7.

 

Nonno, giochiamo?».

Il bimbo fissava con i grandi occhi azzurri suo nonno, immobile.

«Ehi nonno, dài...».

Appoggiò le dita sottili sulla manona secca del vecchio, che restava prostrato davanti al bicchiere di pastis.

«Giochiamo a bocce?».

Louis insisteva con la pazienza testarda di cui sanno dare prova i bimbi di quattro anni.

«Allora, nonno, giochiamo?».

Malgrado la voce alta e acuta non riusciva ad attirare l’attenzione del nonno.

Alla fine il bimbo lanciò una boccia sul tavolo rovesciando il bicchiere di pastis. Robert si riscosse dal suo letargo e, constatando i danni, si lasciò sfuggire un’imprecazione. Incrociò lo sguardo triste della figlia e si riprese. Con ritardo, le domande insistite del nipotino arrivarono alla sua mente. Riuscì ad abbozzare un sorriso e si alzò faticosamente. Non c’era verso, l’alcol non gli era d’aiuto.

Prese le bocce e poggiò una mano sulla spalla di Louis.

«Tiro io per primo» s’impose il bimbo. «Lo tiro io, il boccetto».

«Il boccino» corresse automaticamente Robert.

«Sì, il boccino, lo lancio prima io, va bene?».

Robert portò Louis verso il campo di bocce. Salutò distrattamente i quattro vacanzieri che stavano disputando una partita. Ne conosceva almeno due, Jean e suo figlio. Come si chiamava? Ah, sì, Patrick. Ormai doveva avere sui vent’anni. Vent’anni... come la giovane olandese.

«Tutto bene, Robert?» chiese Jean scrutandolo da sopra gli occhiali.

«Tutto bene» rispose Robert senza la minima convinzione.

All’inizio l’avevano commiserato, si erano impietositi. Più per lui che per la ragazza, che in pochi avevano conosciuto: la maggior parte dei campeggiatori che al momento soggiornavano al Lauriers Roses erano arrivati dopo la tragedia.

«Fare una scoperta di quel genere, ma ci pensa? È uno shock. È dura riprendersi, è normale! Si dia un po’ di tempo, vedrà che andrà meglio. Dimenticherà tutto...».

Ormai erano passate quasi due settimane, e non aveva dimenticato nulla. Il viso maciullato di Josetta continuava a tormentarlo. Giorno e notte. La gente si era stufata di sentirgli ripetere quella storia e avevano cominciato a evitarlo. Robert allora si era chiuso nel mutismo.

Anche i giornali locali si erano stancati presto. L’omicidio della giovane olandese aveva fatto i titoloni il primo giorno. L’indomani occupava già un posto più defilato, sebbene ancora in prima pagina. Poi era migrato nelle pagine interne, fino a sparire del tutto. In mancanza di sviluppi o di semplici progressi nelle indagini, il caso era scivolato nell’oblio e nell’indifferenza. Argelès si preparava ad accogliere orde di turisti. Come ogni estate, la popolazione del comune si sarebbe decuplicata o addirittura moltiplicata per dodici in meno di una settimana. Non c’era più un minuto da perdere. Presto sarebbero arrivati i turisti. Tutto doveva essere pronto. Tutto doveva essere bello.

Solo i tormenti di Robert perpetuavano il ricordo della ragazza.

«Nonno, ho tirato il boccetto. Ho tirato anche la boccia. Ora tocca a te».

Robert contemplò l’area di gioco. Ebbe qualche difficoltà a ricordarsi cosa ci facesse lì. Il boccino si era fermato contro le assi che delimitavano il terreno, ma dov’era la boccia lanciata da Louis?

«Dài, nonno, tira» si spazientì il bimbo.

Alla fine Robert individuò la boccia. Ad appena un metro di distanza. Lanciò anche lui la sua. O meglio, la smanacciò. Per un colpo di fortuna o di sfortuna, si incollò al boccino. Louis era ammirato e furioso allo stesso tempo.

«Ma così non vale, nonno! Tu sei più grande, dovresti tirare da più lontano».

Andò a tracciare una riga un buon metro più indietro. Robert, docile, indietreggiò. Louis ne approfittò invece per avanzare un po’. Si piazzò proprio accanto alla sua prima boccia, che raccolse senza la minima vergogna. “Buffo, è sempre stato così” pensò Robert. “Puntiglioso e incapace di perdere, tutto suo padre...”. Era ingiusto nei confronti del genero, lo sapeva, ma se ne fregava.

Anzi, la cosa gli faceva perfino bene.

Louis rilanciò la boccia, che rimbalzando contro l’asse di legno andò a colpire quella del nonno. Gridò di gioia e soddisfazione.

«Ho vinto, nonno! Un punto per me!».

Robert accettò le regole improvvisate dal nipote. Raccolse il boccino e glielo diede.

I gendarmes l’avevano interrogato. Brevemente. Avevano visto quanto era sconvolto dalla scoperta e non avevano insistito. Dopotutto, non ne sapeva molto. Non aveva fatto altro che incappare per caso nel corpo.

Il sentiero di accesso alla spiaggia era rimasto chiuso per ventiquattr’ore. La squadra di ricerca della gendarmerie aveva passato al setaccio la zona, ma non aveva trovato nulla. O almeno così aveva capito leggendo i giornali. Per una settimana, tutte le mattine s’era recato nel bar più vicino per dare un’occhiata a L’Indépendant. Si sedeva sulla terrazza di fronte al mare e ordinava un espresso che poi zuccherava generosamente. Come una volta. Era buono. E ’fanculo il diabete! Prima o poi sarebbe morto. Qualunque cosa avesse fatto o detto, la morte avrebbe avuto comunque l’ultima parola.

Sempre.

Secondo i giornalisti le indagini stagnavano. I gendarmes non sembravano avere alcuna pista precisa e, in assenza di violenza sessuale, sospettavano che l’autore del delitto fosse un vagabondo. Un’ammissione d’impotenza.

Dopo l’autopsia il corpo di Josetta era stato rimpatriato nei Paesi Bassi e cremato il giorno successivo. Una cerimonia commovente, stando alle parole dell’inviato. L’articolo era accompagnato da una foto dei genitori e della sorella della vittima. In lacrime.

La partita di bocce proseguiva senza incidenti. Robert si premurava di lanciare le bocce a casaccio. Louis lanciava e rilanciava le sue fino a piazzarle il più vicino possibile al boccino. Visto che ancora non sapeva contare, senza alcuna malizia passò da cinque a dieci punti. Robert si congratulò con lui.

«Dieci a zero, hai vinto. Bravo».

Louis riconobbe il trionfo con modestia.

«Non vedo l’ora che arrivi papà, è più forte di te, ma forse riesco a vincere io lo stesso. Facciamo un’altra partita, nonno?».

Robert passò una mano segnata dalla vecchiaia tra i corti capelli scuri del nipote.

«Più tardi, Louis, più tardi. Sei troppo forte per me. Mi hai distrutto, sai?».

«Se vuoi ti posso dare qualche punto di vantaggio» insisté il bimbo.

«Grazie. Vediamo la prossima volta».

«Allora metti a posto tu» ordinò Louis dirigendosi verso l’area giochi del campeggio.

Robert raccolse le bocce e il boccino. Li sistemò nell’astuccio di plastica, poi tornò verso la roulotte. Sotto la veranda, Florence lo aspettava seduta alla bell’e meglio su una panca, le gambe un po’ divaricate, il pancione tondo.

«Grazie, per lui. Adora giocare con te».

Robert si lasciò cadere su una poltrona. Prese la rivista di cruciverba e la sfogliò alla ricerca di una nuova griglia. La maggior parte erano già iniziate, ma non ne aveva terminata nessuna. Richiuse la rivista, poi allungò la mano verso la bottiglia di pastis. Esitò. Non ne aveva poi così voglia.

«Bevi molto ultimamente, vero?» buttò lì Florence.

Lui le rispose, più stanco che irritato:

«Tua madre non c’è più e non può più darmi il tormento. Non sentirti obbligata a prendere il suo posto».

Si versò una bella dose di pastis e finì di riempire il bicchiere con l’acqua tiepida contenuta in una brocca che era sul tavolo. Florence si morse le labbra per non piangere. Non aveva mai visto suo padre in quelle condizioni. Lo guardò svuotare metà bicchiere tutto d’un fiato.

Era cambiato. Era diventato più pallido. Più magro. Più vecchio. Allarmata dalla tristezza della sua voce al telefono, aveva deciso di venire prima del previsto. Senza aspettare le ferie del marito. Lei era in maternità, incinta della piccola Anaïs, e non doveva far altro che riposarsi e badare a Louis. Per quanto le due cose potessero essere compatibili tra loro. Era partita da Parigi con un treno notturno assieme al figlioletto. Arrivati a Elne il mattino presto, Robert era andato a prenderli in macchina. Lei non era riuscita a trattenere un sussulto di sorpresa quando aveva visto le guance scavate, gli occhi cerchiati e il colorito spento. Louis si era rifiutato di dare un bacio al nonno.

Robert si staccò dal bicchiere.

«Quando arriva Arnaud?».

Non gliene fregava niente, ma gli occhi umidi della figlia avevano toccato una corda ancora sensibile del suo animo. Florence, poverina, non c’entrava niente con quello che gli stava capitando.

«Non prima del 10 luglio» rispose lei tirando su col naso. «Ha ancora tantissimo lavoro».

Il marito di Florence faceva l’architetto in un grande studio in zona La Défense. Aveva sempre difficoltà a liberarsi per le vacanze.

«Non so se hai fatto bene a venire, mia piccola Flo».

«Perché dici così, papà?».

Robert guardò il fondo del bicchiere.

«Non sono la compagnia ideale per una donna nel tuo stato».

Florence si alzò con fatica dalla panca e andò a sedersi accanto a suo padre. Gli mise un braccio sulle spalle.

«Ti dà fastidio che io sia qui?».

Lui riuscì a sorriderle. La presenza della figlia lo costringeva a sforzi sovrumani.

«No, tesoro. Tutt’altro».

Spinse via il bicchiere vuoto.

«Ce l’ho con me stesso perché non riesco a offrirti una faccia migliore. Ci provo, ma non ci riesco».

Un singhiozzo trattenuto soffocò le ultime parole.

«Non preoccuparti per me, sono cresciuta. So che per te sarò sempre la tua piccolina, la piccola della famiglia, ma non sono più una bambina. E da un bel po’ di anni, ormai...».

Massaggiò il collo del padre. Era da tanto tempo che non avevano più contatti fisici. Florence era cosciente che stavano oltrepassando un confine. I ruoli si invertivano: adesso era lei a prendersi cura di lui.

«Credo che dovresti andare da un medico».

Sentì che si irrigidiva.

«Non sono malato» protestò.

«È una specie di malattia, sai?» disse lei piano. «E come tutte le malattie, si può curare».

Robert si raddrizzò.

«Vuoi che vada da uno psicologo? Alla mia età?».

«Non c’entra niente l’età. E non c’è nulla di cui vergognarsi. Ma se preferisci, vai prima dal medico di base. Perlomeno ti darà qualcosa per aiutarti a dormire».

«Dormire? Ma se non faccio altro...».

La bugia del padre la fece sorridere suo malgrado.

«Tu non dormi, sonnecchi. Ti appisoli dieci volte al giorno, ma la notte non dormi. Fai del tuo meglio per essere discreto, ma la roulotte è piccola... e io ti sento».

Robert si metteva a letto presto tutte le sere. Sfinito. Talvolta s’addormentava in fretta, ma sempre di un sonno travagliato. Si risvegliava parecchie volte durante la notte e finiva per alzarsi e andarsi a stendere sotto la veranda. Lì, nella relativa calma del mattino presto, aspettava, tendendo l’orecchio ai più piccoli rumori del campeggio. Dei passi sulla ghiaia, lo scroscio di uno scarico, un ranocchio che gracidava in lontananza. Quando sentiva i primi movimenti all’interno della roulotte, si alzava e andava al panificio più vicino. Venti minuti tra andata e ritorno. La strada, per fortuna, passava lontana dalla spiaggia.

«Non ti faccio dormire?».

Florence colse lo spunto che il padre le offriva.

«Be’, un po’ è vero. E nelle mie condizioni ho bisogno di dormire».

Si accarezzò la pancia tonda.

«Va bene, mia piccola Flo» acconsentì, «andrò da un medico. Ti ricordi del dottor Pascal? Ci andavamo quando ti veniva l’otite. Mi sa che a fine anno va in pensione. Sarà l’occasione per salutarlo».