35.
Ciò che a prima vista sorprese Sebag nell’appartamento fu il vuoto. Poi, il silenzio.
La stanza era grande, provvista di due alte finestre che davano sulla strada. Era arredata con due poltrone, separate da un tavolino basso su cui era appoggiato un libro. La Bibbia. Un lampadario di forma semplice – una sfera semitrasparente piantata su un lungo piede di metallo grigio – illuminava la scena. Le pareti erano rosa pallido, senza altre decorazioni a parte un fregio azzurro a circa un terzo dell’altezza. La moquette spessa color verde soffocava il rumore dei passi. E faceva venir voglia di passarvi il tosaerba, piuttosto che l’aspirapolvere.
Coll indossava un pantalone azzurro e una polo giallo senape. Aveva più o meno la stessa statura di Sebag, ma era più snello. Gli occhi neri si piantarono in quelli dell’ispettore. La mano non ebbe nessun tremito mentre indicava la poltrona.
«Prego».
La sua voce grave sembrava venire inghiottita dai muri e dal soffitto perfettamente insonorizzati. Sebag si sedette. La poltrona di cuoio marrone era confortevole. Appoggiò i gomiti sui braccioli in legno d’acajou.
«Fa delle buone letture» disse Sebag a mo’ di complimento indicando la Bibbia davanti a sé.
«È l’unico romanzo che riesco a tollerare» rispose Coll sedendosi a sua volta. «Lei conosce la Bibbia?».
«Di nome, a grandi linee. Conosco soprattutto la fine».
Sebag tese l’orecchio, ma non percepì alcuno dei rumori abituali della strada. In quell’appartamento il silenzio era profondo come in uno studio di registrazione.
«Non le piace il rumore, vero?».
«Apprezzo il silenzio sopra ogni cosa».
«Allora perché non vivere in campagna?».
«La campagna non è silenziosa. Non c’è nulla di più chiassoso della natura».
Sebag contemplò il vuoto che lo circondava. Nessun soprammobile, nessuna foto. All’improvviso ebbe l’impressione che l’arredamento di quell’appartamento fosse stato sistemato apposta per l’occasione. L’ospite non aveva fatto alcun commento sull’orario tardivo della sua visita. Non era sembrato nemmeno sorpreso. Gli aveva aperto il portone dal citofono, senza commenti, ed era uscito sul pianerottolo ad accoglierlo. Come se avesse atteso un amico.
«Come posso esserle utile?».
«Lei sa perché sono qui?» rispose Sebag, volutamente evasivo.
Coll non rispose subito. Sembrò soppesare il suo avversario.
«Alla fine si è deciso a interessarsi alla mia macchina, vero?».
Sebag annuì.
«Le hanno spiegato a cosa è servita?».
«Me l’ha detto il suo collega. Una storia legata a un rapimento, mi pare».
«Rapimento e omicidio» precisò Sebag.
«Credevo che al giorno d’oggi in Francia non rapissero più nessuno. Mi ricordo di vari casi famosi negli anni Settanta, ma pensavo che la moda fosse passata».
«Sa com’è con le mode...».
«Già, tornano sempre...».
«Esatto».
A vederli si sarebbe potuto pensare a due conoscenti di vecchia data che chiacchieravano mentre prendevano qualcosa da bere. Era un buon segno. Eppure Sebag si sentiva a disagio. L’eco attutita di una porta che sbatteva arrivò dal pianerottolo. Il silenzio tacque per un istante. Coll ebbe un gesto di fastidio.
«Il mio collega le ha mostrato delle foto, l’altro giorno?».
«No. Avrebbe dovuto?».
Sebag tirò fuori il portafoglio dalla tasca della giacca.
«No, non era un obbligo. Diciamo che io preferisco farlo sistematicamente. Non si sa mai. Ci sono sempre degli eventi fortuiti in un’indagine, ma non per forza lì dove uno crede che siano. Forse c’è una buona ragione per cui è stata usata proprio la sua macchina in questo caso. Forse, senza saperlo, lei è collegato a questa storia».
«Mi sta spaventando, ispettore».
Sebag aprì il portafoglio. Esitò un secondo e poi si astenne dall’aggiungere al mucchio quella di Claire. Didier Coll prese le fotografie e si diede il tempo di osservarle. Sebag ebbe la sensazione che la pausa fosse calcolata. Era un tempo di attesa, non di riflessione.
«No, questi visi non mi dicono veramente nulla» si decise a rispondere Coll.
Appoggiò le fotografie sul tavolino, accanto alla Bibbia. Sebag finì per tirare fuori la foto di Claire.
«E questa?».
Coll prese la foto e se l’avvicinò agli occhi. Stavolta guardò sul serio.
«Chi è?».
Sebag si guardò bene dal rispondere.
«Lei conosce bene Gérard Barrère, mi sembra».
«Bene è una parola grossa».
«Ha fatto il suo nome quando è venuto a cercarmi al commissariato».
«Pensavo che mi avrebbe aiutato ad attirare la sua attenzione».
«È in affari con lui?».
«I nostri dirigenti amano ricompensare ogni anno i migliori quadri. E io sono incaricato dei contatti con Perpign’And Co per l’organizzazione delle serate».
«Vi partecipa anche lei?».
«Il meno spesso possibile».
«Perché?».
«Non mi piacciono gli svaghi di gruppo. E poi non mi allontano mai da Perpignan. Per via di mia madre».
Parlava lentamente punteggiando le frasi di respiri pesanti. Sebag fece finta di non saperne nulla.
«Sua madre è malata?».
«No, non è malata. Diciamo che è anziana e sta perdendo la testa. È in una casa di riposo».
«E va a trovarla regolarmente?».
«Cerco di andarci tutti i giorni».
Sebag gli propinò una faccia ammirata.
«Lei è un figlio modello».
Coll respinse il complimento.
«No, niente affatto. Se fossi stato un figlio modello non l’avrei messa in una casa di riposo».
«Ma come avrebbe potuto fare altrimenti? Lei lavora».
«Ci si può sempre far aiutare».
Sebag fece un ampio gesto con le braccia.
«E poi qui sarebbe stato poco pratico».
«In effetti sì» rispose Coll, sorpreso, come se non avesse mai pensato a quell’aspetto. «Però suvvia, non credo sia venuto fin qui per parlare di mia madre».
«Ha ragione. Torniamo a Gérard Barrère. Pare che Lopez, l’uomo che le ho mostrato sulla foto, lavorasse di tanto in tanto per Barrère. Forse ha avuto occasione di incontrarlo...».
Coll mise giù la foto di Claire, che teneva ancora in mano, e diede una nuova occhiata a quella di Lopez.
«No, davvero non mi dice nulla, questo viso».
Allora Sebag snocciolò qualche domanda sulla Volvo. Gli chiese nuovamente dove l’avesse parcheggiata, quando l’avesse usata per l’ultima volta, come si fosse reso conto del furto ecc. Coll gli diede le stesse risposte che aveva dato a Ménard. Sebag notò che spesso utilizzava persino le stesse parole e le stesse espressioni contenute nel rapporto di polizia.
«Dopo il furto ha comprato un’altra macchina?».
«No, non ancora. Speravo di recuperare la mia».
«Non ci conti troppo: è una prova a carico. Attualmente ne ha presa una a nolo?».
«No. Io... in realtà non mi serve davvero. Non ho escluso di noleggiarne una per un weekend, ma per tutti i giorni, dall’ufficio a casa passando per la casa di riposo, posso fare tutto in scooter».
Sebag provava un senso di malessere. Coll parlava bene, ma le sue esitazioni mancavano di spontaneità.
Il silenzio riprese possesso della stanza. Sebag annotò qualche informazione sul suo quadernetto. Fece con calma. Rifletteva sulla piega presa dalla conversazione e tentava di osservare Coll di straforo. I momenti di silenzio erano la cosa più difficile da gestire per i sospettati, perché li lasciavano soli con le loro paure. Tuttavia Coll non tradiva né inquietudine né tensione. Si limitava a respirare. Con calma.
«Era soddisfatto della sua macchina?» chiese Sebag d’un tratto.
«Che vuol dire?» fece Coll, sorpreso.
«Curiosità personale, mi scusi» mentì Sebag. «Vorrei cambiare macchina e sto cercando appunto una station wagon. Quando si ha una casa con giardino è più comoda per andare al punto di raccolta rifiuti, per esempio. Nel bagagliaio di una berlina non c’entra nulla. Quindi, la Volvo è pratica?».
«È solida, anche se non è molto comoda».
«Quanti chilometri aveva?».
«180.000».
«E funzionava bene?».
«Mai avuto problemi».
«Quanti anni aveva?».
«Più di venti».
Sebag fece finta di fare un rapido calcolo.
«Allora è vero che non la usa spesso. D’altra parte me lo chiedevo prima: perché mai comprare una macchina simile se si abita in città?».
«Non l’ho comprata: l’ho presa da mia madre quando è andata a stare alla casa di riposo».
«Sua madre abitava in campagna?».
Sebag aveva parlato senza riflettere e fu solo nel porre la domanda che ebbe, per così dire, un’epifania. Si sforzò di non lasciar trapelare nulla.
«Sì» rispose Coll con una voce che a Sebag sembrò ancora più bassa. «Nei fatti, fu mio padre a comprare quella macchina».
Sebag aggirò l’ostacolo. Bisognava cambiare terreno.
«Suo padre è deceduto?».
«In un certo senso, sì. Se n’è andato senza lasciare recapiti più o meno vent’anni fa. Aveva appena comprato la macchina».
Sebag assunse un tono che sperava suonasse leggero.
«Ora capisco meglio. Infatti mi dicevo anche: una macchina così grande per una signora anziana... mi lasciava perplesso. Forse l’ha tenuta come ricordo?».
«In un certo senso».
Sebag sorrise. Un po’ ingenuamente, ma non troppo.
«Quindi, in conclusione, lei la consiglierebbe, una Volvo?».
«Non so. Ha dei figli?».
«Due grandi, sì».
«Allora perché no. Avrà più spazio per quando andrà in vacanza».
Sebag immaginò tutta la famiglia nella Volvo. Una macchina simile sarebbe potuta risultare utile. Un tempo. Fece ancora qualche domanda concernente il caso e si sforzò di interessarsi alle risposte. Poi si alzò e si congedò.
«Mi scuso per averla disturbata così tardi».
«Non fa nulla. Spero di esserle stato utile».
I due uomini si strinsero la mano. Come all’inizio della conversazione, gli occhi di Coll si fissarono in quelli dell’ispettore. Cercarono di leggervi dentro. La scena ricordò a Sebag un film in bianco e nero che aveva visto da ragazzino. La storia di una classe di bambini malefici e superdotati. Bambini assassini. Dotati di poteri sovrannaturali e capaci di leggere nel pensiero. Alla fine, il loro maestro vuole sterminarli. Nasconde una bomba in classe, ma i bambini indovinano ben presto che sta covando qualcosa. Si avvicinano a lui. Occhi azzurri, capelli biondi, facce d’angelo, lo circondano e cercano di scoprire quello che invece lui vuole tacere. Allora il maestro si concentra. Fissa la mente su un muro di mattoni. I bambini decifrano i suoi pensieri, ma non riescono a vedere altro che quel muro di mattoni.
E la bomba esplode.
«Per quanto ha potuto» rispose Sebag sforzandosi di pensare a un muro di mattoni.
La porta si richiuse alle sue spalle. Pensò che ciascuno aveva avuto ciò che si aspettava da quella conversazione. Coll, il brivido del gioco, lui, una nuova pista che si sarebbe affrettato a seguire già dall’indomani. Scese lentamente le scale sforzandosi di rivivere l’incontro che aveva appena avuto col sospettato. Coll non si era tradito, non aveva fatto trapelare nulla. E tuttavia Sebag sentiva crescere dentro di sé un sentimento diffuso, ma potente: la certezza di non essersi sbagliato.