Non sono mai stato del tutto felice perché sono sempre stato tanto intimorito quanto euforico. Le confessioni di felicità assoluta che a volte fanno gli esseri umani di solito sono false. A me la falsità elegante non interessa più. Desidero la verità, e la bellezza. Bellezza e verità come un matrimonio.
Non fu una grande malattia, nessuno sa bene di cosa si trattò. Si presentò nella mia vita quando avevo diciott’anni e frequentavo il primo anno di università. Avevo dovuto andar via da Barbastro per studiare fuori, a Saragozza. Vivevo in uno studentato, di cui conservo meravigliosi ricordi. Fu lì che ebbi la mia prima crisi.
Accadde una notte, in cui non riuscivo a dormire.
Non era soltanto che non riuscivo a dormire, magari fosse stato solo quello. Fui preso da una paura sconosciuta, che mi divorava dall’interno.
Il tormento psichico non ha contenuto.
Non si può narrare. Il tormento fisico sì che ha una trama, invece quello psichico no. È il morso di un lupo sconosciuto sul benessere dei tuoi pensieri, della tua anima, della tua coscienza, del tuo equilibrio.
Qualcuno ti morde al centro dell’anima, e capisci il morso; voglio dire che riconosci la razionalità di quel morso, perché in quel morso avido del tuo sangue c’è un allargamento della tua visione del mondo; vedi più cose; vedi i morti; vedi la porta di un aldilà della vita; vedi l’invisibile.
Ogni essere umano è in grado di vedere l’invisibile. Non è necessaria l’intelligenza, ma il cuore e la compassione. E la misericordia. Soprattutto, la misericordia.
Accadde nell’estate del 1981. Non riuscivo a dormire e stavo sveglio e soffrivo, e mi angosciavo, non riuscivo a parlare. Mia madre mi portò dal medico di famiglia. Era un uomo che assomigliava al presidente del Governo dell’epoca, vale a dire a Adolfo Suárez, anche se in quel momento era già ex presidente. A poco a poco la gente dimentica chi è stato Adolfo Suárez; le nuove generazioni lo vedono al massimo nei libri di storia; non fu nemmeno un politico di fama internazionale; però fu colui che rese possibile, a grandi linee, l’arrivo della democrazia in Spagna e diresse la politica spagnola tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta.
In quegli anni, tutta la Spagna aveva molta fede in Adolfo Suárez, si identificava con lui. La Spagna intera era Adolfo Suárez. Mio padre era Adolfo Suárez. Il medico che mi visitava era Adolfo Suárez. La gente che passava per strada era Adolfo Suárez. La vita si chiamava Adolfo Suárez.
Se evoco quel tempo, m’investe un sentimento di ingenuità. L’ingenuità si chiamava Adolfo Suárez. Poi, con il passare del tempo, tutti finirono per odiarlo, perché in Spagna è inevitabile che finiscano per odiarti, dato che proveniamo dall’odio. E lo si odiò in un modo nauseabondo. Sebbene esistessero motivi per professare tutta la disaffezione politica immaginabile nei confronti di Adolfo Suárez, l’odio che suscitò parlava male dell’odiatore e non dell’odiato.
Il medico che assomigliava a Adolfo Suárez era molto cerimonioso, molto solenne, e questo a mia madre piaceva; le sembrava che ci desse prestigio, e può darsi che avesse ragione. Mi prescrisse delle strane pastiglie, confezionate in una boccetta scura. È come se le avessi in mano proprio adesso.
Quando tento di raccontare da dove vengo, ci sono sempre abissi, scarpate che risucchiano tutto. Rimango senza parole. Quelle pastiglie erano antidepressivi. Ne presi un paio e poi smisi, perché mi sentii subito meglio. Ovviamente, non per le pastiglie, ma perché l’angoscia mi era passata, o così credevo.
No, non era passata, si era trasformata in un’altra cosa. Non era un disordine mentale, non era una depressione.
Era una passione, era una forma della passione.
Ricordo che quella stessa estate, qualche tempo dopo – avevo appena compiuto diciannove anni ed ero nel mezzo del mio abisso – vidi per strada mio zio Alberto Vidal, il fratello di mia madre, che mi piace chiamare Monteverdi. Vidi la sua essenza, lo vidi nel suo significato finale, e fu grazie alla mia forte instabilità nervosa. Allora non lo sapevo, ero soltanto nel bel mezzo del dolore, però quel dolore era anche conoscenza.
Ciò che ho visto nella vita mi ha turbato, ma è valsa la pena vederlo, perché ho vissuto più profondamente, e più onestamente.
Quella stessa sera estiva, con le finestre aperte, mia madre preparò salsicce e patate fritte per cena. Mia madre faceva delle patate fritte molto speciali, le riuscivano molto bene, a me piacevano da morire. Eppure non riuscii a mangiarne neanche una. Non mi entrava niente nello stomaco. Ero completamente a pezzi.
Era venuto un angelo a trovarmi, e non se ne sarebbe andato mai più.
Era l’angelo del mio essere, del mio disperato modo di vedere la vita, di vedere gli esseri umani, di vedere me stesso.
E il tempo passava molto lentamente. Per chi soffre di disturbi depressivi, il tempo si ferma. Non mi piace l’espressione «disturbi depressivi». Nel mio caso non lo sono mai stati. È dovuto passare molto tempo perché mi rendessi conto che nessun essere umano si esaurisce in una diagnosi. Le diagnosi sono una crudele invenzione degli uomini. Avevo un eccesso di coscienza, questo era tutto. Vedevo troppe cose. E quella sera, davanti alle salsicce, mi resi conto che non mi reggevo in piedi. Non è che mi prestassero molta attenzione. Mio padre non si accorse nemmeno di quello che mi succedeva. Aveva già abbastanza cose a cui pensare.
Le cose sue e le mie, che erano le stesse, che hanno finito per essere le nostre cose.
L’angelo mi disse guarda come si estende il vuoto su tutte le cose, guarda tuo zio Monteverdi, guarda le salsicce, guarda il calore estivo, e guarda te stesso, guarda gli alberi, il cielo, guarda i tuoi diciannove anni, guardami e abbi paura di me.
Ho avuto paura di lui, sì, per quasi quarant’anni ne ho avuto paura, e non ho mai parlato di lui, quasi con nessuno.
Non ho parlato dell’angelo della malinconia, che è risultato essere l’angelo della chiaroveggenza. Anche mio padre e mia madre erano chiaroveggenti.
Do un nome a quell’angelo: si chiama Arnold Schönberg, il nome del fondatore del rumore contemporaneo, il fondatore della musica dodecafonica.
La mia vita è storia della musica.