37.
Sebag aveva dormito a tratti, con la testa appoggiata alla scrivania. Sentiva il corpo stanco, ma la mente lucida. Sgombra. Si era concesso la mattinata per poter fare un significativo passo avanti. Sperava di portare a Castello, quel pomeriggio, le prove del coinvolgimento di Coll.
Anneke Verbrucke non aveva richiamato. Digitò di nuovo il suo numero, ma dopo una decina di squilli fu dirottato nuovamente sulla segreteria telefonica.
Molina aveva fatto la guardia davanti al palazzo di Coll fino alle sette di mattina, prima di andare a dormire. Di comune accordo avevano chiesto a Lambert di dargli il cambio. Era un azzardo, ma non avevano altra scelta. Llach era a un congresso del suo sindacato a Montpellier e Ménard si era rifiutato di aiutarli.
A Sebag pizzicavano gli occhi. Erano rossi. Se n’era accorto quando era andato in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua fresca. Doveva resistere. Erano all’epilogo.
Telefonò a Barrère ed ebbe il piacere di svegliarlo. Barrère protestò più per forma che per altro, da quando i poliziotti avevano scoperto alcune sue attività non poteva rifiutar loro niente. Per camuffare l’intento della sua telefonata Sebag ebbe cura di iniziare con domande varie riguardanti la sua ultima deposizione. Poi affrontò la questione che lo preoccupava.
«Didier Coll? Sì, lo conosco, certo, ma non mi ricordo di averlo indirizzato da lei. E d’altra parte, in virtù di cosa avrei dovuto farlo? Non credo di essermi fatto degli amici tra i poliziotti, negli ultimi tempi».
«Devo essermi sbagliato, allora. Non importa».
Attaccò subito con altre domande di scarso rilievo. Fu Barrère a tornare sull’argomento alla fine della conversazione.
«Ora che ci ripenso, riguardo a Coll... L’ha incrociato nella mia agenzia, l’altro giorno».
«Io? È sicuro di non confondersi con Ménard, il mio collega?».
«No, no. Avevo un appuntamento con lui e sono stato costretto a farlo attendere per poter ricevere lei».
Era possibile che fosse quello, il famoso legame? si chiese Sebag. Aveva cercato tanto. Nel suo passato, nelle sue conoscenze. La domanda l’aveva tormentato giorno e notte, in certi momenti si era anche sentito in colpa. E la spiegazione invece, molto semplicemente, era lì. Aveva incrociato Coll per caso nell’ufficio di Barrère. E Coll per questo l’aveva scelto come interlocutore. “Quel tipo è completamente pazzo”.
Barrère era sempre al telefono. Aveva appena detto qualcosa.
«Come scusi?» disse Sebag.
«Le chiedevo se era così urgente».
«Cosa?».
«Be’, questa telefonata».
Sebag non voleva mettergli la pulce nell’orecchio. Barrère era capacissimo di avvertire Coll.
«No, ha ragione. Si trattava di dettagli poco importanti. Al signor Coll è stata rubata la macchina e stiamo cercando di ritrovarla, ma come ben sa, ogni ora è quella giusta...».
Riattaccò.
Scese a prendersi un caffè. Col bicchierino in mano passò all’ingresso a far due chiacchiere con Martine. La giovane poliziotta si ricordava perfettamente della telefonata di qualche giorno addietro, ma non seppe dire perché, sentendo sussurrare il rapitore, avesse pensato che si trattava del proprietario della macchina rubata.
«L’ha visto solo una volta?» chiese Sebag.
«Sì, ma il giorno dopo – o quello dopo ancora, non mi ricordo bene – ha richiamato».
«Quindi l’aveva già sentito al telefono».
«Sì».
Sebag annuì senza dir nulla. Guardò Martine, lei gli sorrise senza capire. Decise che poteva fidarsi dell’impressione che aveva avuto la ragazza.
Tornato in ufficio chiamò la casa di riposo Joffre. Era ancora troppo presto per le agenzie di autonoleggio e l’ufficio imposte. La direttrice fu sorpresa di quella telefonata così mattiniera, ma era già al lavoro e aveva riflettuto sulla richiesta fatta da Sebag.
«Volevo proporle un nome, ma non ho ancora potuto contattare la persona in questione. Ho lasciato un messaggio e attendo risposta».
«Ha detto la persona... Si tratta di un uomo, come le avevo chiesto, vero?».
«Sì sì, certo. Uno scapolo, per quanto ne so, in ogni caso non è sposato. Sulla quarantina. Viene a trovare la madre tutti i giorni e non permette a nessuno di occuparsene quando lui è qui. Tra l’altro credevo che ieri, quando lei ha chiamato, fosse proprio qui e sono andata a cercarlo subito, ma non l’ho trovato. È una persona molto perbene e...».
Sebag non prestò attenzione al seguito. Coll avrebbe dovuto essere in camera della madre durante la telefonata, ma invece si era assentato. Avrebbe potuto lasciare la casa di riposo senza che Molina se ne accorgesse? Ecco che questa cosa poteva rivelarsi importante. A meno che non avesse sbagliato persona. Bisognava esserne certi. Didier Coll forse non era quel figlio modello scelto dalla direttrice.
«Se potessi sapere il nome della persona, avvierei subito la pratica».
«Non sono sicura che sia una buona idea precipitare le cose. È un signore molto discreto. Non so se accetterà».
«Lo farà di certo, per far piacere a sua madre. Quale madre non sarebbe felice e fiera di vedere premiato il proprio figlio?».
«Ah, sapesse, sua madre...».
«Che cosa intende?».
«È completamente fuori di testa, la poveretta, e già da varie settimane non riconosce più nessuno. Nemmeno il figlio».
«Davvero? E lui si occupa comunque di lei? Che devozione! Il ministro vorrà assolutamente premiare questo ragazzo. Ci dica il suo nome, la prego. Se dovesse mostrarsi titubante, potremo sempre appianare le cose in seguito. Vedrò il ministro stamattina, sarà contento».
La direttrice finì per cedere.
«Si tratta del signor Coll».
«E qual è il nome proprio, di questo signor Coye?».
«Il nome sarebbe Didier, ma faccia attenzione, il cognome si pronuncia “Coye” ma si scrive coll, è un cognome di queste parti».
«E quindi mi stava dicendo che ieri non è riuscito a contattarlo? Io l’ho chiamata verso le 19, vero?».
«Quando ho riattaccato erano le 19.07, per la precisione».
«Lei era in ufficio ieri dopo le 19 e stamattina è di nuovo lì, e non sono ancora le 8... di sabato! Be’, se il ministero dovesse mai voler premiare i migliori responsabili di case di riposo, saprei che nome fare... Dunque, alle 19.07 il signor Coll era andato via? Non è che magari si è solo assentato un attimo, il tempo di andare in bagno o fumare una sigaretta?».
«Ehm, no, non credo: sono restata un quarto d’ora nella camera della madre e non l’ho visto rientrare. Dopo sono dovuta tornare a casa, i miei figli mi aspettavano».
«Ma certo, ma certo, non importa».
Sebag avrebbe avuto altre domande da fare alla direttrice, ma non poteva senza rischiare di destarle dei sospetti. Le promise di parlare di lei in termini entusiastici col ministro.
Consultò la mappa di Perpignan che teneva sempre a portata di mano in un cassetto della scrivania. La casa di riposo Joffre occupava un intero isolato. La mappa non era molto precisa, ma si poteva immaginare che vi fosse un’altra uscita dalla parte opposta dell’edificio. Digitò nuovamente il numero della casa di riposo, ma stavolta tentò di camuffare la voce.
«Sì, certo, abbiamo un’entrata di servizio in rue du Couchant» rivelò la donna alla reception. «Per i fornitori».
«E non è sorvegliata? Alcuni dei vostri ospiti non ci stanno più con la testa, non c’è il rischio che tentino di uscire da quella parte?».
«La porta è sempre chiusa. Il guardiano ha la sua postazione giusto lì a fianco, è lui che ha le chiavi».
«Per caso succede che qualche volta i visitatori usino quella porta?».
«No, è vietato, proprio per ragioni di sicurezza. Se vuole, le posso passare il guardiano, glielo potrà confermare».
Sebag rifletté rapidamente. Era troppo presto per fare domande così dirette. Doveva prima fare altre verifiche.
La cosa più importante, adesso, era localizzare la casa in cui Coll poteva tener prigioniera Ingrid. Chiamò uno dei loro contatti alla centrale dell’ufficio imposte, un tipo abbastanza importante a cui avevano fatto un piacere in un caso che riguardava la figlia. Detenzione di cannabis. La ragazzina era stata arrestata nel corso di un banale controllo. Effettivamente, non aveva molto con sé.
«È una questione di vita o di morte» ci tenne a precisare Sebag, «nonché una questione di ore».
Il paparino non si fece pregare troppo e promise di procurarsi le informazioni entro fine mattinata. Erano allo sprint finale. Sebag sentiva una grande eccitazione e si alzò di botto. Si sarebbe quasi quasi andato a prendere un altro caffè, ma non era il caso. Quindi si accontentò di uscire in corridoio e riempirsi un bicchiere d’acqua. Sentì risuonare nella tromba delle scale il vocione di Castello. Lasciò perdere il bicchiere e si andò a nascondere in bagno. Seduto sulla tazza si sentì ridicolo per aver agito così, ma non voleva ancora incontrare il commissario. Era ancora troppo presto. Nel giro di qualche ora, o magari di qualche minuto, sarebbe stato diverso.
Tornato nel suo ufficio si chiuse dentro a doppia mandata e poi prese di nuovo il telefono. Aveva sotto gli occhi una lunga lista di agenzie di autonoleggio. Una sessantina. Cominciò dalle più importanti. La legge delle probabilità e la logica indicavano che un malintenzionato che avesse voluto noleggiare una macchina sarebbe passato più facilmente inosservato in una grande agenzia che in una piccola. Lo stesso ragionamento spinse Sebag a preferire le agenzie dotate di un ufficio in aeroporto. Per evitare di rischiare gli stessi rifiuti collezionati con le agenzie immobiliari, stavolta si inventò una storiella su una fuga dopo un incidente.
Al nono tentativo, fu ricompensato.
«Sì, ho una scheda a nome di Didier Coll, domiciliato a Perpignan. Ha noleggiato una Renault Mégane station wagon la settimana scorsa, per quindici giorni».
Sebag prese nota delle date e del numero di targa del veicolo.
«Si tratta di un incidente grave?» chiese il direttore dell’agenzia.
«No, non troppo» lo rassicurò Sebag. «Ma per non intralciare le indagini ho bisogno della sua discrezione. Se il veicolo è coinvolto nell’incidente, sarà meglio collaborare. Chiaro?».
«Certo, signore» rispose il responsabile dell’autonoleggio.
Sebag sentiva un formicolio alle dita. Finalmente! Aveva una prova che Coll aveva mentito. I pezzi del puzzle cominciavano a combaciare. Coll probabilmente aveva parcheggiato la macchina a noleggio dietro la casa di riposo per mettere fuori gioco un eventuale pedinatore. Mentre loro lo pensavano presso la madre, lui si recava dove teneva prigioniera Ingrid. Aveva bisogno di una conferma.
Chiamò il guardiano della casa di riposo.
«Mi scusi, capita che i parenti degli ospiti della casa di riposo talvolta usino la porta fornitori, quella di cui lei ha la chiave?».
«No, è vietato» rispose il guardiano.
«Ma non capita proprio mai mai?» insisté Sebag. «Questa domanda potrebbe rivelarsi estremamente decisiva in un’indagine molto importante, e dunque gliela ripeto, ma stavolta in forma ufficiale e la sua risposta sarà messa a verbale: capita che i visitatori talvolta usino la porta fornitori per uscire dall’edificio?».
Seguì un silenzio di qualche secondo.
«Ehm... può succedere» si decise infine a rispondere il guardiano, «è potuto succedere, talvolta».
A Sebag sembrava di vederlo contorcersi all’altro capo del filo.
«È potuto succedere o è successo?».
«Direi che è successo qualche volta, sì».
«Per esempio ieri?».
Nuovo silenzio. Sebag si fece più preciso.
«A che ora è uscito, il signor Coll, da quella porta?».
Sempre nessuna risposta.
«Pronto? È ancora in linea?».
«Sì, sì, ehm... mi scusi, ma ora come ora non posso risponderle. Mi può richiamare più tardi?».
Il furbastro stava esagerando.
«Forse preferisce che mandi un paio di agenti a prenderla? La direzione ne sarà sicuramente felice».
«Io... ehm... un secondo, un solo istante. Per favore».
Sebag sentì dei rumori sgradevoli nel ricevitore. Come se la cornetta fosse stata messa giù bruscamente. Poi sentì dei rumori di conversazione, lontani. Alla fine, la voce del guardiano si fece nuovamente sentire.
«Pronto, allora, cos’è che mi aveva chiesto di preciso?».
Sebag fu preso seriamente dalla voglia di attaccare per andare sul posto a suonargliele, a quello stronzo.
«Le chiedevo a che ora il signor Coll fosse uscito da quella porta normalmente chiusa».
«Poco prima delle sette».
«Ed è tornato?».
«Poco dopo le otto».
«Ne è sicuro?».
«Stavo guardando il tg ed eravamo alla terza o quarta notizia, quando ha suonato».
«Il signor Coll usa spesso quella porta?».
«Lo fa da qualche giorno. Si assenta per sbrigare una commissione e poi ritorna».
«E perché passa di là?».
«Parcheggia qui dietro. Mi ha detto che è più facile trovare posto».
Il guardiano sembrava aver accettato senza difficoltà una spiegazione che tuttavia era poco credibile.
«Ma la prima volta che entra e l’ultima che esce, non passa forse dall’ingresso principale?».
«Sì. Me lo chiede solo quando ha bisogno di assentarsi».
«E si assenta spesso?».
«In questi ultimi tempi, tutti i giorni».
«E ogni volta le allunga una mancia, vero?».
«Ehm, lui... è un signore molto simpatico, ecco».
«Lo immagino. Spero che abbia approfittato bene della sua generosità, perché presto avrà dei guai».
«Ma... io non capisco... perché...».
«Temo che la signora Raynald non apprezzi affatto questo modo di arrotondare lo stipendio».
«Ma... io... lei... deve dirglielo per forza?».
Sebag lasciò cuocere per qualche istante il guardiano nel suo brodo. Aveva una proposta da fargli.
«Anche io sono un tipo piuttosto simpatico. Per questa volta voglio chiudere un occhio. A una condizione».
«Sì» si affrettò ad accettare il guardiano.
«A condizione che lei mi avverta immediatamente la prossima volta che il signor Coll utilizzerà quell’uscita. Va bene?».
Un profondo silenzio seguì a questa sua offerta.
«Allora?».
«È che...».
«Preferisce che avverta la direttrice?».
«No, no, assolutamente. È che...».
Il guardiano deglutì con difficoltà e finì per sputare il rospo.
«È che se prima non ho potuto parlarle subito, era proprio perché il signor Coll stava uscendo».
«Porca puttana!».
Per la rabbia Sebag per poco non lanciò via il telefono, ma si trattenne e chiamò Lambert sul cellulare.
«Come si sta davanti alla casa di riposo?».
«Come lo sai?».
«Un uccellino. Avresti potuto avvertirmi che era uscito di casa».
«Stavo per farlo, ma non ne ho avuto il tempo. L’ho seguito il più discretamente possibile, ma non è facile. C’è qualche problema?».
«Più o meno...».
Gli raccontò velocemente quello che aveva appena saputo.
«Ascolta, lascia perdere l’ingresso principale e vatti a piazzare subito in rue du Couchant. Non appena lo vedi parcheggiare, mi chiami e torni sul davanti, ok?».
«Ok. Pensi che sia grave?».
«Non ne ho idea. Tu sei sicuro che non si sia accorto di te?».
«Lo spero, ma non è facile seguire uno scooter in macchina».
«Molina non ti ha lasciato la moto?».
«Me l’ha proposto, ma io non ne ho mai guidata una e quindi ho preferito la macchina».
Sebag sbuffò rumorosamente. L’ansia cominciava ad avere la meglio. Squillò il cellulare. Numero privato. Rispose: era il suo contatto dall’ufficio imposte.
«Ho le informazioni».
Decisamente, tutto stava acquistando velocità.
«Come sospettava, Marguerite Coll possiede una casa a Le Soler. Stando ai nostri dati, si tratta di un vecchio casolare con un grande terreno di tremila metri quadrati».
Sebag prese nota dell’indirizzo e lo ringraziò.
Restò qualche secondo a osservare il pezzetto di carta. Assaporando il momento. Adesso ne sapeva abbastanza per informare Castello.
Decise di mettere al corrente prima Molina. Se l’era meritato. Il telefono squillò a vuoto e si inserì la segreteria telefonica. Sebag compose nuovamente il numero. Nel frattempo, aveva aperto l’elenco telefonico su Internet. Sapeva che il casolare non aveva il telefono, ma cercò qualche indirizzo nelle vicinanze. Quando ne trovò uno, cliccò sull’opzione veduta dall’alto. Stava zoomando sulla foto quando finalmente Molina rispose. Qualche frase di spiegazione bastò a farlo svegliare del tutto.
«Arrivo. Vai da Castello, ti raggiungo».
Sebag non riattaccò subito. Il computer era arrivato al massimo ingrandimento della veduta aerea, svelando l’intera proprietà della famiglia Coll. In fondo al terreno c’era una grande macchia scura che poteva benissimo essere un laghetto.
Castello era al telefono quando Sebag entrò nel suo ufficio. Si sedette di fronte a lui. Prese un foglio e una matita. Scrisse una sola parola e la mostrò al commissario, che troncò la conversazione.
«È così “urgente”?» chiese.
«Anche di più».
Prima di salire Sebag si era preso il tempo di fare il punto della situazione e quindi fu in grado di fornire un’esposizione chiara e organizzata.
Sebag non la tirò per le lunghe. Il tempo dei “forse” e dei “può darsi” era finito. Didier Coll era il rapitore di Ingrid Raven e l’assassino di José Lopez, affermò rivolgendosi al commissario. Aveva quarantatré anni, era alto e magro, capelli chiari, occhi neri. La voce era bassa e profonda, molto riconoscibile al telefono a meno che il timbro non fosse dissimulato dal sussurro. Quella voce così caratteristica che a qualcuno ricordava quella del cantante americano Barry White, di cui José Lopez era fan. Per nascondere l’identità del misterioso cliente, dunque, il tassista l’aveva ribattezzato con le iniziali del suo cantante preferito: BW.
Sebag sentiva lo sguardo di Castello farsi più intenso e vide un sorrisetto far capolino sulle labbra. Come direttore delle risorse umane di un’impresa di lavori pubblici, Didier Coll aveva contatti regolari con Perpign’And Co. Era lì che aveva conosciuto Lopez; ed era sempre lì che aveva poi incrociato il poliziotto che avrebbe scelto come interlocutore privilegiato. Dopo il finto furto della sua macchina, si era rivolto proprio a lui. Per pura provocazione. Ed era arrivato persino a tentare di rintracciarlo al telefono.
Didier Coll viveva in un appartamento in centro, ma aveva omesso di dire agli inquirenti che disponeva anche di una proprietà situata a Le Soler. Possibile nascondiglio in cui tenere una prigioniera, il casolare apparteneva nei fatti alla madre di Coll ed era costruito al centro di un grande terreno un po’ appartato che comprendeva... – Sebag esitò un momento – comprendeva un laghetto abbastanza grande.
Altra bugia del sospettato: dopo il furto – o piuttosto l’abbandono della Volvo – sosteneva di aver girato esclusivamente in scooter mentre, in realtà, aveva noleggiato un’altra auto. Sempre una station wagon, aggiunse Sebag con un tremito nella voce. Questa macchina a noleggio era parcheggiata in una strada del quartiere Mailloles davanti all’uscita di servizio della casa di riposo in cui alloggiava la madre, ormai affetta da demenza senile. Questo sotterfugio aveva permesso all’individuo di eludere un pedinamento. Si era assentato per più di un’ora, il che gli aveva lasciato il tempo di andare e tornare da Le Soler per recarsi dalla prigioniera.
Sebag aveva concluso. Castello annuiva con entusiasmo. Stava per congratularsi con l’ispettore quando quest’ultimo lo interruppe.
«In questo preciso istante è da Ingrid. Di certo sa che sappiamo. Dobbiamo sbrigarci, commissario».