4.

Di come a mezzanotte i santi e gli angeli abitino le chiese vuote, abbandonate dalle torme diurne di turisti estasiati.

Max era di nuovo in poltrona e imprecava contro le circostanze. Continuava a guardare lo schermo nero. Continuava a ripetere Gesú, o Cristo santo, o Cristo di un Dio.

Diane era seduta di sbieco, in modo da poter guardare entrambi gli uomini. Suggerí a Max di approfittarne per preparare gli spuntini dell’intervallo. Perché era possibilissimo, no?, che nel giro di pochi minuti il collegamento sarebbe stato ripristinato, che sarebbero tornate in onda le immagini della partita che intanto era andata normalmente avanti; aggiunse poi di non credere nemmeno a una parola di quanto aveva appena detto.

Invece di andare in cucina, Max raggiunse il mobile bar e si versò un bicchiere di Widow Jane, un bourbon invecchiato dieci anni in botti di rovere americano.

In situazioni normali l’avrebbe annunciato a tutti i presenti. Invecchiato dieci anni in botti di rovere americano. Era il genere di cosa che gli piaceva dire, con una punta di ironia nella voce.

Stavolta però non disse niente e non offrí un bicchiere a Martin. Sua moglie beveva vino, ma solo a cena, mai durante le partite di football.

Bofonchiò il nome di Gesú ancora diverse volte e si sedette a guardare lo schermo, con il bicchiere in mano, in attesa.

Diane guardava Martin. Le piaceva guardarlo. Fingeva di scrutarlo. Nei suoi pensieri lui era il Giovane Martin, il titolo del capitolo di un libro.

Poi disse sottovoce: – Gesú di Nazareth.

Martin avrebbe reagito come lei immaginava?

– Il nome radioso, – disse lui.

– Questo lo diciamo noi. Lo dici tu e lo dico io. Ma cosa ha detto Einstein?

– Ha detto: «Sono un ebreo, ma sono affascinato dalla figura luminosa del Nazareno».

Max fissava lo schermo nero. Guardava e beveva. Diane cercava di tenere gli occhi fissi su Martin. Sapeva che il nome Gesú di Nazareth aveva qualcosa d’ineffabile che attirava Martin nella propria aura. Martin non praticava nessuna religione e non venerava nessun essere dai presunti poteri soprannaturali.

Era quel nome ad affascinarlo. La bellezza del nome. Del nome e del luogo.

Max era tutto proteso in avanti. Pareva che cercasse di invocare l’apparizione di un’immagine sullo schermo attraverso uno sforzo di volontà.

Diane disse: – Roma, Max, Roma. Te lo ricordi, questo. Gesú nelle chiese, sulle pareti e sui soffitti dei palazzi. Te lo ricordi meglio di me. Quel palazzo, in particolare, con i turisti che si spostavano lentamente di sala in sala. Dipinti enormi. Le pareti e i soffitti. Quel posto lí in particolare.

Diane guardava Martin. Non era un uomo minuto e tenero dall’aria da bambino. A lei appariva come una mente che cercava di affrancarsi dal vincolo che la legava al lungo corpo dinoccolato, mani che si agitavano quasi non fossero attaccate alle braccia. Si sentí in colpa per avergli offerto una sedia della cucina sprovvista di cuscino.

– Ho provato a intrufolarmi con Max in una visita guidata, ma lui me l’ha impedito. Non sopportava l’idea della guida, – disse Diane. – I quadri, i mobili, le sculture in quelle lunghe gallerie. Soffitti ad arco con pitture murali spettacolari. Qualcosa di assolutamente, potentemente incredibile.

Lo sguardo di Diane era ora perso nel vuoto.

– Quale palazzo? – chiese a Max. – Tu te lo ricordi. Io no.

Max bevve un sorso di bourbon, annuendo appena.

In una galleria, i turisti con le cuffie alle orecchie, immobili, esistenze sospese, gli occhi rivolti in alto verso le figure dipinte sul soffitto, angeli, santi, Gesú con i suoi indumenti, i suoi vestimenti.

Diane parlava con trasporto, la testa buttata all’indietro, una guida estemporanea.

– Quanti anni fa? Max.

Max si limitò ad annuire.

Martin disse: – I suoi vestimenti. Cerco d’immaginare un indumento sgualcito inglobato in questa parola.

– Altri con le audioguide in mano, appoggiate alle orecchie. Voci in chissà quante lingue. Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, prima di addormentarmi: quelle figure ferme nelle lunghe gallerie.

– Con gli occhi fissi verso il soffitto, – disse Martin.

– Max. Quando è stato di preciso? Gli anni sono un guazzabuglio ormai. Sto invecchiando a vista d’occhio.

Max disse: – La squadra è pronta a uscire allo scoperto per approfittare dell’occasione.

Scrutava con apparente attenzione lo schermo nero.

Il giovane guardava la donna, la moglie, l’ex docente, l’amica, la quale invece non trovava niente, nessun luogo dove posare lo sguardo.

Max disse: – Che incursione travolgente, l’attacco sta spingendo all’inverosimile.

Diane si trattenne dall’interromperlo, dal dire qualcosa, qualunque cosa, e a un certo punto spostò lo sguardo su Martin semplicemente perché le sembrava fondamentale scambiare un’occhiata perplessa con qualcuno, chiunque.

Max disse: – Evita il sack, prende palla… intercetto!

Era il momento di un altro sorso di bourbon; Max s’interruppe e bevve. Diane era colpita dall’estrema scioltezza di quel linguaggio, parole che emergevano da telecronache presenti nell’inconscio di Max, anni e anni di discorso innato contaminato dalla natura del gioco, uomini che se le davano di santa ragione, che si scaraventavano a terra a vicenda.

Ground game, ground game, il tifo del pubblico, lo stadio in fermento.

Mezze frasi, parole spoglie, ripetizioni. Diane avrebbe voluto considerarlo una sorta di canto gregoriano, monofonico, rituale, ma poi si disse che queste non erano altro che sciocchezze pretenziose.

Max emise un suono gutturale, la voce della folla.

Di-fe-sa. Di-fe-sa. Di-fe-sa.

Si alzò, si stiracchiò, si risedette, bevve.

Il numero settantasette, coso lí, sembrerebbe un po’ frastornato, non è vero? Punizione per aver sputato in faccia a un avversario.

E poi: – Le squadre combattono piú o meno alla pari. Calcio di allontanamento da metà campo. Che azione spettacolare, signori.

Diane cominciava a provare una certa ammirazione.

Max disse: – L’allenatore dell’attacco. Murphy, Murray, Mumphrey, sta per uscirsene con qualche invenzione delle sue.

Senza smettere di parlare cambiò tono di voce; adesso era piú calmo, misurato, suadente.

Il tuo wireless su misura. Lenisce e idrata. Il doppio a un prezzo imbattibile. Riduce il rischio di malattie cardiache e psichiche.

Poi, cantando: – Già già già che felicità-tà-tà.

Diane era strabiliata. È il bourbon a dargli questa cadenza vivace, questa infiorettatura di gergo sportivo e di slogan pubblicitari? Non è mai successo, né con il bourbon, né con lo scotch, né con la birra, né con la marijuana. La cosa la divertiva, o almeno cosí le sembrava, ma tutto dipendeva da quanto lui avrebbe continuato con questa sua telecronaca.

O forse è lo schermo nero, un impulso negativo, a stimolare l’immaginazione di Max, a dargli la sensazione che la partita si stia svolgendo chissà dove nello Spazio Profondo al di fuori della fragile portata della nostra consapevolezza attuale, in una qualche curvatura transrazionale che appartiene esclusivamente alla dimensione temporale di Martin, ma non alla nostra?

Con una vocetta stridula Max disse: – A volte vorrei tanto essere umano, uomo, donna o bambino, per potermi gustare questo buonissimo succo di prugna.

Disse: – Finanziamenti Perpetui Postmortem. Avvia le pratiche online e scegli il finanziamento giusto per te.

Poi: – Ecco che riprende il gioco, secondo quarto, mani, piedi, ginocchia, testa, petto, inguine, giocatori che le danno, giocatori che le prendono. Super Bowl numero Cinquantasei. Il nostro Desiderio di morte nazionale.

Con un filo di voce, Diane disse a Martin che non c’era niente che impedisse a loro due di continuare a parlare. Max aveva la sua partita e non c’era modo di distrarlo.

Il giovane disse piano: – Sto prendendo una medicina.

– Sí.

– Per via orale.

– Sí. Lo facciamo tutti. Una pillolina bianca.

– Ci sono degli effetti collaterali.

– Pillola o compressa. Bianca, rosa, quello che è.

– A volte è la stitichezza. A volte la diarrea.

– Sí, – sussurrò lei.

– A volte la sensazione che gli altri siano in grado di sentire ciò che pensi o di controllare il tuo comportamento.

– Questa mi è nuova.

– Paura irrazionale. Sfiducia negli altri. Se vuoi ti faccio vedere il bugiardino, – disse lui. – Me lo porto sempre dietro.

Max intanto aveva ripreso a grattarsi l’avambraccio, non con le dita stavolta, ma con le nocche.

Disse: – Tentativo di field goal da quasi metà campo… è una finta, è una finta!

Lo schermo. Diane ogni tanto girava di poco la testa per controllare che fosse sempre nero. Non riusciva a capire perché questa cosa la rassicurasse.

Ma andiamo direttamente in campo, – disse Max. – Esther, raccontaci cosa sta succedendo.

Sollevò la testa reggendo in mano un microfono fantasma; poi, guardando una telecamera posizionata molto in alto rispetto al campo, cominciò a parlare con un tono di voce piú acuto.

Qui a bordocampo la squadra sprizza sicurezza da tutti i pori nonostante sia stata funestata da una caterva di infortuni.

Una caterva di infortuni.

Esatto, Lester. Ho parlato con il coordinatore dell’attacco, della difesa, quello che è. Sta godendo come un maiale che sguazza nella merda.

Grazie, Esther. E ora, torniamo all’azione.

Piano piano Diane si rese conto che Martin parlava, ma forse non necessariamente con lei.

– Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti, – diceva Martin. – La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione? Sono le pillole che prendo a dare vita a quest’altra versione di me? Guardo quella faccia con interesse. Sono interessato, ma anche un po’ confuso. Capita mai anche agli altri? La faccia di ognuno di noi. Cos’è che vedono gli altri quando camminano per strada e si guardano a vicenda? La stessa cosa che vedo io? Tutte le nostre vite, tutto questo guardare. La gente che guarda. Ma cos’è che vede?

Max aveva interrotto la sua telecronaca. Stava guardando Martin. Lo guardavano tutti e due, marito e moglie. Il giovane scrutava un punto in quella che si dice la media distanza, con sguardo cauto, in modo misurato, e intanto continuava a parlare.

– Il cinema è una via di fuga. Lo dico sempre ai miei alunni. Loro stanno seduti e ascoltano. Film in bianco e nero, in lingua straniera. Film in lingue sconosciute. Una lingua morta, una sottofamiglia, un dialetto, una lingua artificiale. Non leggete i sottotitoli. Glielo dico chiaro e tondo. Cercate di non leggere i dialoghi in traduzione che compaiono nella parte bassa dello schermo. Quello che vogliamo è cinema allo stato puro, lingua allo stato puro. Indo-iranico. Sino-tibetano. Gente che parla. Gente che cammina, parla, mangia, beve. La nuda potenza del bianco e nero. L’immagine, la copia a livello visivo. I miei alunni stanno seduti e ascoltano. Ragazzi e ragazze intelligenti. Solo che non mi guardano mai, o cosí sembrerebbe.

– Ascoltano, – disse Diane, – ed è questo che conta.

Max era in cucina a preparare i piatti. Lei avrebbe voluto uscire a farsi una passeggiata, da sola. Oppure avrebbe voluto che fosse Max a farsi una passeggiata e che Martin tornasse a casa sua. Dove sono gli altri, Tessa, Jim e compagnia bella, i viaggiatori, i giramondo, i pellegrini, la gente nelle case, nelle villette, negli appartamenti o nelle capanne dei villaggi. Dove sono le macchine e i camion, i rumori del traffico? Super Sunday. Sono tutti a casa o nella penombra di bar e circoli ricreativi e cercano di guardare la partita? Pensa ai diversi milioni di schermi neri. Cerca di immaginare i telefoni fuori uso.

Cosa succede alle persone che vivono dentro il loro telefono?

Max tornò al suo bourbon. Diane si rese conto che il giovane si era alzato, abbandonando la sua tipica postura stravaccata: testa indietro, occhi puntati in alto.

Diane rifletté per qualche istante.

– I soffitti dipinti. A Roma, – disse. – I turisti che guardavano in alto.

– Tutti immobili.

– Santi e angeli. Gesú di Nazareth.

– La figura luminosa. Il Nazareno. Einstein, – disse lui.