fittizi, sperava.
Gilles non vedeva ragione di attardarsi oltre. Contemplare foto di famiglia lo metteva sempre in uno strano stato d’animo. Quasi di nausea. Una sensazione di vertigine come quando si lasciava trascinare da Claire e i ragazzi nei meandri infernali delle fiere. Strattoni e velocità. La vita che ti sbalza e ti sfugge tra le dita. Il tempo che passa troppo in fretta. Ogni pagina contiene mesi, anni di vita. Sepolti. Passati. Per sempre.
Si alzò di scatto. Jacques sembrò sorpreso, Sylvie Lopez spaventata. Offrì loro un altro caffè, un succo di frutta, una fetta di torta... era pronta a qualsiasi cosa pur di farli restare ancora un po’. Sebag accampò la scusa di una telefonata urgente e lasciò il collega da solo.
«Ci vediamo dopo in commissariato. Devo camminare per riflettere».
Sulla via del ritorno, Sebag prese per boulevard Poincaré. Dove Anneke era stata aggredita. Il coupé sportivo di Marc Savoy era parcheggiato davanti alla pompa di benzina. A quanto pareva il commesso viaggiatore rincasava presto, il venerdì.
Inconsapevolmente, Sebag aveva sperato in un flash o almeno in una qualche nuova idea. Si fermò un istante, accese una sigaretta, ma non gli venne in mente nulla. Assolutamente nulla.
Quando salutò Martine nell’atrio del commissariato, il telefonino squillò.
«Pronto?».
«Sono io, ti disturbo?».
«Da dove chiami?».
«Da una cabina. Sono a Napoli, va tutto bene».
«Hai cinque minuti? Dammi il numero. Salgo in ufficio e ti richiamo».
«Ok, a prestissimo».
Riattaccò e salì le scale a quattro a quattro. Arrivato in ufficio accese il computer, poi prese il telefono. Claire rispose immediatamente.
«Molto casino al lavoro?» chiese.
«Insomma, così così. E tu, stai soffrendo molto?».
«Sì, è davvero insopportabile! Piscina, sedia a sdraio, libri, città meravigliose... Giovedì Bonifacio, oggi Napoli, stasera partiamo per Palermo».
«Non restate molto in ogni città. Non è un po’ frustrante?».
«Sì, ma mi dico che sono in avanscoperta e che tornerò con te nei posti che mi saranno piaciuti di più».
Ci fu un breve silenzio.
«E tu, ti senti molto solo a Perpignan?».
«Col lavoro non ho il tempo di annoiarmi» mentì lui. «Progrediamo lentamente, ma progrediamo».
Altro silenzio. Un po’ più lungo. Non era facile trovare le parole importanti. Di solito, si telefonavano solo quando avevano da dirsi qualcosa di preciso. Era la sera, a cena, che chiacchieravano.
«Il tempo è bello?» chiese Claire.
«Bellissimo, ma c’è un po’ di brezza, è piacevole. E tu, hai trovato bel tempo?».
«Sì, più o meno come te».
«Allora non valeva la pena di andare così lontano».
Non intendeva essere sgradevole. Era stata solo una frase stupida. Doveva scusarsi. O andare avanti.
«Ho avuto notizie da Séverine, l’altro giorno. Sembrava contenta».
«Ho trovato un messaggio nella e-mail. E anche uno di Léo. Mi sa che si sta divertendo come un matto».
«Lo penso anch’io».
Scambiarono ancora qualche banalità, poi buttarono lì due o tre paroline dolci. Era ora di chiudere, Molina era appena entrato nella stanza.
«Ti saluto, ché ho un po’ di lavoro da fare. Grazie di aver chiamato».
«Mi ha fatto piacere. Non so quando riuscirò a telefonare di nuovo. Forse da Palermo, o da Tunisi».
«Lo spero. A presto».
«A presto. Ti amo».
«Anch’io».
Bisognava riattaccare.
«Sta bene?».
«Come, prego?».
«Claire sta bene?» ripeté Molina.
«Benissimo».
«Ci sono bei ragazzi sulla sua barchetta?».
«Probabilmente sì».
Si affrettò a rendere pan per focaccia.
«E la signora Lopez, sei riuscito a confortarla?».
Molina fece finta di non aver sentito. Accese il computer.
«Novità da parte dei colleghi?».
«Non ho avuto tempo di controllare».
Consultarono le rispettive caselle e-mail. Le analisi avevano emesso il verdetto: il sangue sulla busta era proprio quello di Anneke Verbrucke.
«La riunione di stasera è alle sei?» chiese Molina.
«Mi pare che abbiano detto così, ma non credo che ci sarò».
Molina sollevò gli occhi dallo schermo.
«È una sorta di protesta?».
«Un po’ sì» ammise Sebag.
«Castello non farà salti di gioia».
«Me ne frego!».
«Non è vero».
Molina aveva ragione. Sebag non era tipo da farsi condizionare dalla collera.
«Lo sai com’è fatto» gli fece notare Jacques, «si aspetta che tu reagisca. Sei un bravo poliziotto, ma devi riconoscere che ogni tanto bisogna pressarti un po’».
«E a te, non c’è bisogno di pressarti?».
«Sì, ma la differenza è che io, anche se mi si pressa molto, non farò mai faville».
«Non fare il modesto».
«Non faccio il modesto, ma a quarantasette anni ho imparato a conoscere i miei limiti».
«Anch’io conosco i miei limiti».
«No, non è vero. È proprio questo il tuo problema. Hai troppa poca fiducia in te stesso».
«Mi sembra di sentire mia moglie».
«Vedi? Se te lo dice anche lei, vuol dire che è vero».
Sebag acconsentì a meditare sulla questione per qualche secondo.
«Ti aspetti che io faccia scintille?».
«Già».
«Non vorrei deluderti, ma credo di aver perso il filo di questa indagine».
«Allora riprendilo».
«E come?».
«Ricomincia a ragionare dall’inizio».
«Ma ho ragionato male! Questi casi sono legati tra loro, ormai è provato. E non riesco a ripartire da questo punto».
«Smettila di piagnucolare e segui l’istinto, come direbbe il capo. Avevi senza dubbio delle buone ragioni».
«Siamo finiti fuori strada, bisogna ammetterlo. Il sangue sulla lettera, la telefonata partita dal bar...».
«Sono d’accordo. Questi elementi ci provano che l’aggressore di Anneke è il rapitore di Ingrid. Ma per quanto riguarda l’omicidio, non ci sono collegamenti».
«E la caccia al tesoro? Non è un caso che siamo arrivati al campeggio di Argelès, è stato il rapitore a portarci lì».
«Magari per confonderci. Come hai ipotizzato tu».
«Mi sono reso ridicolo già abbastanza, con quella teoria».
«Non si muore mica per questo. Immagina la faccia di Lefèvre se tu dimostrassi che il delitto di Argelès non c’entra nulla con gli altri casi».
«E come potrei mai riuscirci?».
«Trova l’assassino».
Sebag fece schioccare le dita.
«Ma certo, è ovvio, come ho fatto a non pensarci prima? È così semplice: basta trovare l’assassino! I gendarmes stanno indagando da un mese, tu pure ti sei messo al lavoro sul caso senza esito, e io, con un colpo di bacchetta magica, dovrei riuscirci?».
«Magari ci siamo persi qualcosa di evidente che uno sguardo nuovo, obiettivo e acuto potrebbe scoprire».
«Grazie della fiducia, ma mi pare un tantino eccessiva».
«Provare non ti costa nulla».
«Qualche ora di straordinario non pagata...».
«Troverai il modo di recuperarle in un altro momento, no?».
Sebag non riuscì a trattenere un sorriso.
«Castello non acconsentirà mai a farmi incaponire in quella direzione».
Gli argomenti di Sebag perdevano incisività. Molina capì che aveva vinto.
«Perché, pensi forse di parlargliene?».
«Vorresti che seguissi una pista tutta mia? Al capo non piacerà».
«Lefèvre l’ha fatto e non gli è andata troppo male».
«Lefèvre non è agli ordini di Castello».
«Non vedo dove sia il problema: o non trovi niente e nessuno saprà che hai lavorato in solitaria, oppure scopri qualcosa di interessante e il capo sarà obbligato a prendere atto del tuo metodo. L’efficacia, amico, conta solo l’efficacia. E poi, se vuoi sapere come la penso, Castello sarà molto contento se dai scacco matto a quel cagnaccio di un parigino».
«Non è il tipo».
«Tutti sono il tipo».
«Quindi, riassumendo, mi stai proponendo una sorta di lascia o raddoppia?».
«Perché no? In fondo sei uno a cui piace giocare».
Sebag non rispose subito. È difficile sapere cosa influenzi veramente le decisioni della vita. Piccole o grandi che siano. Un sorriso, uno sguardo o una frase spesso incidono più degli ideali o dei ragionamenti più serrati. Sebag spesso si lasciava indirizzare dai modi di dire che trovava. E in quel momento ne aveva appena inventato uno che gli piaceva un sacco.
«Hai ragione, amico, bisogna battere il Lefèvre finché è caldo».