36.
Aveva appena chiuso la porta e non sapeva cosa pensare. In fin dei conti, si divertiva.
La chiacchierata gli era piaciuta. Un momento forte, e molto atteso. Raskol’nikov che si confronta con Porfirij. Riteneva di essere stato impeccabile. Calmo e disteso, non aveva scorto alcuna nota stonata nelle sue risposte.
Anche l’ispettore Sebag era stato bravo. Domande pertinenti. Soprattutto quando aveva menzionato la casa. Ma aveva perso l’occasione, passando troppo velocemente ad altro.
A meno che...
Non sapeva bene cosa pensare. Ed era fantastico!
Doveva restare in guardia e tenersi pronto per la prossima tappa.
Già.
Cominciava a rimpiangere la fine che aveva immaginato. Non poteva perdere, ma come avrebbe saputo se aveva vinto?
Fa niente!
Si era concesso di improvvisare quanto alla forma, ma non nella sostanza. La fine era fissata da tempo, e bisognava attenervisi. Non si potevano cambiare le regole a partita iniziata.
Da parte della ragazza non aveva nulla da temere, come sempre. Era passato a trovarla dopo il lavoro: era tranquilla, paziente e rassegnata. Il sonnifero che le versava tutti i giorni nella brocca d’acqua favoriva quella disposizione d’animo, ma non la spiegava del tutto. Sotto le sembianze di donna libera, in fin dei conti era di natura molto docile. Per prudenza aveva limitato le visite a una al giorno.
Solo un’ora.
E si obbligava a tornare nell’appartamento per la notte. Il vantaggio era che dormiva meglio, lontano da quel corpo.
La giornata sarebbe stata da segnare con un circoletto rosso. Quella conversazione con l’ispettore, e poco prima il messaggio lasciatogli sul cellulare dalla direttrice della casa di riposo.
Qualcuno di un ministero aveva chiamato la struttura. Cercavano un figlio modello. Devoto. Amorevole. Attento. «Ho pensato immediatamente a lei» aveva detto la direttrice.
Poco c’era mancato che non scoppiasse a ridere.
Un figlio modello... toh, anche l’ispettore aveva usato quell’espressione. Un figlio modello. Io, che vado a trovare mia madre solo per contemplare la sua decadenza...
Lei non capiva più nulla e lui finalmente confessava tutte le malefatte compiute da bambino. I soldi rubati dalla borsa, i gatti accecati, la merda di cane mescolata alla marmellata per la colazione. Le parlava anche del marito. Suo padre. Se n’era andato un po’ presto, pensava con rimpianto.
La cosa che gli piaceva di più era dare da mangiare a sua madre. Masticava lentamente per via della dentiera inadatta alle sue gengive marce e lui si divertiva a imboccarla a cucchiaiate. La poveretta ne risputava fuori la metà. Disgustoso.
La faceva anche bere molto. Finché non finiva per pisciarsi addosso. Allora la cambiava. Sotto gli sguardi ammirati – e riconoscenti – delle giovani inservienti della casa di riposo.
Per nulla al mondo avrebbe passato una giornata lontano da sua madre.
Respirò. Contò lentamente fino a dieci. La respirazione era il suo unico tipo di ginnastica. La sua unica filosofia. Il controllo assoluto di sé non poteva passare che attraverso il controllo assoluto della respirazione.
Tuttavia sentiva che, man mano che si avvicinava al momento decisivo, aveva la tendenza a lasciarsi andare a voli di fantasia.
Aveva solo un rimpianto: non aver giocato prima. Perché aveva dovuto aspettare la malattia di sua madre? Come aveva potuto temere che un giorno lei si vergognasse di lui! La odiava così tanto.
Di giornate come quella non ce ne sarebbero state più. Peccato. Davvero non aveva riso per un pelo.
Comprese improvvisamente che niente di tutto ciò sarebbe mai successo se una volta, una volta soltanto, si fosse dimostrato capace di ridere.