4.

 

Gilles, mi faresti un piacere?».

Percependo l’esitazione del suo collega, Jacques Molina guardò ostentatamente l’orologio. Era tardi per arrivare al lavoro.

«Ovviamente a buon rendere, promesso» insisté.

Jacques Molina faceva coppia con Gilles Sebag da quattro anni. Condividevano l’ufficio, spesso conducevano insieme le indagini. Andavano d’accordo, ma non erano amici. Troppe differenze. Si spalleggiavano, si rispettavano. Entrambi ritenevano che andasse bene così.

«Che posso fare per te?».

«All’Ufficio denunce ho ascoltato una donna, giovane, che afferma che suo marito è scomparso. Sembra un caso... interessante, ma ecco, devo proprio scappare. Sono di corsa, ho un appuntamento importante a mezzogiorno. Se tu potessi tenermela in caldo te ne sarei eternamente grato».

«Che cosa intendi con “tenertela in caldo”?».

Molina gli fece un occhiolino complice.

«Ho avuto giusto il tempo di annotare a grandi linee la sua deposizione. Vorrei che tu rifinissi i dettagli e mi dicessi che ne pensi. Poi seguirò il caso più tardi».

Sebag sospirò a lungo.

«Nessun problema. Ci penso io».

Molina era raggiante.

«Sapevo di poter contare su di te! Metteremo tutti e due la firma sul verbale, come se ci fossimo occupati insieme del caso per tutta la mattina. Come sempre».

«Come sempre» rispose Sebag stancamente.

Non era molto fiero di sé. Non era molto fiero di loro.

«Su, scappa, o farai tardi».

«Grazie. A dopo».

Molina aveva già girato i tacchi. Si stava allontanando. Sebag gli gridò:

«Mora o bionda?».

Molina fece un ampio gesto con la mano e rispose senza voltarsi.

«Bionda l’appuntamento. Mora la deposizione».

 

«Dunque... lei si chiama Sylvie Lopez, nata Navarro. Ha ventiquattro anni e abita in rue du Vilar a Perpignan. Lavora come donna delle pulizie in un’impresa di pulizie industriali. È sposata da... tre anni, e ha una bambina nata lo scorso gennaio».

Sebag sollevò la testa dagli appunti presi dal collega per osservare la giovane donna. Era effettivamente mora, taglio alla maschietta, stile Louise Brooks. Aveva un bel visino triste, illuminato da grandi occhi neri e umidi. Stanchi. Sebag capiva che cosa intendeva Molina con “caso interessante”.

«Suo marito si chiama José. Fa il tassista. E non torna a casa da due giorni, giusto?».

Lei confermò con un timido cenno del capo.

«Mi racconti tutto» continuò Sebag. «L’ultima volta che l’ha visto, cosa vi siete detti, quando ha iniziato a preoccuparsi ecc....».

La donna si lisciò la gonna con la mano destra e attaccò.

«L’ultima volta che l’ho visto è stato martedì a mezzogiorno. Io stavo andando a lavorare e anche lui. Lavoriamo entrambi di pomeriggio e sera. O meglio... più che altro sono io che lavoro così, lui si è adattato ai miei orari. Nel suo lavoro è più facile, capisce, tassista indipendente, è più libero, ecco».

Tirò via un filo dall’orlo della gonna e proseguì.

«Sono tornata verso le dieci e mezzo dopo essere passata dai miei per riprendere la piccola. L’ho messa a dormire e ho preparato la cena guardando la tv. Di norma José torna verso le undici e mezzo. Aspetta l’arrivo dell’ultimo treno alla stazione di Perpignan».

Alzò brevemente gli occhi e guardò l’ispettore da sotto in su. Sebag non disse nulla. Non fece alcun gesto. Bisognava lasciare che le cose facessero il loro corso.

«A mezzanotte non era ancora tornato. Mi sono detta che era una buona notizia: voleva dire che l’ultimo cliente gli aveva chiesto una corsa lunga. A quell’ora, con la tariffa notturna, le corse lunghe fruttano bene, capisce. Non è da tanto che José fa il tassista, ed è un po’ difficile. Deve ripagarsi la macchina, la licenza, la benzina, è veramente dura, anche se i miei genitori ci danno una mano...».

Sebag si concesse di annuire per incoraggiarla. Minimo sindacale. La donna aveva aperto una parentesi sulla loro situazione finanziaria e familiare. A lei decidere se richiuderla subito.

«Alla fine, a mezzanotte mi sono decisa a cenare. Non posso andare a letto troppo tardi. La bimba si sveglia tutte le mattine verso le sei, e spesso piange parecchio la notte, quindi, per quanto riguarda il sonno, lei capisce...».

Capiva, sì, glielo confermò con un battito di ciglia.

Lei non riprese immediatamente. Rigirò l’orlo della gonna, sembrò saggiarne la solidità. Anche le pause, come le digressioni, potevano essere significative.

«Jenny... Jenny è la bambina, si chiama Jennifer, ma la chiamiamo Jenny, quella notte non ha pianto per niente e si è svegliata più tardi del solito. Appena prima delle sette. Da quando è nata sarà successo solo una volta o due».

Sembrava fiera della figlia. Così fiera che osò tralasciare l’esame della gonna per alzare la testa verso Sebag. L’ispettore le sorrise. Anche lui si ricordava delle prime settimane con Léo, di come il sonno e i pasti di un bambino potessero fare il bello e il brutto tempo all’interno di una casa.

«Io... io mi sono occupata della bimba» riprese la donna, «le ho dato il biberon. E siccome José non era ancora tornato, ho deciso di chiamarlo al cellulare. Ma c’era la segreteria telefonica».

«Che ora era quando ha provato a telefonare?».

«Uhm... non saprei. Forse le otto, o le nove».

Sebag si raddrizzò e appoggiò i gomiti sul tavolo, con le mani giunte davanti alla bocca. Buttò lì come se la cosa fosse naturale:

«Ha lasciato un messaggio?».

«Sì... no» balbettò lei. «Insomma, non subito. Dovevo fare delle faccende, stirare. Mi sono tenuta impegnata. Ho giocato con Jenny».

«Non era preoccupata?».

«Non troppo. Non ancora».

Sebag provò a immaginare cosa sarebbe successo a casa sua se una sera non fosse rientrato. Claire non avrebbe atteso la mattina per chiamarlo. L’avrebbe fatto prima di andare a dormire e avrebbe lasciato dei messaggi in segreteria. Si sarebbe preoccupata presto, probabilmente avrebbe dormito male. Quello del poliziotto era un mestiere pericoloso, ma non quanto quello del tassista. La strada uccide più dei malviventi.

La situazione della sua coppia non era paragonabile. Sebag, lui, non si sarebbe mai assentato per un’intera notte senza avvertire sua moglie.

«Quando ha cominciato a preoccuparsi?».

La domanda sembrò demolire la fiducia che si era creata tra i due. Sylvie Lopez rituffò il naso verso l’orlo della gonna.

«Be’, uhm... in mattinata. L’avevo richiamato sul cellulare, avevo lasciato un messaggio, e siccome continuava a non dare notizie a quel punto mi sono preoccupata».

«E che cosa ha pensato?».

Sebag non voleva mettere fretta alla donna. Era a favore dei parti senza dolore.

«Non mi ricordo con esattezza» riprese lei dopo qualche esitazione. «Ero arrabbiata: si stava facendo tardi e dovevo andare al lavoro».

«Dunque, di fatto non si è preoccupata più di tanto».

Sylvie tralasciò bruscamente l’orlo per tornare a lisciarsi la gonna.

«Non più di tanto, no».

Sebag la guardò. Attese per qualche secondo che lei si decidesse a risollevare gli occhi verso di lui. Tirò fuori il tono di voce più caldo e comprensivo. Anche durante un parto indolore, a un certo punto bisogna arrivare alla fase espulsiva.

«Non era la prima volta che passava la notte fuori casa?».

Il mento della donna cominciò a tremare. Sylvie Lopez posò su di lui due occhi neri scintillanti di vergogna.

«Non era la prima volta, vero?» insisté lui.

«No» ammise lei in un soffio.

Le lacrime si staccarono e colarono lentamente lungo le guance scavate. La donna tirò su col naso. Sebag aprì il primo cassetto della scrivania e tirò fuori un pacchetto di fazzolettini di carta. L’ultimo. Bisognerà ricomprarli, si disse. L’amministrazione forniva gratuitamente i proiettili per le pistole, ma non aveva previsto i fazzoletti. Eppure nella routine quotidiana erano più utili.

Sylvie Lopez si soffiò il naso a lungo. Sebag attese che terminasse.

«Suo marito ha un’amante?».

Lei sussultò. La parola l’infastidiva. Come se puntasse il riflettore su una situazione che aveva sempre fatto finta di ignorare. Finché non si dà un nome alle cose e alle persone, non si dà loro vita. E si evita che facciano troppa presa su di noi.

«No, non credo che si possa dire così».

Cercava le parole, avrebbe voluto precisare ciò che pensava, ma aveva bisogno di fare un po’ di chiarezza nella sua testa. Doveva innanzitutto cominciare a guardare in faccia la verità.

«Penso che abbia avuto delle... avventure, ma senza seguito. Non credo che abbia una... ehm, una relazione stabile, o cose del genere. Me ne sarei accorta».

Si asciugò gli occhi col fazzoletto. Il mascara era colato e le aveva lasciato delle sbavature sulle guance. Non riuscì a cancellarle tutte. Sebag avrebbe voluto alzarsi e aiutarla.

«Ne ha parlato con suo marito, delle sue... avventure?» chiese.

La donna fece di no con la testa. Sebag non cercò di nascondere il suo stupore.

«Sembra quasi che lei abbia accettato facilmente questa situazione...».

Sylvie alzò le spalle.

«A cosa sarebbe servito parlarne?».

Si soffiò il naso di nuovo e, davanti al silenzio di Sebag, si sentì in obbligo di spiegare.

«Io penso che gli uomini talvolta abbiano dei bisogni che le donne non hanno. E poi penso che il fatto di essere padre l’abbia un po’ angosciato. Forse aveva bisogno di rassicurazioni, non so. Lei ha figli?».

Sebag si guardò bene dal rispondere.

«E poi, finché tornava a casa ed era gentile con me, con noi, non avevo motivo di lamentarmi, no?».

Sebag la trovava commovente nella sua ingenuità d’altri tempi. Aveva detto quelle cose come se fossero ovvietà. Suo marito era veramente il re degli stronzi, si disse. Una donna come lei, non la si lascia. Scarabocchiò qualche parola chiave sul suo quaderno. Un quadernetto blu coi quadretti grandi. Quegli appunti gli sarebbero tornati utili per trascrivere l’interrogatorio il più fedelmente possibile.

«Che cosa le fa pensare che suo marito non sia semplicemente rimasto a dormire fuori per due notti di seguito?».

«Come le ho detto, non ha dato notizie. Ho chiamato certi suoi colleghi, ne conosco due o tre che sono venuti anche a casa nostra. Ho detto che la piccola non stava bene, che dovevo contattarlo con urgenza, che lui aveva smarrito il cellulare, ma nessuno l’ha visto per tutta la giornata di mercoledì».

Sebag pesò le parole per non ferirla.

«Magari, se posso permettermi, ha “dormito fuori” anche per tutto il giorno».

La donna scosse la testa energicamente. Una ciocca di capelli si incollò al mascara umido.

«Non le sembra possibile?» proseguì lui.

«Avrebbe chiamato, chiesto notizie della piccola».

«Magari ha avuto paura».

I grandi occhi scuri si fecero ancora più grandi. Sembravano quasi due biglie nere.

«Paura di che?».

«Paura di lei».

«E perché mai, visto che non gli chiedo mai nulla?».

«Non gli avrebbe fatto una scenata? L’avrebbe lasciato andar via di nuovo senza dire una parola?».

Le due biglie scure si aggrapparono allo sguardo di Sebag. Voleva convincerlo.

«A cosa sarebbe servito fargli una scenata? C’era il rischio di perderlo per sempre. E poi, se voleva lasciarci definitivamente, poteva tornare a dircelo, no?».

«Anche il migliore degli uomini talvolta ha delle debolezze» ironizzò Sebag. «Magari lui non ha osato dirglielo».

Sylvie Lopez rifletté per qualche secondo sulle argomentazioni dell’ispettore, poi le spazzò via con un movimento deciso della testa.

«No, davvero, non penso che sia così. Mi deve credere, ispettore, gli è successo qualcosa. Lo so, lo sento. Qualcosa di grave».

 

Dopo pranzo Sebag rilesse la denuncia di scomparsa compilata da Sylvie Lopez. L’avevano riempita insieme elaborando un rapido identikit di José: sulla trentina, 1 metro e 75, tarchiato, occhi neri, capelli e sopracciglia scuri e folti, un neo sulla nuca. Avevano preso nota dei vestiti che indossava il giorno della scomparsa – pantaloni leggeri marrone chiaro e una camicia azzurra. Poi Sebag aveva fatto firmare il verbale alla donna prima di rimandarla a casa con qualche parola di rassicurazione che non l’aveva affatto rassicurata.

Lui restava perplesso.

L’inquietudine della giovane moglie aveva finito per contagiarlo. Non riusciva a scacciare dalla memoria il lampo umido e implorante di quei dolci occhi di giaietto. Si chiese che cosa lo spingesse a seguire il caso. L’intuizione che quella scomparsa celasse effettivamente qualcosa di grave, o la simpatia che provava per la giovane donna?

Stava digitando il numero di cellulare del marito quando squillò il telefono dell’ufficio. Era il commissario Castello. Il suo capo.

«Ah, Sebag, finalmente... Può venire da me, per favore?».

E aggiunse, ma dal tono Sebag l’aveva già capito:

«Subito».

L’ufficio del commissario era situato al terzo piano, giusto sopra il suo. Sebag salì in fretta le scale. La porta era aperta, ma lui si fermò educatamente sulla soglia.

«Entri» disse Castello. «E chiuda la porta, per favore».

Sebag eseguì. Temendo un rimprovero per il ritardo di quella mattina, tentò di anticipare il suo capo.

«Allora, come va con gli allenamenti? In forma?».

L’ispettore e il commissario si erano incrociati più volte in occasione di gare podistiche. Ai blocchi di partenza Sebag, più giovane e allenato, prendeva un po’ di vantaggio, ma Castello, malgrado i suoi cinquant’anni, continuava a migliorare. Ambiva a partecipare, un giorno, a una maratona. Parigi o New York, di lì a un anno o due. Sebag dispensava consigli e incoraggiamento. Lui, di maratone, ne aveva all’attivo tre.

Castello non si lasciò distrarre dalla domanda del suo sottoposto.

«Mi dica un po’, Gilles, stamattina non sono riuscito a trovarla».

«Aveva bisogno di me?».

«Sì, ho avuto una conversazione telefonica con il capitano Marceau, il responsabile della dogana. Sa, per quella faccenda di contrabbando di sigarette...».

«Le indagini progrediscono?».

«Lentamente, ma Marceau intende comunque fare una perquisizione in un deposito nei pressi del mercato Saint-Charles e in alcuni bar di Perpignan. Probabilmente avranno bisogno di noi».

In seguito ad alcuni sequestri andati a buon fine durante la primavera, la dogana aveva constatato che una piccola banda di malviventi locali stava per mettere in piedi una vera e propria rete di vendita clandestina di sigarette, approfittando così delle enormi differenze di prezzo che c’erano tra un versante e l’altro dei Pirenei.

«Non è un po’ troppo presto per fare una perquisizione?» chiese Sebag.

«Già, ma la prefettura ci sta mettendo pressione. Il governo vuole risultati rapidi».

La questione era delicata dal punto di vista politico. Dopo gli aumenti di prezzo delle sigarette in Francia nei primi anni del nuovo millennio, nel Roussillon i tabaccai avevano cominciato a chiudere uno dopo l’altro, mentre nel comune di frontiera di Le Perthus la vendita di sigarette era raddoppiata. I principali responsabili di quella situazione, d’altra parte, non erano i contrabbandieri, ma i privati che andavano a far scorte in Spagna. Per venti euro in meno a stecca, il viaggio veniva ammortizzato in fretta. Non potendo arrestare tutti i fumatori, la prefettura voleva effettuare un’azione dimostrativa mettendo fine a quel tipo di traffici.

«Se la dogana si muove troppo presto, si rischia di fare un buco nell’acqua» fece notare Sebag.

«Lo so, l’ho detto a Marceau, ma quando c’è di mezzo la politica...».

«Bisogna sbattersi, vero?».

«Sì, possiamo dire così» disse Castello sorridendo.

Sebag scosse la testa con amarezza. Se i politici volevano affrontare il problema seriamente sarebbe bastato armonizzare le politiche fiscali dei due paesi. I traffici sarebbero cessati all’istante. Le dogane si sarebbero potute concentrare su intrallazzi più pericolosi e i poliziotti sulla delinquenza vera. Quella che non si poteva gestire a suon di decreti ministeriali. I furti, le aggressioni, gli incendi di macchine. Quella che toccava realmente la gente comune.

«Marceau mi diceva che il nostro ministro intende approfittarne per venire a fare un’operazione di comunicazione da queste parti» aggiunse Castello.

«Già vedo la scena» borbottò Sebag. «Metteranno su un bel circo: operazione congiunta di polizia, dogana e magari anche gendarmerie. Creeranno un po’ di confusione, arresteranno qualche contrabbandiere e sequestreranno un paio di stecche. E ciò che conterà non sarà il risultato dell’operazione, ma il ritorno mediatico».

«Di certo non è con questo tipo di congetture che farà carriera».

Sebag si trattenne dal ridacchiare. Era un bel po’ che sulla sua carriera aveva messo una pietra sopra. O meglio, che l’avevano costretto a farlo.

«Non rimpiange le scelte che ha fatto?» chiese all’improvviso il commissario.

Sebag incrociò nervosamente le braccia. Non aveva voglia di parlarne. Castello si accarezzò la barba brizzolata. Era un po’ lunga. Anche i capelli, d’altronde. Cominciavano a scendergli sul collo. Il commissario prese una penna dalla scrivania e la sistemò in un vasetto di terracotta che Sebag conosceva bene. Ne aveva ricevuto uno uguale per aver partecipato alla Ronde di Céret, una celebre corsa che si teneva nel dipartimento.

«Non ho mai avuto occasione di dirglielo, ma penso che sia stata una scelta coraggiosa».

Il commento sorprese Sebag. Era la prima volta che qualcuno gli faceva dei complimenti su quell’argomento. Fino ad allora aveva piuttosto avuto l’impressione di essere considerato un paria. Da un giorno all’altro era passato dallo status di giovane poliziotto promettente a quello di brutto anatroccolo. E il tutto in un silenzio assoluto.

Il commissario continuò con aria grave.

«Quando ho iniziato a capire come stavano le cose, per me era troppo tardi».

Castello era separato. La moglie si era rifiutata di seguirlo a Perpignan, preferendo restare a Parigi. La procedura di divorzio era in corso, perlomeno così aveva intuito Sebag. Castello aveva due figli grandi, uno studiava medicina, l’altro era all’ultimo anno di liceo. Fino a quel momento non aveva mai dato a vedere che la solitudine e la lontananza gli pesassero: un capo, un po’ come un padre, deve essere forte e non avere patemi. Sebag la pensava allo stesso modo e non tentò di incoraggiare ulteriori confidenze.

«I suoi figli sono grandi, adesso» riprese Castello. «Stavo pensando di darle una piccola promozione».

«Dio me ne scampi!» esclamò Sebag allarmato.

Il commissario aggrottò le sopracciglia. Erano rimaste stranamente scure, mentre barba e capelli si erano incanutiti.

«Lei sa che io la considero di fatto il coordinatore della squadra ispettori. Coordinatore e capo: nella pratica è la stessa cosa, ma dal punto di vista ufficiale c’è una bella differenza. E lo stipendio è diverso».

Sebag evitò lo sguardo di Castello. Non voleva saperne niente di quell’incarico e delle responsabilità che ne conseguivano, ma non aveva nessuna argomentazione – o perlomeno nessuna argomentazione valida agli occhi del suo capo – cui appigliarsi.

«Io... La situazione attuale mi sta più che bene».

Castello si grattò di sfuggita la punta del naso.

«Ci rifletta. I suoi figli presto saranno in età da università, e vedrà che lo stipendio da ispettore non basterà più».

«Léo è ancora in terza liceo. E poi anche mia moglie lavora...».

«Il tempo passa sempre più in fretta di quanto si pensi. E da qui a quando suo figlio prenderà la maturità, l’incarico sarà stato assegnato».

Sebag annuì con un’aria che voleva sembrare grave.

«Le prometto che ci rifletterò» concesse.

Il commissario si accontentò di quella risposta, ma Sebag sapeva che era contrariato. La domanda successiva glielo confermò.

«A proposito, dov’era stamattina?».

«Stavo seguendo un’indagine con Molina, ehm, un caso interessante, perlomeno credo».

«Mi dica di più».

Sebag sapeva che si stava avventurando in un discorso pericoloso.

«Un tassista misteriosamente scomparso».

«Misteriosamente? Oh, suvvia! Da molto?».

Sebag fece un rapido calcolo nella sua testa. Sylvie Lopez non vedeva suo marito da martedì mattina. Due giorni d’assenza bastavano per mettere in agitazione una moglie, ma non erano sufficienti a sconvolgere la routine di un poliziotto.

«Più di 72 ore» esagerò.

«Uhm... Immagino che abbia avviato una ricerca per conto dei familiari».

La legge offriva ai poliziotti varie possibilità d’azione. La ricerca per conto dei familiari si limitava a un’indagine amministrativa entro i confini del dipartimento. Una sorta di servizio base. Per le persone maggiorenni, era la prassi più comune.

«Stavo per farlo quando lei mi ha convocato. Mi chiedevo inoltre se non fosse il caso di segnalare il nominativo al registro nazionale delle persone scomparse».

«Di già?».

Castello si portò automaticamente due dita unite alle labbra.

«È pur vero che 72 ore cominciano a essere tante» proseguì. «Un po’ troppe per una semplice storia di corna, no?».

«È quello che mi stavo dicendo con Molina. Potrebbe esserci dell’altro».

«Tipo?».

«Non saprei. Ci sono alcuni dettagli, in effetti, che non quadrano con l’idea di una fuga o di un semplice adulterio».

Sebag esitò. “Più la spari grossa, più se la bevono” soleva dire Molina.

«Stando ai primi elementi dell’indagine, il tassista faceva parecchi andirivieni con la Spagna».

«Pensa che sia implicato nel contrabbando di sigarette?».

«Non ne so molto, in realtà, ma ho una strana sensazione» aggiunse.

«Il suo famoso istinto?».

Castello aveva la mania dell’istinto. Sebag preferiva parlare di intuizione, ma il femminile sembrava non essere gradito al commissario.

«Sì, può darsi... In questa storia c’è qualcosa che non torna».

Sebag non amava mentire. L’abitudine in questo campo gli era valsa un certo talento, ma nessun agio nel farlo.

«Faccia ciò che ritiene giusto» concesse Castello.

Si portò nuovamente le dita alle labbra.

«Ha una sigaretta?» chiese bruscamente a Sebag.

«Credevo che avesse smesso».

«Sì, come ogni settimana» bofonchiò il commissario. «E come ogni settimana, il giorno dopo ricomincio».

Sebag estrasse una sigaretta dal suo pacchetto di bionde e gliela tese. Castello afferrò il pacchetto e lesse ad alta voce l’etichetta.

«Fumar puede matar. Anche lei compra le sigarette a Le Perthus?».

«Come tutti, di tanto in tanto ci vado. Non fumo molto».

Castello posò il pacchetto sulla scrivania e si portò la sigaretta alle labbra. Sebag tirò fuori un accendino e gli offrì da accendere.

«Come dice il proverbio: “Non si fuma senza accendere”».

Il commissario gli concesse un sorrisetto stentato. Chiuse gli occhi e aspirò una lunga boccata voluttuosa. Il fumo gli circondò il viso con un’aureola azzurrina.

«Accidenti se è buona, questa merda» disse riaprendo gli occhi. «Ed è ancora meglio dopo giorni di astinenza. Ma... non bisogna mai essere schiavi dei propri vizi. Né delle proprie scelte».

Prese lentamente una nuova boccata.

«Gliel’ho detto e glielo ripeto: rispetto la scelta che ha fatto qualche anno fa. Lei è un bravo poliziotto, Sebag, ma un bravo poliziotto non è niente senza un minimo di lavoro».

Sebag appoggiò l’accendino sulla scrivania accanto al pacchetto di sigarette.

«Capo, le lascio tutto. Di accendini ne ho a bizzeffe. A Le Perthus li danno gratis».

«Quando si concentra su un caso lei è il migliore, Gilles. Ma solo a questa condizione».

«È una fortuna che in Spagna li regalino, altrimenti ci saremmo ritrovati sul groppone anche il contrabbando di accendini...».

Sebag s’interruppe. Castello si stava grattando il naso e mordendo le labbra contemporaneamente. Bruttissimo segno.

«Ho sempre avuto fiducia nel suo istinto, e spero di poter continuare a farlo. Le auguro di avere presto degli elementi tangibili su questa “misteriosa” scomparsa del tassista».

Sebag annuì. Girò su se stesso e si diresse verso la porta. Castello lo fermò.

«Un’ultima cosa, Sebag».

«Sissignore».

«Quando dico presto, intendo prima di domani sera. Intesi?».

 

A casa era tutto stranamente calmo. Entrò nel soggiorno. La portafinestra era aperta.

Gilles Sebag abitava a Saint-Estève, appena fuori Perpignan. La casa era fatta a u, esposta a sud dalla parte della terrazza e della piscina. Sul lato est c’erano uno studio e la camera matrimoniale col suo bagno privato; nella parte ovest, le camere dei ragazzi e un bagno per tutta la famiglia. Tra le due parti, lo spazio comune: un grande soggiorno-camera da pranzo con cucina all’americana. La casa aveva anche un garage, ma Sebag l’aveva diviso in due per fare posto alla lavanderia e a una zona palestra.

Avanzò fin sulla terrazza. Fuori non c’era nessuno. L’acqua della piscina tremolava al vento leggero. Qualche foglia di albicocco galleggiava in superficie. Rientrò.

Aprì il mobile bar, prese la bottiglia di pastis e se ne versò un po’ in un bicchiere grande. Aggiunse tre cubetti di ghiaccio e poi finì di riempire il bicchiere con acqua di rubinetto. Bevve un sorso. Era ancora troppo caldo.

Chiamò.

«Claire!».

Nessuna risposta. Rinnovò l’appello.

«Claire!».

Una voce flautata gli arrivò dal fondo della casa.

«Non c’è, papà. Ci sono solo io».

Attraversò l’ala ovest – il termine suonava da ricchi, gli piaceva – fino ad arrivare alla camera di Séverine. Bussò, ma non attese di essere invitato a entrare. La figlia, seduta alla scrivania, faceva i compiti. Sebag non vedeva altro che la capigliatura bruna e ricciuta.

Le diede un bacio sulla nuca.

«Mamma non c’è?».

«No, ha un consiglio di classe».

«Un consiglio di classe due giorni prima delle vacanze?».

«Hai ragione, non è un consiglio di classe. Mi sa che è piuttosto una riunione disciplinare, una roba del genere».

«Capito. E Léo?».

«Papà, è a fare basket a Perpignan! Come ogni giovedì».

«Vero! Devo andare a prenderlo o è andato con lo scooter?».

«Ha preso lo scooter».

Sebag tentennò tra il sollievo di non dover uscire di nuovo e l’apprensione di sapere il figlio per strada con quel suo abominevole motorino. Non voleva regalargliene uno, ma al termine di un’aspra battaglia aveva dovuto cedere davanti alle richieste insistenti della madre. A tradirti sono sempre i tuoi. O meglio, le tette! Rivedeva la moglie chinarsi su di lui una sera con quella sua blusa scollatissima. Gli si era seduta in braccio e aveva finito per strappargli un sì. Chi può ancora sostenere che gli uomini siano il sesso forte?

Séverine era tornata a concentrarsi sui suoi compiti. Era in seconda media. Una brava alunna. Non dava preoccupazioni. Sebag poggiò le mani sulle spalle minute della figlia e si chinò sul foglio.

«Hai ancora compiti appena prima delle vacanze?».

«No, in realtà no, ma l’argomento mi interessa: Carlo Magno e l’organizzazione dell’impero carolingio».

«Oh. I missi dominici, le marche, Aix-la-Chapelle, l’incoronazione nell’anno 800, l’imperatore con la barba fluente...».

«Ehi, ma sai tutto!».

«Eccome se lo so... chi non ha mai sentito parlare dell’affare Dominici in polizia?».

Séverine si lasciò sfuggire una risata argentina. Incantevole. Qualche settimana prima avevano visto insieme un documentario su quel vecchio caso di cronaca. Sebag chiuse gli occhi. Sapeva che la figlia non rideva facilmente alle sue battutine scontate.

Prima di uscire diede un’occhiata alla cameretta. Qualche peluche appoggiato sul letto. Un orso, un coniglietto, un gatto. Ultimi testimoni di un’infanzia che correva via. Alle pareti i poster dei cantanti del momento urlavano già al mondo l’agitazione adolescenziale. Perlomeno Sebag poteva rallegrarsi che sua figlia preferisse una certa canzone francese che dava preminenza al testo, un tipo di musica che stavano scoprendo insieme. Con Léo non era stato lo stesso. Il ragazzo era appassionato solo di sport e rap, due ambiti di cui Sebag si vantava di non sapere nulla.

Richiuse piano la porta.

Col bicchiere in mano andò nella lavanderia. Tirò fuori i vestiti bagnati dalla lavatrice. Claire aveva avviato un lavaggio la mattina, prima di andare al lavoro. Stese i panni in giardino. La tramontana canticchiava e il sole picchiava ancora nonostante stesse scendendo la sera. Nel giro di un’ora scarsa avrebbe potuto ritirare tutto. Le faccende domestiche non lo infastidivano. Quei gesti ripetitivi eseguiti con cura, anzi, lo aiutavano a riflettere. Aveva preso l’abitudine di dare una mano dopo la nascita di Séverine, quando aveva optato per un part-time verticale per essere più presente con i figli.

La famosa scelta di carriera che gli avevano fatto pagare cara.

Eppure la legge non aveva escluso i poliziotti dalla possibilità di chiedere il part-time verticale. Tutti avevano il diritto di scegliere come gestire il proprio orario lavorativo nei primi tre anni del figlio più piccolo, e nessuno si era potuto opporre nel commissariato di Chartres dove all’epoca lavorava. Ma la sua decisione aveva sorpreso e deluso. Un uomo che sceglie i figli anziché il lavoro a quanto pare non rientrava negli usi e costumi della polizia francese.

La sua carriera ne era stata sensibilmente rallentata. Dopo il trasferimento a Perpignan era tornato al full-time, ma il suo nome doveva essere rimasto iscritto in qualche lista nera di un dossier segreto del ministero dell’Interno. Le promozioni gli erano fioccate intorno senza che gliene toccasse alcuna. Fino alla nomina di Castello, tre anni prima. Allora aveva finalmente ottenuto una gratifica economica e, cosa ancora più importante, aveva ritrovato la fiducia dei superiori. Cosa che gli rendeva il lavoro più gradevole nel quotidiano, ma per il resto era troppo tardi. Oggi la sua vita era fuori dal commissariato, e l’unica ambizione era di non fare troppo male il suo lavoro e di non complicarsi inutilmente la vita.

Nel cesto dei panni trovò un reggiseno che non conosceva. Rosa. Piccolo. Ci mise un po’ di tempo a realizzare che apparteneva a Séverine. Il suo primo reggiseno. Si ricordò di un’estate in cui si era ostinatamente rifiutata di togliersi la parte di sopra del costume da bagno. Se lo teneva sotto la maglietta perfino per andare a scuola. Doveva avere sette o otto anni.

Era ieri.

Afferrò un altro reggiseno. Più grande, con dei pizzi. Quello era di Claire. La ragazzina doveva farne ancora di strada, prima di avere le forme seducenti della madre. Soprattutto visto che non si può mettere fretta alla natura. Appese i due reggiseni lontani l’uno dall’altro, per non mortificare nessuno.

Con Molina avevano lavorato sodo, nel pomeriggio. Si erano ritrovati nella merda con quella sua stronzata dell’istinto. La scomparsa del tassista probabilmente non aveva nulla di enigmatico. Quando l’avesse saputo, il capo si sarebbe infuriato. Se almeno fossero riusciti a riportare il marito adultero al legittimo focolare entro l’indomani sera, avrebbero potuto limitare i danni.

Per stare con la coscienza a posto anche Jacques aveva lasciato un messaggio in segreteria a Lopez, mentre Sebag chiamava uno dopo l’altro l’ospedale di Perpignan e le più importanti cliniche del dipartimento. Aveva contattato anche l’istituto psichiatrico di Thuir. Senza esito. Avevano comunicato la targa del taxi alle pattuglie di polizia. E anche ai vigili. Nessuna traccia nelle strade di Perpignan. Nel tardo pomeriggio avevano trasmesso il numero ai gendarmes del dipartimento. Jacques era andato a trovare Sylvie sul lavoro. Lei gli aveva dato una foto del marito che teneva nel portafoglio. Nel frattempo Sebag era andato alla stazione e all’aeroporto. Aveva interrogato i colleghi di Lopez. Nessuno l’aveva visto. Né quel giorno, né il giorno precedente. A quanto pareva aveva effettuato l’ultima corsa martedì, non alle ventitré come supponeva sua moglie, ma alle diciannove. Infine, armati della foto di Lopez, avevano setacciato insieme gli alberghi nei pressi della stazione, in caso il tassista vi avesse portato le sue conquiste.

Era stato un buco nell’acqua.

Molina doveva lavorare ancora, quella sera. Sarebbe andato in un bar dove Lopez giocava a biliardo il venerdì sera. Magari avrebbe incontrato qualche amico del tassista. Sebag, invece, l’indomani mattina avrebbe ripreso il giro degli alberghi allargando l’ambito delle ricerche. Per il momento ne aveva abbastanza.

A ciascun giorno basta la sua pigrizia. Ecco il suo motto.

Prima di lasciare l’ufficio avevano ricevuto la fedina penale di Lopez. Una condanna per furto d’auto nel 1994 – aveva diciassette anni –, un’altra per lesioni cinque anni dopo. Lopez non era un santo, avevano constatato con una certa sorpresa. Secondo elemento tangibile ma che, come il primo, non dava alcun nuovo orientamento alla loro indagine.

Dopo aver steso i panni si sedette a bordo piscina. Coi piedi nell’acqua degustò il pastis ghiacciato.

Dove diamine si era ficcato quello stronzo di Lopez? Aveva una moglie carina che non solo gli perdonava le scappatelle, ma faceva addirittura finta di non vederle. Nessun commento, nessun rimprovero. Perché mai aveva dovuto approfittarsene così? La depressione post partum del neopapà? Sembrava fossero frequenti, i padri che non digerivano l’evento. Molte coppie si sfasciavano nei sei mesi che seguivano la nascita di un figlio.

Gilles l’aveva sempre trovata una cosa piuttosto strana.

La nascita di Léo era stato il giorno più bello della sua vita. Riteneva che l’espressione fosse calzante anche se la sua banalità ne attenuava la forza. Lasciando il reparto maternità dopo una lunga nottata insonne, aveva vagato per le strade di Chartres sapendo che non sarebbe riuscito a dormire. Scrutava le facce degli uomini che incrociava credendo di leggervi la felicità dell’essere padri. Come potevano essere padri e non gridarlo in faccia al mondo? Come potevano essere padri e continuare a vivere come prima? Lui provava un tale sentimento di pienezza e realizzazione...

Aveva partecipato al parto dall’inizio alla fine. Aveva sudato con Claire, aveva spinto con lei, avevano gridato insieme nel momento dell’espulsione. Prendendo tra le mani quello scricciolo d’uomo accartocciato su se stesso si era sentito forte. Invincibile per la prima volta in vita sua. Aveva capito ciò che nessuno aveva saputo spiegargli. Che se le lotte della vita forgiano il carattere, solo il calore soffocante di un reparto maternità può renderti uomo. Quel giorno era nato un nuovo Gilles Sebag.

Séverine era arrivata appena due anni dopo. Un maschio e una femmina. La combinazione perfetta, come si diceva. La felicità assoluta.

«Ciao!».

Una voce dolce e cantilenante. Gilles si strappò ai suoi pensieri. Si voltò.

«Ciao».

Claire venne avanti. Indossava un vestito a fiori, leggero sulla pelle abbronzata. La sua andatura era quasi aerea. Aveva fatto danza per dieci anni, al tempo, e il suo corpo se lo ricordava. Si chinò su di lui e gli diede un bacio sulle labbra.

«Sei bella».

Lei assunse un’aria stupita.

«Grazie, sei gentile» disse dolcemente.

«No, non sono gentile. È la verità».

Lei si chinò di nuovo e gli diede un bacio vero e proprio, languido. Le labbra se la presero con calma prima di staccarsi. Claire aveva le guance rosse. Deve aver avuto caldo in macchina, pensò Sebag.

«Hai fatto tardi».

Le parole gli erano quasi sfuggite di bocca. Sembravano un rimprovero. Per fortuna Claire non ribatté. Si limitò a sbuffare a lungo.

«Abbiamo dovuto discutere di due casi difficili: studenti del terzo anno i cui genitori contestano la bocciatura».

Claire era professoressa di francese. Insegnava in un liceo di Rivesaltes. Il suo lavoro la entusiasmava ancora. Anche a Sebag sarebbe piaciuto poter dire altrettanto.

«Cosa mangiamo?» chiese lei.

«Non so. C’è un avanzo di insalata di pomodori».

«Ancora...».

«Potremmo soffriggere un po’ di pancetta con la cipolla, tanto per fare una cosa diversa».

Claire gli diede un altro bacio sulle labbra. Tenero.

«Posso lasciar fare a te? Vorrei fare un bagno».

«Nessun problema».

Lasciò cadere il vestito a terra e si slacciò lentamente il reggiseno. Toh! Quello non lo conosceva. Poi si tolse anche il perizoma e si immerse nuda nell’acqua.

Lui la contemplò per un istante. La considerava bella. Ancora più bella di prima. Finì il suo drink, tirò fuori i piedi dall’acqua, li asciugò e andò in cucina a preparare la cena.

Quando Léo rientrò stavano finendo di cenare sulla terrazza. Era fiero come un galletto e si tolse il casco solo per mettersi a tavola.

«Grande» fece.

«Grande, l’insalata di pomodori?» chiese Séverine che guardava imbronciata il piatto.

«No, grande il basket!».

Sebag chiese a sua volta:

«Il basket o lo scooter?».

Léo rise.

«Entrambi, capitano».

«Luogotenente» ci tenne a precisare Séverine. «Un ispettore di polizia oggi si chiama luogotenente».

«Ah già, è vero, me lo dimentico sempre».

«Anch’io» lo rassicurò Sebag. «E non sono il solo».

«Luogotenente!» ridacchiò Léo. «È proprio figo, come in America. Tu, papà, sei Starsky o Hutch?».

«Nessuno dei due. Direi piuttosto l’ispettore Gadget».

Gilles e i ragazzi scoppiarono a ridere. Claire, che non sembrava aver seguito la conversazione, sorrise per mettersi in pari.

Dopo cena, rimasti soli a rassettare la cucina, Gilles domandò alla moglie:

«Da qualche tempo mi dai l’impressione di essere preoccupata. È per il lavoro?».

«Sì, un po’» rispose lei senza convinzione. «Non so, forse è la fine dell’anno».

«O la crisi dei quaranta?».

Claire fece finta di dargli uno schiaffo.

«Oh, insomma, non ho mica quarant’anni, ancora».

«Manca poco».

«L’anno prossimo».

«Appunto, è quello che stavo dicendo: qualche mese».

Gilles le diede un bacio sul collo.

«Non sei mai stata così bella».

Claire gli passò la mano tra i capelli. Gli risollevò la testa delicatamente.

«Mi ami?».

«Non ancora, ma sento che potrebbe accadere, un giorno».

«Tra quanto tempo?».

«Ancora qualche decennio di pazienza...».

Si baciarono a lungo al di sopra del portello aperto della lavastoviglie. Un po’ più tardi, quando fu ora di andare a letto, lui la spogliò. Lei sembrò infastidita. Gilles chiuse la finestra e fecero l’amore. Faceva caldo.

Il corpo di Claire brillava alla luce della luna. Era di un bianco quasi irreale. Gilles l’accarezzò. Le dita scivolarono sul collo, poi sulla schiena, infine sulle natiche.

«Amo il chiaro di luna. E la luna di Claire».

Gliel’aveva detto già mille volte, ma bisognava sapersi ripetere. Lei voltò il viso verso di lui. Gli sorrise un po’ troppo seria. Aveva le guance rosse. Come prima.