40.

 

Un sole impietoso graffiava la piana del Roussillon con i suoi raggi ardenti. Lontano, verso sudovest, le cime del Canigou sfumavano nella bruma causata dal calore. Ai margini di un frutteto, una tettoia dava riparo a un vecchio dal viso bruciato dal sole. Sonnecchiava, con la testa appoggiata tra due panieri vuoti. Non aveva più pesche da vendere. Era stato svaligiato.

Appoggiato a un albero Sebag ascoltava le cicale salmodiare in coro la loro nenia estiva. Il sudore gli colava dalle ascelle lungo i fianchi. Non era il solo a soffrire. Aloni scuri si allargavano sulle camicie dei colleghi. Anche quelle più a tinta unita diventavano bicolori.

I poliziotti avevano circondato la strada che portava al casolare di Coll. I sentieri erano stati bloccati. Un agente aveva discretamente costeggiato il muro di cinta della proprietà e si era avvicinato al cancello. Alla fine di una strada di sassolini rosa, aveva visto la Mégane station wagon presa a nolo. Castello aveva deciso di aspettare che Coll uscisse per arrestarlo.

Un nugolo di mosche ronzava sul nocciolo di una pesca gettato via da poco. I frutti del vecchio contadino avevano fatto da pranzo per la trentina di poliziotti e gendarmes che pazientavano al sole da più di due ore. Sebag, con un tiro ben calibrato, mandò nocciolo e mosche nel fossato. Cominciava a pensare che la cosa stesse andando troppo per le lunghe. E non solo per via del caldo.

Pensava che ci avevano messo troppo a partire. Sarebbe stato meglio mandare subito una piccola squadra per catturare il rapitore, che di certo non avrebbe opposto resistenza.

Sulla strada tra Perpignan e Le Soler, Sebag si era assopito per qualche minuto sul sedile di dietro. Guidava Ménard, con Molina seduto alla sua destra.

Gilles aveva sognato Claire. Doveva tornare la sera dopo. Non si erano più parlati da mercoledì, quando lui aveva tagliato corto al telefono. Non aveva richiamato, ma aveva ricevuto un’altra lettera, imbucata in precedenza, da Tunisi. Una lettera piena di dolcezza e tenerezza.

Non voleva pensare a Claire. Non in quel momento, non era quello adatto. Ma l’attesa era lunga e la brezza portava alle sue narici profumi che gli ricordavano quello della moglie. Era la pesca, il rosmarino o l’anice stellato?

Si domandava cosa avrebbe dovuto fare quando l’avesse rivista.

Si girava e rigirava la domanda nella mente.

Una risposta gli arrivò con chiarezza.

La pesca!

Ecco l’aroma che lo riportava costantemente a Claire. Per rendere lucidi i capelli sfibrati dal sole, dal mare e dal cloro della piscina, Claire d’estate usava uno shampoo alla pesca. Chiuse gli occhi, fece un bel respiro. Il frutto maturo, umido e dolce. Buono. Si sentì sollevato. Adesso poteva di nuovo gestire i pensieri.

La proprietà dei Coll era nascosta dietro un grosso muro di cayrou, un miscuglio di sassolini e mattoni tipico della regione. Addossata al vecchio muro, una siepe di rododendri in fiore aumentava la riservatezza del posto. I petali bianchi danzavano leggermente nella brezza. Della casa non si vedeva altro che le tegole della sommità del tetto che si stagliavano nel cielo senza nubi. Dalla proprietà non proveniva nessun suono, nessun movimento. Nessun segno di vita.

Accanto a Sebag, Molina accese una sigaretta. Con la bocca al cielo, espirò una lunga e voluttuosa boccata. Aveva gli occhi arrossati e stanchi. E nel fondo delle pupille dilatate luccicava l’inquietudine.

«Sento puzza» mormorò Sebag.

Molina fraintese il senso della frase.

«Non ce la facevo più: è la prima sigaretta da quando ci siamo appostati».

«Non parlavo di questo... anzi, fammi fare un tiro, dài».

Molina fumava sigarette al mentolo. La boccata che Sebag aspirò cacciò via definitivamente gli aromi di pesca.

«Ci sta mettendo troppo, sarebbe dovuto uscire da un pezzo».

«Me lo dicevo anch’io» confermò Molina riprendendo la sigaretta. «Lo scooter è sempre davanti alla casa di riposo, il che lascia intendere che è ancora da sua madre. Se voleva confondere un eventuale pedinatore, la tattica è sbagliata».

Sebag lanciò uno sguardo a Lambert. Non aveva trovato di meglio che un cespuglio di rosmarino per pisciare discretamente.

Il giovane ispettore li aveva appena raggiunti. Prima, era andato a mostrare ad Anneke e alle due Margot dell’omonimo bar una foto di Coll trovata sul comodino della madre. Le tre donne avevano riconosciuto nel sospettato il bevitore solitario seduto a qualche tavolo di distanza dalla giovane olandese la notte in cui era stata aggredita.

Se ancora avessero avuto bisogno di una prova, adesso l’avevano.

«Deve essersi accorto che lo seguivamo» disse Sebag.

«E allora che sta combinando?».

«Ci prepara una sorpresa».

«Di che tipo?».

«Non lo so, appunto perché è una sorpresa. Avrà certamente previsto questa nostra visita. Il gioco non è finito».

«Vuoi dire che non troveremo niente in quella casa? Né lui né Ingrid?».

«La mancanza di sonno ti rende ottimista, a quanto pare».

«E tu come la vedi, la fine di questo gioco di merda? Eh, ottimista?».

Sebag ci pensò su senza trovare nulla di rassicurante.

«Io? Anch’io ho dormito poco».

 

Molina schiacciò accuratamente la cicca sotto il tallone. La vegetazione era secca, sarebbe bastata una sola scintilla per farle prendere fuoco. Castello si avvicinò lentamente. Percepì nell’aria la fragranza mentolata. Respirò a fondo. Le dita della mano destra si flessero, indice e medio sull’attenti.

«Interveniamo. Lefèvre si sta spazientendo, e anche i gendarmes».

«Non serve più a nulla aspettare» confermò Molina.

Sebag disse la sua. Castello si rivolse direttamente a lui.

«Secondo lei può essere pericoloso?».

«Non credo».

Castello si allontanò per parlare con Lefèvre. Poi tornò da loro.

«Mandiamo quattro uomini nella proprietà. Due sul davanti e due sul retro. Quando saranno in posizione, lei andrà a suonare al cancello».

Sebag tornò alla macchina, accese il walkie-talkie e lo agganciò alla cintura. Attorno a lui gli altri poliziotti si stavano equipaggiando a loro volta. Sistemarono i giubbotti antiproiettile e verificarono le armi.

«Dovresti prendere il ferro» gli consigliò Molina.

Sebag aprì il cassettino del cruscotto, guardò per un attimo l’arma di servizio, poi ci ripensò – i poliziotti che lo accompagnavano erano tutti armati. Bastava così.

Uscì dalla macchina e si avvicinò al cancello in ferro battuto. Castello e Lefèvre lo seguirono facendo attenzione a restare nascosti dal muro di pietra.

Attesero. Poi una voce sussurrò nei walkie-talkie.

«Siamo in posizione».

Laurent Massart dirigeva le operazioni all’interno della proprietà. Era istruttore di tiro. Aveva preso con sé i migliori elementi. Castello fece un segno a Sebag.

«Avanti».

Lui suonò il campanello. Nessuna risposta. Riprovò. Nessun esito.

Il walkie-talkie gracchiò.

«Sentiamo il campanello, ma nessun suono all’interno».

Sebag lanciò un rapido sguardo al commissario.

«Suoni ancora una volta» consigliò Castello.

Sebag obbedì, sapendo bene che non sarebbe servito a nulla.

«Sempre nessun segno di vita» rispose la voce di Massart.

Sebag spense il walkie-talkie e poi spinse il cancello, che strusciò sui sassolini. Entrò lasciandolo aperto dietro di sé.

Protetto da una prospera palma, il casolare era circondato da un prato mal tenuto, costituito essenzialmente da muschi rinsecchiti ed erbe ingiallite. Il vialetto di sassolini rosa saliva dolcemente verso l’edificio. Sebag avanzò. Si sentiva calmo e disteso. La paura sarebbe arrivata dopo. Fintanto che erano in azione, la concentrazione la teneva alla larga.

Si fermò davanti alla Mégane station wagon, di fronte all’ampia porta in legno del garage. Nel bagagliaio c’era solo un vecchio cartello: “Strada interrotta – lavori in corso”.

Il vecchio casolare sembrava dormire dietro gli scuri di legno. Sul tetto, la cascata di tegole ocra era interrotta solo da un piccolo lucernario chiuso. Una grondaia in ceramica verde contornava il tetto, poi scendeva lungo l’angolo del muro per fermare la sua bocca aperta al di sopra del vialetto. Il lieve dislivello verso la strada era sufficiente a far scorrere via le acque piovane.

Sebag si piazzò davanti alla porta d’ingresso. Due poliziotti arrivarono ad affiancarlo. Sebag bussò. Tre colpi in crescendo. Gli agenti si appoggiarono al muro, pistole levate all’altezza del viso. Non si muovevano più. Ascoltavano. Il silenzio della casa con l’orecchio destro, le conversazioni nei walkie-talkie attraverso l’auricolare infilato nell’orecchio sinistro. I colleghi posizionati dall’altra parte dell’edificio confermarono l’assenza di rumori.

Sebag appoggiò la mano sulla maniglia. L’abbassò. La porta si aprì silenziosamente. L’interno era immerso nell’oscurità. Gli occhi avevano bisogno di tempo per abituarvisi. All’improvviso si rivide qualche giorno prima, sulla soglia di casa di Robert Vernier a Gien. La stessa atmosfera lugubre. Lo stesso profondo silenzio. Con in più, qui, un odore caldo e zuccherino che non riuscì a identificare subito.

Gli occhi distinsero dapprima una massa inerte stesa su una poltrona. Poi due gambe allungate. Infine due braccia penzoloni dai braccioli.

Sebag aprì una finestra mentre gli altri poliziotti cominciavano a esplorare la casa. Un filo di luce entrò finalmente nel salone. Contrariamente all’appartamento di rue de la Fusterie, la stanza traboccava di mobili antichi e soprammobili.

Didier Coll sorrideva. Era pallidissimo e sembrava dormire. Sul pavimento una chiazza appiccicosa andava dalla poltrona al camino. Sebag si avvicinò al corpo. Sul tavolino su cui erano appoggiati i piedi, un bicchiere teneva fermo un foglietto scritto a mano. Sebag si chinò. Il bicchiere aveva contenuto dell’alcol. Quanto al testo, si trattava di una breve poesia. Qualche strofa, un ritornello. La sagoma di Castello si stagliò sulla soglia.

«È morto?».

Sebag appoggiò la testa sul petto di Coll. Con sua grande sorpresa, percepì un battito lontano.

«Si direbbe di no» disse rialzandosi.

«Allora lasciamo fare ai soccorsi».

Castello si scostò. Prima di dare il via all’operazione aveva chiamato un’ambulanza. Una giovane donna medico entrò nella casa. Due infermieri la seguivano con una barella sotto il braccio. Tutti gli ispettori attendevano fuori. Senza dire niente. Il gracchiare dei walkie-talkie raccontava l’esplorazione della casa.

«Al piano di sopra non c’è nulla. Si tratta di un granaio. Ci sono solo degli scatoloni con vecchi vestiti, carte e album fotografici».

«C’è un letto sfatto in una delle due camere al pianterreno. Qualche vestito in un armadio e dei libri su una sorta di secrétaire. Nient’altro».

«La cucina è stata usata di recente. C’è una bottiglia vuota di vodka nel lavello e degli alimenti freschi in frigo».

Jean Pagès e la sua assistente si aprirono un varco tra gli ispettori. Castello prese il walkie-talkie per comunicare coi poliziotti che erano all’interno della casa.

«Se non trovate nessuno, uscite fuori. E fate attenzione al pianterreno, c’è sangue ovunque».

Pagès gli rivolse un sorriso a mo’ di ringraziamento. Prima di rientrare dovette far passare la barella. Interrogò la giovane dottoressa. Lei sollevò gli occhi al cielo.

«Ha perso molto sangue» disse, «è in coma. Lo trasferiamo subito in ospedale, non posso pronunciarmi adesso».

Il walkie-talkie la interruppe. Gli scricchiolii erano più numerosi, la voce più eccitata.

«Sono in cantina. È vuota, ma è evidente che qualcuno è stato tenuto qui dentro».

Sebag tornò dentro. Vedendolo, Pagès gli lanciò un’occhiataccia.

«Non t’incazzare, non tocco niente» si contentò di dire Sebag.

Mentre scendeva le scale di pietra che portavano alla cantina, sentì dei passi risuonare dietro di sé. Si voltò. Lefèvre.

In fondo alle scale un corridoio conduceva a una porta. A metà strada, un congelatore restringeva il passaggio. Lungo e largo, sembrava un mausoleo bianco. I poliziotti si fermarono, esitanti. Lefèvre mise la mano sul coperchio, prese un profondo respiro e poi lo sollevò.

Il congelatore era vuoto.

Sebag e Lefèvre seguirono il corridoio fino alla porta. Scoprirono una prima stanza adattata a bagno. Una lampadina nuda e sbiadita dispensava una luce flebile. Davanti a un grande armadio c’era una doccia. Un poliziotto in uniforme era ancora lì a osservare il posto, con la pistola sempre in pugno.

«Tutto ok, puoi andare» gli disse Sebag. «Inutile stare qui in troppi».

Passò nell’altra stanza. L’odore di vino aleggiava ancora, ma lontano, coperto da odori più forti e sgradevoli.

«C’è puzza di mutande sporche e sudore» riassunse freddamente Lefèvre.

Sebag preferì non dir nulla. Tralasciando la brutalità, l’affermazione di Lefèvre era ovvia.

La stanza era immersa nella semioscurità. Era dotata di una finestrella che non lasciava passare altro che un misero raggio di sole. Sebag, a tastoni, scovò un interruttore. Lo premette, ma senza successo. Lefèvre attraversò la stanza a passettini prudenti. Aprì la finestrella e con un pugno ben assestato spostò l’ammasso di assi e cartoni che ne ostruivano l’apertura. Un vecchio materasso, una tavola, una sedia e un secchio a mo’ di gabinetto costituivano l’unico arredamento della cella.

Sebag si avvicinò al materasso e odorò. Lo esaminò senza toccarlo. C’erano delle tracce umide sul guanciale. Lacrime, o sudore. Sentì una vertigine. Una profonda stanchezza lo invase.

Si sedette contro il muro. Spossato. Non era finita. Il gioco continuava.

Ingrid doveva aver vissuto un calvario per tre settimane in quella squallida prigione. Aveva sperimentato la solitudine, l’oscurità, la sporcizia. La paura e l’angoscia. L’assenza totale di speranza in quella gabbia umida. Frammenti di una poesia di Baudelaire gli tornarono in mente. Si parlava proprio di una gabbia umida. Non ricordava l’inizio, ma diceva qualcosa del tipo ...sbatte la Speranza, timido pipistrello, con le ali contro i muri e con la testa nel soffitto marcito.

Invece la fine se la ricordava anche troppo bene. Schiuse le labbra e mormorò tra sé e sé:

«...Speranza piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra, infilza nel mio cranio il suo vessillo nero7».

Affondò il viso tra le mani e perse coscienza per qualche frazione di secondo.

Un rumore di martellamento lo trasse dal torpore. Raddrizzò la testa. Col dorso del braccio Lefèvre picchiettava i muri.

«Cosa sta cercando di preciso?» gli chiese.

«Una cavità... un nascondiglio... una stanza segreta, non lo so, qualcosa di strano».

Sebag non si prese la briga di dissimulare la propria perplessità. Lefèvre si vide costretto a spiegare.

«Si ricorda del caso Dutroux, il pedofilo belga?».

«A grandi linee, sì».

«Quando i gendarmes che indagavano sulla scomparsa delle due bambine hanno perquisito per la prima volta la casa di Marc Dutroux, hanno ispezionato la famosa cantina in cui erano rinchiuse, ma non hanno trovato niente. Eppure erano a qualche centimetro da loro, in una cavità nascosta dietro un muro, ma non hanno visto né sentito nulla. Non vorrei che capitasse a me una cosa del genere, un giorno».

Sebag si appoggiò al muro per rimettersi in piedi. Si sfregò le mani e i vestiti imbiancati dalla polvere che si staccava dai blocchi di pietre che costituivano le pareti. Poi tirò fuori l’accendino e si mise a battere anche lui sulla parete. Elsa Moulin, l’assistente di Pagès, li colse in piena azione quando entrò nella stanza senza far rumore. Sobbalzarono. Lei sorrise.

«State facendo le prove per un concerto?».

«Magari» rispose Sebag, «ma questo cazzo di muro si ostina a non produrre neanche una nota».

«Jean si sta innervosendo a sapervi qui. Vorrebbe che ve ne andaste. È il nostro lavoro, e lui è alquanto puntiglioso in merito».

Sebag poggiò la mano sulla spalla di Lefèvre.

«Mi sa che abbiamo fatto il giro, no?».

«Sì. A quanto pare, non c’è niente».

Il giovane commissario si rivolse a Elsa.

«Vorrei che per prima cosa ispezionaste questa stanza».

«Nessun problema. Abbiamo quasi finito, di là in salone. Vado a dirlo a Jean: se sono io che propongo le cose, non ha mai obiezioni da fare».

Sebag uscì con piacere alla luce del giorno. La spossatezza era chiaramente visibile sul suo volto.

«Dovrebbe andare a riposare» gli consigliò Castello. «Per il momento non può far nulla. E in questo stato non ci è di alcuna utilità. Restiamo noi qui. Esamineremo questa casa centimetro per centimetro e se sarà necessario rivolteremo il giardino».

Sebag passava il peso da un piede all’altro. Non si decideva ad andar via. Sapeva che Castello aveva ragione, ma non era facile gettare la spugna.

«Ho detto anche a Molina di andar via» insisté il commissario. «Avete fatto un buon lavoro, entrambi. Adesso tocca a noi. Tornate a casa, fatevi una bella doccia e andate a dormire. Prometto che vi terrò al corrente se scopriamo qualcosa. In caso contrario, appuntamento domattina alle otto in commissariato».

Mentre parlava il commissario si era incamminato per il vialetto. Sebag gli era andato dietro. Davanti al portone, Molina aspettava.

«Jacques, riaccompagni Gilles a casa e poi si tenga la macchina».

Con la mano sulla portiera, Sebag esitava ancora. Contemplò a lungo la casa. Molina si avvicinò.

«Nessuno è indispensabile. Abbiamo fatto del nostro meglio. Ora tocca agli altri».

Sebag si girò verso il collega.

«Ha lasciato un biglietto sul tavolino. L’ho letto, ma non mi ricordo una sola parola. Di certo è qualcosa d’importante...».

«Datti un paio d’ore di sonno nel tuo letto e dopo sarai più fresco per lanciarti in un nuovo enigma».

Durante il tragitto Sebag e Molina non si sforzarono di fare conversazione. Pensavano a Ingrid. Il viso sorridente della ragazza era davanti agli occhi di Sebag. Che ne era stato di lei? Dovevano cercare un cadavere, adesso?

Alla rotonda della Garrigole, Sebag consigliò a Molina di prendere il guado per attraversare il fiume Têt.

Confusamente Sebag sentiva che la ragazza era ancora viva. Coll aveva previsto che il gioco proseguisse senza di lui. Quel pensiero gli dava una sensazione di urgenza. Aveva il diritto di andare a riposarsi mentre Ingrid forse lo aspettava da qualche parte? Si rimproverava di aver mollato troppo presto, poi si risentì con se stesso perché stava prendendo quel caso troppo a cuore. Come aveva detto Molina, nessuno è indispensabile. Lui come gli altri. Le indagini potevano proseguire benissimo senza di lui.

Oltrepassarono lo stadio di rugby di Saint-Estève, poi arrivarono davanti alla cisterna. Mancava poco ormai.

Molina fermò la macchina davanti al cancello della casa. Sebag aprì la portiera prima di tendere la mano al collega.

«Ma tu non avevi da fare coi tuoi figli, oggi?».

«Sì, ma mia moglie ha accettato di tenerli ancora per questo fine settimana. Lunedì sarà tutto finito, no?».

Sebag confermò.

«Sì, in un modo o nell’altro».

 

La solitudine e il silenzio della casa furono un sollievo.

Sebag prese una birra dal frigo e la bevve dalla bottiglia, stravaccato sulla poltrona del soggiorno. Avvertiva di aver mal sopportato la notte in bianco. Si sentiva vecchio.

Tirò fuori dalla tasca il cellulare e fece il numero di Castello. Percepiva nello stomaco una paura sorda, ma il commissario lo rassicurò. Avevano rapidamente sondato il laghetto, ma non vi avevano trovato che tre ranocchie e un rospo.

Lasciò la bottiglia di birra vuota sul tavolino e s’infilò a letto – le lenzuola erano sporche, doveva cambiarle.

Non ci mise molto a perdere il filo dei pensieri. Dormì un sonno lungo e profondo benché popolato da sogni agitati. Incatenata nella stiva umida di una nave abbandonata, Claire chiedeva disperatamente aiuto, ma lui non riusciva a muoversi. Aveva bevuto davvero tanto, il corpo era troppo pesante e non gli rispondeva. La mente era lucida e si accaniva a rimettere in ordine i versi di Baudelaire. Nel suo sonno delirante si mise a giocare con le parole. Dal vetro al verso, “un verso va bene”, all’inverso e contro tutti, i versi della poesia si mutarono in vermi che ricoprirono poco a poco il corpo di Claire.

Si svegliò urlando.

 

7 Charles Baudelaire, “Spleen”. In: Baudelaire, Charles, Poesie e prose, trad. G. Raboni, Mondadori, Milano 1977. [N.d.T.]