Tutto ciò che abbiamo amato e perduto, che abbiamo amato moltissimo, che abbiamo amato senza sapere che un giorno ci sarebbe stato rubato, tutto ciò che, una volta perduto, non è riuscito a distruggerci, per quanto abbia insistito con forze sovrannaturali e abbia perseguito con impegno e crudeltà la nostra rovina, finisce, prima o poi, per diventare gioia.
L’anima umana non sarebbe dovuta discendere sulla terra.
Sarebbe dovuta rimanere a quelle altezze, negli abissi celestiali, tra le stelle, nello spazio profondo. Sarebbe dovuta restare lontana dal tempo; l’anima umana sarebbe stata migliore senza essere umana, perché l’anima invecchia sotto il sole, si scioglie, crolla e avvampa in milioni di domande che si spargono sul passato, il presente e il futuro, che formano un unico tempo, ed è il tempo personale di ciascuno di noi, un tempo in cui l’amore è un desiderio permanente, che non si realizza, che ci avvisa della bellezza della vita e poi se ne va.
Se ne va.
Ci lascia in un silenzio poderoso, amaro e penetrante.
Milioni di domande che sono state esseri umani prima di trasformarsi in domande. Milioni di corpi, milioni di padri, madri, figli e figlie.
E rimaniamo soli e intirizziti.
L’anima umana siamo noi, tutti noi, desiderosi d’amore, tutti desiderosi di essere amati ogni giorno, ogni giorno in attesa dell’arrivo della gioia. Cos’altro dovremmo aspettare, altrimenti?
Quanto desidereremmo tutti noi che ci fosse un ordine e un senso nella vita, ma ci sono soltanto tempo e fuggitivi addii, e in quegli addii vive l’immenso amore che adesso sto provando.
Questo è il mio caos, questo il mio disordine.
Eccomi qua, abbandonato e allo stesso tempo in grado di sentire la forza della gioia, ma anche con la rabbia indefinita della vita dentro di me.
Come tutti gli esseri umani.
Perché siamo tutti la stessa cosa.
E in questa gioia affamata c’è tutta la coscienza della vita che siamo stati capaci di accumulare.
Agli inizi del 2018 ho pubblicato un romanzo, un romanzo che era il racconto della storia della mia vita, quel libro si è trasformato in un abisso.
Dentro quel libro abitava la storia della mia famiglia.
Bach e Wagner, mio padre e mia madre.
Ho messo la mia famiglia in un libro che aveva musica ed è la cosa più bella che abbia fatto nella vita.
Sei pazzo?, mi hanno detto in tanti.
No, è soltanto amore, ho risposto. Soltanto amore, e necessità, e speranza. Quando parli della tua famiglia, quella famiglia torna alla vita. Se scrivevo di mio padre e mia madre e di ciò che eravamo stati, tornava il passato, ed era potente e buono. Questo è tutto, questo è ciò che ho fatto.
In questo istante mi trovo in un albergo di Barcellona.
Non avrei mai pensato di scrivere ancora con una penna e un quaderno, come sto facendo adesso. Ho il computer davanti a me, ma non mi serve più.
Ho cambiato tre volte stanza in questo albergo. La prima non mi piaceva perché faceva caldo e la vista era orribile. Quando mi hanno dato la seconda, ho pensato che lì avrei potuto riposare: quel sollievo, quella necessità di trovare la calma, di non esser più avvolto in un groviglio di nervi, di andirivieni.
Però me ne stavo da un po’ steso sul letto quando mi sono reso conto che mi ero sbagliato. La stanza dava su avenida Diagonal, una delle grandi arterie di traffico di Barcellona, e il rumore che saliva dalla strada era eccessivo. Da eccessivo è diventato infernale. Era il rumore che producono gli sconosciuti, centinaia di uomini e donne che vagano per la città, con le loro auto, o le loro moto, o le loro conversazioni. Il rumore si stava trasformando in un nemico. Ho cominciato a innervosirmi. Come uno stupido, avevo disfatto i bagagli, animato da quella prima impressione positiva. Vedevo la mia valigia lì, aperta sul tavolo. Ho calcolato quanto avrei impiegato a rimettere tutto dentro.
Vedo le mie cose come se fossero quelle di uno spirito privo di corpo. I miei pullover neri, il mio computer, la mia agenda, il mio nécessaire. Sembrano cose che usava mio padre, sembrano effetti personali di mio padre, e non miei.
Era il 1º luglio a Barcellona. Ho sentito l’umidità che impregnava la città intera. Non sarei riuscito ad abituarmi a quell’umidità, che mi faceva sudare in maniera umiliante. La mia vita e il caldo si sono affratellati in qualche punto del mio passato. Quando sarò morto e non avrò più caldo, raggiungerò il nulla. Il nulla è non sentire più il caldo spagnolo, il caldo che fa sempre in tutte le città spagnole: caldo umido o caldo secco, ma caldo.
Il caldo e la vita sono stati la stessa cosa per me.
Ho cinquantacinque anni e tra qualche giorno ne compirò cinquantasei. Non credo a questa età. Se ci credessi, se la accettassi in tutta la sua penetrante verità, dovrei pensare alla morte. Non si può vivere se la morte occupa i tuoi pensieri, anche se nulla si sprigiona da noi con tanta forza quanto lei. È lì, nel tuo cuore. Nessuno ha voluto amare la propria morte, nessuno vuole parlare con lei, invece io voglio, perché mi appartiene.
Mi sono guardato allo specchio. L’invecchiamento degli uomini si mimetizza sempre, si nasconde. La società si mostra condiscendente con l’invecchiamento degli uomini, mentre è implacabile con quello delle donne.
Ho chiamato la reception e ho chiesto di cambiare di nuovo stanza. Qualcuno è venuto ad aiutarmi. Ho pensato che là sotto parlassero tutti di me.
«Ora tocca a te sopportare quel fuori di testa.»
«No, a me è toccato un altro pazzo la settimana scorsa; e molto peggio di questo qui, perché era sposato e sua moglie lo spalleggiava. Questo, almeno, è da solo.»
Ho immaginato questo dialogo, ma non ho provato assolutamente nessun disagio, bensì quasi riverenza perché i dipendenti dell’albergo mi dedicavano i loro pensieri e le loro critiche. Tutto è vita e tutto serve alla vita. In tutto c’è un omaggio alla vita.
A me è stato dato contemplare quell’omaggio in tutto ciò che occupa un posto sotto il sole.
Il giorno dopo ho chiesto un altro cambio. E sono testimone del fatto che la vita premia i testardi, quelli che non si danno pace finché non trovano il meglio. La perseveranza può farti diventare pazzo.
Probabilmente stufi di me, mi hanno dato una stanza spettacolare al quindicesimo piano, il più alto e forse il migliore dell’albergo. Era la stanza perfetta: grande, luminosa, la più prestigiosa dell’edificio. Si riusciva a vedere il mare in lontananza. E c’era una finestra anche nella doccia, da dove si contemplava Barcellona da un’altra angolazione.
Mi sono sentito padrone della città.
La città era ai miei piedi.
Ho acceso l’aria condizionata e tutto è stato perfetto.
A quel punto mi sono ricordato della prima volta che ero venuto a Barcellona. Era il 1980. La mia fidanzata di allora aveva dei parenti qui e dormimmo a casa loro; una sua zia ci mostrò la città. Quel fidanzamento non ebbe successo. E lo evoco adesso, trentotto anni dopo. Un amore svanito, del quale resta soltanto questo ricordo suscitato da un uomo di buona memoria. Cosa ci fa il tempo? Ma quello che sono stato, quello che è venuto a Barcellona con la sua fidanzata trentotto anni fa, è sepolto nel mio corpo, nella mia carne.
La mia stanza al quindicesimo piano di questo albergo sembra un luogo sacro, sono io che la sto trasformando in spirito.
A poco a poco scende la sera.
Ogni tanto guardo dalla finestra: Barcellona è là, piena di colori azzurri, in questo pomeriggio estivo, con le sue centinaia di strade e con i suoi morti che parlano ai vivi, in quella conversazione permanente che intrattiene la gente di più di cinquant’anni con le persone amate defunte.
Fra un po’ ho una cena con un circolo di lettura in cui hanno letto il mio romanzo, un libro in cui parlo di voi due: di te, mamma, di te, papà, perché voi due, e i vostri due fantasmi, siete tutto ciò che possiedo, e possiedo un regno, forse un regno indecifrabile, un regno di bellezza.
Vi siete trasformati in bellezza, e io ho assistito a quel prodigio. E non posso essere più grato alla vita, perché adesso siete bellezza e gioia.