30.

 

Gilles Sebag cercava l’ispirazione sui luoghi delle indagini. Dopo aver vagabondato intorno al posteggio dei taxi della stazione di Perpignan e poi lungo boulevard Poincaré, prese la macchina. Guidò fino a Força Réal, ammirò ancora una volta la vista che si godeva da lassù e ripartì in direzione di Canet. Ma nell’hotel in cui aveva soggiornato la ragazza dopo che se n’era andata da Collioure nessuno si ricordava di lei.

Verso mezzogiorno Sebag si concesse un diabolo, la classica limonata con un tocco d’orzata, sulla terrazza del caffè a place de la Méditerranée. Poi decise di mangiare lì.

Accanto a lui, una coppia si teneva la mano sorridendosi con gli occhi oltre che con le labbra. Erano entrambi oltre la quarantina. L’uomo aveva una fede all’anulare. Una coppia adulterina, si disse Sebag prendendosi in giro per quel termine desueto che avrebbe potuto utilizzare sua madre. Non avevano forse ragione a voler vivere più storie d’amore? E non era un nonsenso vedervi una perversione maggiore che sperare di passare tutta la propria vita con la stessa persona? Chi poteva mai pretendere di resistere all’usura?

Nel primo pomeriggio era di ritorno nel centro storico di Perpignan. Il bar Deux Margot aveva appena aperto. Era gestito da due vecchie prostitute di place Blanche a Parigi, le quali avevano deciso di trascorrere l’età della pensione nel Roussillon, mantenendo i loro nomi di battaglia per alludere al Deux Magots, il celebre caffè di Saint-Germain-des-Prés.

Sebag osservò attentamente la sala in cui qualche giorno prima il rapitore aveva scelto la sua preda. La sua esca. Si avvicinò al bancone.

«Cosa prendi, bel polletto?».

Con quel tono al limite del volgare, la voce roca per l’alcol e il fumo, i capelli biondi ossigenati e una bocca immensa dalle labbra impiastricciate di rosso carminio, quella Margot rivendicava il suo passato da battona. Sebag le mise il tesserino sotto il naso.

«Bel polletto... era un modo di dire affettuoso o un’allusione poco carina al mio mestiere?».

«Scusa... mi scusi, non sapevo, ma i suoi colleghi sono già venuti la settimana scorsa».

Fece segno che sì, lo sapeva. Raynaud e Moreno avevano fatto visita alle due Margot non appena avevano saputo che il rapitore aveva telefonato in commissariato proprio da quel bar.

«Dovrebbero averle descritto un individuo sospetto, no?».

«Già. Ci hanno chiesto di un tizio alto e magro sulla quarantina...».

«E se ci aggiungo una voce molto profonda e il respiro pesante?».

Margot si contentò di fare una smorfia eloquente.

«Spiacente, ma non mi dice molto di più».

Sebag tirò fuori il portafoglio. Piazzò qualche fotografia sul ripiano di zinco. José Lopez, Ingrid Raven, Anneke Verbrucke. Dopo qualche esitazione mise giù anche una foto di Claire, pensando che fosse meglio aggiungere al mucchio anche qualcuno di completamente estraneo alla faccenda.

«Riconosce qualcuna di queste persone?».

Margot si chinò in avanti. Strizzò gli occhi.

«Mi scusi» disse, andando a prendere un paio di occhiali in un cassetto.

Se li mise sul naso.

«Così va meglio».

Esaminò attentamente le foto. Quando il dito si arrestò su una di loro, Sebag non poté nascondere la sua sorpresa.

«Credo di ricordarmi di questa donna. È venuta almeno una volta».

Il suo grosso dito era appoggiato sul viso di Claire.

«Ne è sicura?».

«Sicura? Non esageriamo. Qui viene un sacco di gente, non posso mica ricordarmi di tutti. Vuole che chiami la mia socia? Margot!».

«Che c’è?» rispose una voce dal retro.

«Puoi venire? È... ehm, importante».

Margot 2 non se lo fece dire due volte. Aveva capito. Era la copia spiccicata di Margot 1, solo in versione mora.

«Il signore vorrebbe sapere se riconosci qualcuno. Io gli ho detto che questa faccia mi era familiare».

Margot 2 prese la foto, tenendola a una certa distanza dagli occhi, ma non ebbe bisogno di inforcare gli occhiali.

«In effetti sì, ho già visto questa donna. Molte volte, tra l’altro. Una sera ha fatto cadere un bicchiere».

Sebag sentiva lo stomaco annodarsi. Ripensò alla coppia che poco prima aveva visto al ristorante.

«Era in compagnia?» chiese con voce atona.

Margot 1 lo guardò al di sopra degli occhiali.

«Le donne vanno raramente da sole nei bar, la notte» replicò. «E comunque non in provincia».

«Mi sembra di ricordare che viene soprattutto con altre donne» riprese Margot 2.

Gilles riprese a respirare, ma non durò a lungo.

«Ma la volta che ha fatto cadere il bicchiere era con un uomo. Mi ricordo: ha versato tutto sul vestito di lui e ho come la sensazione che l’abbia fatto apposta».

«Ma l’uomo non era questo» precisò Margot 2 indicando la foto di Lopez.

Sebag deglutì a fatica.

«E come... sembravano? Voglio dire, l’uomo e la donna, sembravano...».

La parola non voleva saperne di venire fuori.

«Innamorati?» lo aiutò Margot 2.

«Per esempio».

«Non saprei, ma se lo erano le acque erano un po’ mosse».

«Quando un uomo viene qui con una donna, non c’è ancora stato a letto, ma spera di farlo» filosofeggiò Margot 1.

«O di farsela» commentò la socia scoppiando in una grassa risata da strada.

Sebag si sforzò di tornare alle indagini.

«E gli altri visi non vi dicono proprio nulla?».

Le due Margot confermarono la loro prima impressione.

«No. Ci dispiace non poterla aiutare, ma non li ricordiamo».

«Va bene, grazie lo stesso».

Stava per riprendere le foto quando la bruna mise di nuovo la mano su quella di Claire.

«In compenso, l’altro uomo, forse so chi è».

«Quale altro uomo?».

«Quello che era con la tipetta coi capelli ricci».

Per poco Sebag non si strozzò. L’uomo che era con Claire...

Sentì il telefono vibrargli in tasca. Prese la chiamata prima che cominciasse a suonare.

«Pronto, ispettore Sebag? Sono Martine, dal commissariato. Mi permetto di disturbarla perché c’è stata una telefonata per lei. Credo sia importante. Il signore che ha chiamato ha detto che era urgente, che voleva parlare esclusivamente con lei e che avrebbe richiamato tra mezz’ora».

«Ha lasciato il nome?».

«Non ha voluto. Mi ha detto che lei avrebbe capito. All’inizio non ho preso la telefonata molto sul serio, pensavo fosse il tizio dell’altro giorno».

«Chi?».

«Quello a cui hanno rubato la macchina».

«E non era lui?».

«A quanto pare, no. Ha detto più volte che era una cosa urgente. Ha parlato di una caccia al tesoro, ed è per questo che all’inizio ho pensato a uno scherzo. E poi non riuscivo a capire bene cosa diceva. Stranamente sussurrava».

Sebag sentì come una scossa elettrica.

«Ha chiamato da molto?».

«Cinque minuti. Subito dopo è arrivata un’altra telefonata».

«Perfetto. Avverta il commissario Castello, io arrivo subito».

Riattaccò. Le due Margot non avevano perduto una sillaba di quella conversazione.

«Devo andare. Vi ringrazio della collaborazione, signore».

Con loro grande sorpresa, Sebag girò immediatamente i tacchi.

«Ma... non vuole sapere?».

Si bloccò. Aveva già la mano sulla porta.

«Sapere cosa?».

«Il nome del tizio che era con la donna».

Ci pensò su. Solo per tre secondi.

«Un’altra volta. Non è importante come credevo».

 

La capacità di reazione dei poliziotti fu stupefacente. Al suo ritorno Sebag constatò che tutto il commissariato era sul piede di guerra. Agenti in divisa o in borghese stavano già appostandosi in giro per la città per tenere sotto controllo le cabine telefoniche. Tranne Raynaud, Moreno e Llach, che erano ancora in viaggio, tutti gli altri ispettori si erano sistemati in sala riunioni in attesa di istruzioni. Mentre Castello parlava, i membri della scientifica dotavano Sebag dello stesso dispositivo della volta precedente. Gilles sperava che il rapitore si dimostrasse fantasioso e non lo mandasse di nuovo a frugare nei bidoni del quartiere.

«Stavolta non fingeremo» spiegò Castello. «Non riempiremo alcun borsone con carta da giornale. Dato che è una caccia al tesoro, ci limitiamo a giocare. Vedremo dove ci porterà».

Aveva davanti a sé volti dall’espressione grave. Tutti ricordavano l’esito della prima manche. Castello decise di verbalizzare quell’angoscia collettiva.

«Sperando che non ci porti a un nuovo cadavere».

Ma si astenne dal dare un nome a quel cadavere. La suoneria del telefono riecheggiò nella stanza. Le conversazioni cessarono. Anche i respiri. Castello fece segno a Sebag di prendere la cornetta.

«Pronto?».

«È per lei» disse Martine. «Il tizio di prima. Glielo passo».

Silenzio, poi un respiro lento e pesante. Il commissario inserì il vivavoce.

«Pronto?» disse di nuovo Sebag.

«Buongiorno, ispettore».

Un mormorio sordo.

«Buongiorno a tutti. Siete pronti? Possiamo cominciare?».

«Quando vuole...».

Silenzio. Respiro.

«Bene. In periferia, a Moulin à Vent. Una cassetta delle lettere. A voi capire quale».

Nuovo silenzio. Poi il suono acuto del segnale di libero. Come un sol uomo, gli ispettori ripresero a respirare nello stesso momento.

Castello diede una scossa alla truppa.

«L’appuntamento è chiaro per tutti? José Lopez abitava appunto a Moulin à Vent. Chiamiamo subito sua moglie».

Castello si chinò per parlare in un microfono appoggiato davanti a lui.

«Gilles, tocca a lei».

La frase gracchiò nell’auricolare di Sebag, che mostrò il pollice in su per segnalare che l’apparecchiatura funzionava bene. Tutti si alzarono.

Sebag risalì con la macchina boulevard des Pyrénées, poi ancora una volta boulevard Poincaré. Nel quartiere-dormitorio di Moulin à Vent trovò parcheggio davanti all’edificio in cui avevano vissuto, quasi felici, i Lopez. La giovane vedova lo attendeva davanti alla porta del palazzo, con una busta bianca in mano. Sopra vi era scritto il nome dell’ispettore.

«L’ho trovata prima nella buca delle lettere. Stamattina non c’era. Stavo per chiamarla quando mi ha telefonato il commissario».

Sebag stracciò la busta e tirò fuori il testo. Hôtel du Sud. Canet. Sempre lo stesso tipo di carattere. Sempre la stessa stringatezza.

«Divertente, sembra un gioco» commentò Sylvie Lopez che aveva letto il messaggio al di sopra del braccio di Sebag.

«Infatti è una specie di gioco, sì. Ma non è divertente».

«Lo prenderete?».

Sebag percepì il dubbio nel tono di voce della donna.

«È solo questione di tempo».

«E la salverete?».

«Lo spero».

La donna annuì pensosamente.

«Lo spero anch’io. È strano, dovrei davvero avercela con lei, ma ho l’impressione che se morisse, sarebbe come se José morisse una seconda volta. Mi capisce?».

Sebag pensò alla sua situazione personale. Ora sapeva che Claire aveva un amante, ma non provava rancore. Solo dolore.

«Sì, la capisco».

«Perché sta perdendo tempo?» l’interruppe Castello attraverso l’auricolare. «Non c’è che una cosa da fare!».

Sebag salutò Sylvie Lopez e risalì in macchina, direzione Canet e l’hotel in cui era stato qualche ora prima. Durante il viaggio Castello lo mise al corrente delle ultime informazioni.

«Sappiamo che il rapitore ci chiama da un cellulare. Abbiamo il numero, stiamo cercando il proprietario. Mantengo comunque la sorveglianza delle cabine telefoniche, non si sa mai. Raynaud e Moreno sono appena rientrati. Ora li mando subito a Moulin à Vent per fare qualche domanda alle persone del posto. Una consegna della posta in pieno pomeriggio non passa inosservata».

Sebag mise la sirena sul tetto e filò a tutta velocità sulla strada a quattro corsie che collegava Perpignan a Canet. L’Hôtel du Sud era di fronte al mare, separato dalla spiaggia solamente da una strada. Parcheggiò proprio lì davanti e piazzò il parasole su cui figurava la parola “Polizia” a caratteri cubitali. Chiuse la macchina ed entrò nella frescura della hall.

L’impiegato alla reception lo riconobbe.

«A quanto pare, apprezza molto il nostro hotel».

«Non tanto, ma mi hanno dato appuntamento qui. Per caso ha un messaggio per me? Sono l’ispettore Sebag».

«Non mi risulta. Chieda alla collega» disse indicandogli una ragazza che era al telefono.

Origliò la conversazione.

«Sono spiacente, ma non abbiamo nessun cliente che si chiami così, probabilmente si sta sbagliando... come dice? Se la smettesse di sussurrare la capirei meglio. Come, quello nella hall? Ma...».

Sebag le fece vedere un biglietto da visita e le prese la cornetta dalle mani.

«Pronto?».

Sempre lo stesso respiro.

«Stavolta non fa troppo caldo, vero?».

«No, la ringrazio, l’hotel ha l’aria condizionata. È più confortevole della cabina telefonica del campeggio».

«Mi sa che la tratto troppo bene».

«Se lo dice lei...».

Sentì che all’altro capo del filo il rapitore moriva dalla voglia di prolungare la conversazione. Era lui che l’aveva indicato come interlocutore privilegiato. Doveva avere i suoi motivi. Sebag decise di porgli la domanda.

«Perché io?».

«...».

«Perché ha scelto me? Ci conosciamo?».

Sebag ebbe l’impressione che il respiro accelerasse. Impercettibilmente.

«Non esattamente».

«Allora perché?».

«Perché penso che sia un bravo poliziotto».

«Cosa glielo fa pensare?».

«Una sensazione. Mi sbaglio?».

«Non sta a me dirlo».

«A un certo punto confesso di aver avuto dei dubbi, ma poi lei mi ha rassicurato».

«Quando?».

«Quando ha risolto l’omicidio di Argelès. È stato bravo».

«Ho capito anche come sono andate le cose a boulevard Poincaré».

Silenzio. Stavolta Sebag era sicuro: il respiro era più veloce.

«Pensa che sia stata opera di qualcun altro?».

Sebag percepì la delusione nel suo mormorio.

«Oh, no. È stato proprio lei ad aggredire Anneke Verbrucke, ma l’ha fatto solo per confondere le acque».

La respirazione sembrò cessare. Il rapitore aveva dovuto scostare il telefono dalla bocca.

«È sempre in linea?» lo canzonò Sebag.

Il respiro ricominciò.

«Non mi ero sbagliato. La partita si fa interessante».

Sebag decise di continuare a contrattaccare. Ne aveva abbastanza di subire.

«L’arresteremo, può starne certo».

«Possibile. Fa parte del gioco».

«Finirà i suoi giorni in prigione».

«Su questo non ci giurerei».

«Ha già perso».

«Ora è presuntuoso».

«Se più tardi troveremo il corpo di Ingrid, le prometto che non ci arrenderemo mai. Non le darò tregua».

«Il tempo della tregua arriverà presto. Non posso perdere».

«Adesso è lei a essere presuntuoso».

«Non credo».

«Perché?».

«Perché tutto dipende da qual è lo scopo del gioco. E lo scopo, così come le regole, sono io a deciderlo. Solo io. Io non posso perdere, però voi potete lo stesso vincere».

Il rapitore fece una pausa, poi buttò lì un’ultima frase prima di riattaccare. Una frase che gelò il sangue a Sebag. E certamente anche a tutti i poliziotti che stavano ascoltando la conversazione. Castello fu il primo a riprendersi.

«Ha detto parcheggio di Força Réal. Ci andiamo tutti. Ci vediamo lì».

Sebag uscì precipitosamente dall’hotel per tuffarsi in macchina. Mise in moto, inserì la prima, ma fece spegnere il motore mentre cercava di mettersi in carreggiata. Invece di rimettere in moto, scese.

Attraversò la strada e si diresse verso la spiaggia. Aveva appena capito una cosa.

Il telefono dell’albergo aveva preso a suonare non appena Sebag era entrato. Tuttavia, non avevano fissato un orario per l’appuntamento. Non poteva essere un caso. Era lì, da qualche parte. Vicinissimo.

Quando Sebag era arrivato l’uomo l’aveva visto scendere dalla macchina ed entrare nell’hotel. E solo in quel momento aveva composto il numero.

«Porca puttana!» imprecò Sebag ad alta voce, facendo sussultare due vecchie signore sedute su una panchina all’ombra di una palma. «Era qui e non l’ho visto».

Si rivolse alle due signore.

«Per caso avete visto un uomo sulla quarantina, alto, magro, capelli chiari, che qualche minuto fa stava telefonando?».

Le donne si guardarono. Sembravano incerte se rispondere o meno a quell’individuo strano e maleducato.

«No, ci spiace. Stavamo parlando, non ci abbiamo fatto caso».

Sebag diede un’ultima occhiata alla spiaggia. Non poteva fare a meno di pensare che era restato lì a osservarlo, sorridendo. Risalì in macchina e si diresse a Força Réal. Durante il viaggio Castello lo aggiornò: il cellulare usato dal rapitore era quello di Lopez.

Nel momento in cui stava uscendo da Millas per imboccare i tornanti che l’avrebbero condotto all’eremo, il telefono squillò. Era Léo.

«Ciao ragazzo mio. Stai bene?».

«Sì. Tu, tutto ok?».

«Lavoro, solita routine».

«Ti stai annoiando a star da solo?».

Tanta sollecitudine nascondeva qualcosa. Gilles ne era consapevole, ma la telefonata gli faceva comunque piacere.

«No, per niente. Comincio a prenderci gusto. Libertà, niente vincoli... E tu, anche tu ti stai divertendo?».

«Sempre di più. Ieri abbiamo fatto un’escursione di un’intera giornata. In moto dalle undici di mattina alle sette di sera».

Una macchina della gendarmerie lo sorpassò a tutta velocità. Gli pneumatici stridettero in curva. Gilles preferì tendere una mano al figlio per evitare che la conversazione si arenasse.

«Volevi chiedermi qualcosa?».

«No, no, ti chiamavo per sapere come stavi... Ma va be’, visto che me lo chiedi, qui c’è un tipo troppo forte, di Tolone. I genitori hanno uno yacht in Costa Azzurra, mi hanno proposto di andare qualche giorno da loro quest’estate... se per te va bene».

Sebag tentò di schivare la domanda.

«Bisognerà chiedere a tua madre».

«Già fatto, l’ho sentita prima».

Prima regola per strappare un permesso ai genitori: cominciare a lavorarsi prima il genitore più morbido. Léo ci sapeva fare, la sua tecnica era impeccabile.

«E tua madre ha detto che per lei andava bene se per me non c’erano problemi...».

«Esatto, papà. Sai una cosa? Avresti dovuto fare lo sbirro».

A Gilles non piaceva che il figlio usasse quella parola. In fin dei conti non era così furbo, il ragazzetto, aveva infranto la regola numero 2: non offendere il padre, soprattutto se all’inizio è dubbioso.

«Allora?» insisté timidamente Léo davanti al silenzio, che temeva ostile, di suo padre.

«Ti prometto di pensarci, ma per il momento ho del lavoro da fare. Mi richiami domani?».

«Ok, papà, a domani».

«Ciao Léo, un bacio».

Gilles non era troppo scontento di sé. Non solo non aveva ceduto subito, ma aveva anche costretto il figlio a richiamarlo l’indomani.

Posteggiò la macchina nel parcheggio sottostante l’eremo. Che cosa avrebbero trovato, stavolta? Durante il viaggio da Canet a lì aveva evitato di porsi la domanda, ma scoprendo i volti preoccupati dei suoi colleghi capì che anche gli altri temevano il peggio. Era per quello che aveva risposto alla telefonata di Léo. Una boccata di vita prima dell’orrore.

Come la settimana precedente, il parcheggio era pieno di macchine, quelle blu scuro della gendarmerie che si mescolavano al bianco di quelle del commissariato. La collaborazione tra le forze di polizia forse passava per quell’accordo di colori, si disse Sebag constatando che la chiazza rossa di una station wagon perturbava l’insieme. Come la settimana precedente, i gendarmes avevano delimitato il settore, spostando le erbe secche con la punta dei loro stivali neri alla ricerca di un pezzo di terra smosso di recente. Sebag ebbe la sensazione di essere trasportato indietro nel tempo. Si ricordò di un film visto qualche anno prima, Ricomincio da capo, doveva essere quello il titolo del lungometraggio in cui il protagonista era obbligato a rivivere in eterno sempre gli stessi eventi. Ma non sarebbe stato di certo il corpo di Lopez, ciò che avrebbero ritrovato oggi imballato in un sacco di plastica.

Castello gli si avvicinò.

«Per il momento non abbiamo visto nulla. L’altro giorno aveva precisato “all’ombra dell’eremo”. Sbaglio o stavolta non ci ha dato indizi?».

Sebag tentò di ricordarsi l’ultima frase.

«Ha detto “l’ultima tappa per oggi”, vero?».

«Esattamente».

«E nel resto della conversazione non ha notato nulla?».

«No. L’ho riascoltata varie volte durante il tragitto. Con Lefèvre. E non abbiamo notato nulla di speciale».

«Possiamo ascoltarla nella sua macchina?» chiese Sebag.

«Certo. Venga con me».

Castello lo condusse alla propria macchina, su cui stava appoggiato Lefèvre. Il commissario aprì la porta lato guida. Prese il microfono della radio e chiese che gli facessero sentire nuovamente il nastro.

«Metta le cuffie, sentirà meglio».

Sebag si sedette. Nell’abitacolo faceva caldo. Mise le cuffie e ascoltò attentamente la registrazione.

«Allora?» fece Lefèvre quando Sebag uscì dal veicolo.

«Non ho notato nulla di particolare. Bisogna dire che non gli ho lasciato molta iniziativa, durante la conversazione».

«Penso che lei sia stato bravo» si complimentò il giovane sbirro parigino. «Gli ha chiuso il becco».

Castello era estasiato da quella luna di miele tra i due uomini. Sebag, invece, sembrò non sentire il complimento.

«Strano che non ci abbia dato indizi. Credevo gli piacesse giocare».

«Magari c’è un indizio che non vediamo» suggerì Lefèvre.

«Allora è ben nascosto» rantolò Castello.

«Oppure ce l’abbiamo talmente sotto gli occhi che non lo vediamo» suggerì Lefèvre.

Sebag si mise a riflettere a voce alta.

«Se c’è un indizio, può essere solo nell’ultima frase. Tuttavia, ha detto soltanto: “Parcheggio di Força Réal, ultima tappa, per oggi”».

Lo ripeté lentamente, come fra sé e sé.

«“Per oggi...”. Questo lo trovo abbastanza rassicurante: il gioco non è finito».

I gendarmes continuavano a frugare i dintorni dell’eremo. Uno di loro alzò di colpo la testa e chiamò uno dei colleghi. L’altro si avvicinò rapidamente. Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e gliene lanciò una. Sebag ricominciò a riflettere.

«Parcheggio di Força Réal...».

Con lo sguardo spazzò il parcheggio e gli occhi si posarono sulla macchia rossa della station wagon. Allora ricordò una delle testimonianze raccolte da Molina qualche giorno prima. Un ornitologo aveva detto di aver notato più volte una station wagon rossa.

«Credevo che quella macchina appartenesse a turisti o escursionisti» disse Castello, che aveva seguito lo sguardo di Sebag.

«Anch’io ho pensato la stessa cosa» disse Lefèvre.

«È davvero molto astuto» commentò l’ispettore. «Sapeva che saremmo stati accecati dall’idea di trovare un cadavere sotterrato e che quindi avremmo impiegato del tempo a vedere ciò che invece avrebbe dovuto saltarci agli occhi».

Discutendo, i tre uomini si erano avvicinati alla vettura. Era una Volvo station wagon.

Castello chiamò un agente. Gli chiese di trasmettere la targa al commissariato.

«Voglio una risposta nel giro di un minuto» intimò.

Lefèvre girava intorno alla macchina. Si fermò davanti al finestrino dal lato guida.

«Si direbbe sia stata messa in moto senza chiavi» disse eccitato indicando i fili che pendevano sotto il volante.

Lefèvre continuava a ispezionare il veicolo. Appoggiò la testa al lunotto posteriore. Sebag lo vide rabbrividire.

«C’è un telone che nasconde qualcosa...».

Castello si avvicinò, ma l’ispettore preferì mantenersi a distanza. Gli era parso di intravedere la forma di un corpo sotto la copertura e la nausea già gli smuoveva lo stomaco. Rivide le foto di Ingrid Raven. Il corpo perfetto della ragazza. I suoi occhi splendenti e il sorriso pieno di vita.

L’agente tornò quasi subito.

«Il veicolo appartiene a un certo Didier Coll, domiciliato a Perpignan in rue de la Fusterie. Il furto è stato denunciato giovedì scorso».

Castello diede il segnale. I poliziotti cominciarono a esaminare la carrozzeria della macchina. Notarono alcuni bozzi sulla lamiera, ma sembravano tutti abbastanza vecchi. Presero le impronte digitali sulle maniglie delle porte, prima di prelevare campioni di terra dalle ruote e da sotto il telaio.

Poi arrivò il momento di aprire il bagagliaio.

Con le mani infilate nei guanti, Jean Pagès spinse il meccanismo d’apertura. Il portellone non fece alcuna resistenza e si aprì piano. Il responsabile della scientifica attese che una sua collaboratrice facesse qualche foto, poi afferrò il telone. Prese un profondo respiro e tirò con lentezza. Istintivamente i poliziotti si ammassarono attorno al bagagliaio. Castello fu costretto a ricordare ai suoi uomini di mantenere un minimo di contegno.

La copertura scivolò. Tutti trattennero il respiro.

Il bagagliaio della vettura conteneva solo alcuni abiti femminili. E un lungo cuscino, per simulare la sagoma di un corpo.