9.

 

Giorno dopo giorno le condizioni miglioravano.

La ragazza adesso era libera di muoversi. Non aveva più le mani legate. Poteva asciugarsi le lacrime col rovescio della manica, soffiarsi il naso con le dita, e soprattutto grattarsi. Si sentiva il corpo ricoperto di vesciche, divorato da minuscoli ma innumerevoli insetti che formicolavano nella sua prigione. Quando ci pensava sentiva un lungo brivido percorrerle la spina dorsale.

Quella mattina si era tolta la benda. Non sapeva se ne aveva il diritto, ma si era decisa. Aveva osato. Nei primi giorni di prigionia il suo carceriere verificava i legacci ogni volta che veniva a portarle da mangiare. Poi aveva smesso di farlo. Prima di entrare nella stanza si preoccupava di bussare, tre colpi in successione, poi aspettava qualche secondo. Come se le volesse lasciare il tempo di rimettersi la benda.

Dopo aver immaginato quell’universo per tanto tempo, adesso lo vedeva.

Niente di che, in verità.

La prigione era una cantina. Buia e sinistra. A un’estremità della stanza, una finestrella schermata dall’esterno da una pila di assi e cartoni lasciava filtrare nonostante tutto un po’ d’aria e di luce. Si sollevò sulla punta dei piedi. Con un semplice pugno sferrato con rabbia avrebbe potuto liberare l’apertura. Respirare a fondo, inebriarsi, bruciarsi gli occhi con la luce del sole. Ma poi? Quale sarebbe stata la reazione del suo rapitore? Non avrebbe sopportato di essere punita. Legata di nuovo e sprofondata nell’oscurità. Se solo avesse potuto sperare di fuggire attraverso la finestrella. Ma era troppo alta e troppo stretta.

Adesso poteva contare i giorni.

Ricordava di essersi addormentata nel taxi di José, era un martedì sera. Doveva aver dormito fino al giorno successivo.

Da quanto tempo era prigioniera? Almeno una settimana, calcolava. Immaginava l’angoscia dei suoi genitori. I pianti della madre, il silenzio inquieto del padre. Mio dio, che settimana spaventosa avevano dovuto passare. Continuavano a lavorare, o avevano preferito restare a casa tutta la giornata in attesa di una telefonata sempre meno sicura? Sapeva che non dormivano più, o se lo facevano era solo per qualche istante, a sprazzi, sfiniti dalla fatica e dall’angoscia. Era la loro unica figlia, il loro angelo, il loro gioiello, la luce dei loro occhi. C’era stato un tempo in cui ne aveva sofferto. Durante l’adolescenza era arrivata persino a invidiare la sua amica Mary, orfana dalla nascita. Quale formidabile senso di libertà si doveva provare quando non bisognava portare sulle proprie fragili spalle le speranze, le inquietudini e le ambizioni di un padre e di una madre? Di tanto in tanto si sentiva di nuovo vinta da quello stato d’animo: sarebbe stato tutto così semplice se avesse dovuto pensare solo a se stessa. Ma poi, in altri momenti, quando la disperazione l’assaliva e temeva di impazzire, si aggrappava con rabbia al ricordo di suo padre e sua madre. Se non poteva più combattere per sé, allora doveva farlo per loro. Sarebbero stati troppo infelici se...

Le lacrime le scorrevano sulle guance.

José... Non smetteva di interrogarsi sul ruolo che il suo amante aveva avuto nel rapimento. Il sonno pesante che l’aveva assalita durante il tragitto in taxi non aveva nulla di naturale. Era stata drogata. Ricordava l’insistenza di José per farle bere una birra quando erano saliti in macchina. «Ti darà coraggio» le aveva detto. Alla fine aveva accettato. Quello che stava per fare era una prima volta assoluta, per lei.

I genitori di certo avevano avvertito subito la polizia olandese, ma quanto tempo ci sarebbe voluto perché i poliziotti francesi si mettessero a cercarla? Quanto, perché la trovassero?

Immerse le mani in un catino d’acqua fredda. Da tre giorni, ogni mattina, l’uomo gliene appoggiava uno su uno sgabello accanto al secchio in cui lei faceva i suoi bisogni. Poteva lavarsi. E ogni volta che l’angoscia le stringeva il cuore andava a sciacquarsi il viso.

Nonostante le ripetute abluzioni, un odore forte e acre persisteva intorno a lei. La gonna e la blusa ne erano impregnate. Per non parlare della biancheria intima. Vista la temperatura della cantina, avrebbe potuto mettersi nuda. Aveva frequentato campeggi nudisti e non si era mai sentita in imbarazzo. Non aveva pudore, anzi, era anche abbastanza fiera del suo corpo. Ma non si trovava in uno di quei campeggi, e aveva la sensazione che per considerarsi ancora un essere umano era meglio tenersi addosso degli abiti puzzolenti piuttosto che andare in giro senza vestiti.

Si sentiva spiata. Non appena finiva di mangiare il rapitore entrava a recuperare il vassoio, come se fosse rimasto in agguato tutto il tempo. Alcune volte lei l’aveva tirata per le lunghe, di proposito, masticando lentamente, bevendo a piccolissimi sorsi. Altre volte aveva mangiato velocissima, abbuffandosi come durante quel primo pasto. Ma ogni volta, non appena ingoiava l’ultimo boccone, lui compariva.

Lei gli parlava di continuo. Anche quando non era nei paraggi. Gli raccontava della sua infanzia, della sua città, dei suoi genitori. Parlava di cinema e pittura. Gli faceva domande sui suoi gusti o sul tempo che faceva fuori. Con un tono leggero, come quello di una conversazione tra amici. Sapeva che lui non avrebbe mai risposto. D’altro canto, non si augurava che rispondesse. Non voleva avere elementi per riconoscerlo in futuro.