Stanotte, recluso in albergo, è venuto a trovarmi il fantasma di un amico. Sono più di cinque anni che è morto. Ma io non ho saputo accorgermi che mi voleva bene.
A Natale del 2013 ricevetti una sua telefonata. La telefonata giunse verso il 20 dicembre 2013. Il mio amico, che chiamerò Cooper, perché aveva gli occhi di Gary Cooper, mi chiese delle mie cose. Per tutta la conversazione mi fece domande su come mi andava la vita.
Parlammo, e il suo interesse per la mia vita mi fece sentire protagonista.
Interrompo qui la storia, perché di colpo la finestra sulle acque di Venezia si è chiusa con violenza. La tenevo aperta, sebbene facesse freddo. Sono le due di notte. Non so cosa ci faccio in piedi a quest’ora. Guardo l’acqua. Il mio cervello s’ingolfa. Prendo il nécessaire e cerco un ansiolitico e Nosferatu lo tiene in una mano e me lo offre con un sorriso in cui si legge «ormai ti resta poco, molto poco». C’è bellezza anche nelle droghe e ricordo proprio ora che Cooper prendeva, negli ultimi anni, lo stesso ansiolitico che prendo io adesso. Gliel’ho visto una volta a casa, nella sua stanza da letto, sul comodino.
La stessa marca di ansiolitici.
Cooper e io ci assomigliavamo moltissimo.
Ma c’era una grande differenza tra lui e me: lui era una persona migliore. Aveva un senso più profondo della bontà. Ricordo che abbiamo condotto vite parallele. Entrambi abbiamo sofferto, su piani temporali diversi, labirinti e abissi passionali, amorosi. Entrambi abbiamo avuto vite matrimoniali caotiche, piene di amori extraconiugali che ci distruggevano e ci portavano alla distruzione.
Cooper credeva nella distruzione per amore della vita.
Cooper aveva vissuto grandi amori extraconiugali, ma restava sposato con la moglie di sempre. Era torturato dal senso di colpa. Poi era riuscito a patteggiare una tregua con il senso di colpa. Firmava sempre tregue, che sempre si infrangevano. A volte cadeva in stati di mutismo. Rimaneva zitto. Credo che vedesse sfilare il suo passato. Per questo passava la vita a viaggiare, per la stessa ragione per cui lo faccio io, perché il movimento non può essere ritratto. Siamo persone che si muovono perché i corpi in movimento sono belli e raggiungono così l’indolenza, la purificazione, il vuoto, la bontà.
Perché il movimento non può essere giudicato.
Cooper non faceva differenza tra un posto o l’altro, una città o un’altra, un paese o un altro, l’importante era uscire dalla sua casa di Madrid. L’importante era muoversi. Metteva insieme viaggi, faceva seguire un viaggio all’altro, per non stare mai fermo, seduto sulla poltrona di casa, a spese di uno specchio.
Però quella telefonata ha finito per diventare uno dei grandi misteri della mia vita.
Sapevo che Cooper aveva avuto un cancro, anche se all’epoca mi aveva detto che era ormai sotto controllo. Quella volta glielo domandai di nuovo e mi disse di nuovo la stessa cosa, che l’aveva superato. E continuò a chiedere delle mie cose, interessato a tutto ciò che mi riguardava.
Parlammo di cosa si sente quando si dorme con la persona amata, e del fatto che forse quel sentimento, al momento di dormire, era l’unica rivelazione dell’amore. Mi disse che se c’era pace al momento di dormire con la persona amata significava che esisteva una forma d’amore importante.
Mi disse che dovevo smettere di bere.
Sono spaventato in questo istante, qui, a Venezia, perché si è riaperta la finestra. E guardo l’acqua, sono le tre di notte, non riesco a dormire. Le telefonate sono tutto. Mi ricordo di Cooper adesso con un’intensità nuova.
La mia vita è stata una serie di telefonate.
Perché oggi, mentre attraversavo il ponte di Rialto, come un qualunque turista, mi ha chiamato il mio adorato Marlon Brando, per chiedermi come stavo. Mi sono agitato, ho quasi balbettato. Le parole mi abbandonavano, le sillabe mi lasciavano esposto alle intemperie.
La telefonata mi ha reso tanto felice che ha finito per spaventarmi. Monty non mi chiama mai, e credo nemmeno Brando. La differenza tra i due, che non è poca, sta nel fatto che Brando risponde alle mie chiamate; Monty, mai. Dall’entusiasmo per la telefonata di Brando sono passato alla paura per la sua telefonata, perché non credi mai davvero di contare per qualcuno. Non credi mai davvero che qualcuno possa volerti bene. Ho pensato che mi chiamasse perché c’era qualche problema. E invece no, mi chiamava soltanto per chiedere come stavo.
Sono diversi Brando e Monty.
Monty non mi ha mai telefonato se non per intervento di una terza persona, perché una terza persona ha insistito. Non ha mai pensato che sarebbe stato bene parlare con suo padre. E questo mi rattrista non per me, ma per lui, però Monty è così. Non ho scelto a caso il nome di Montgomery Clift. L’ho scelto coscienziosamente.
Chiudo la finestra, dopo aver guardato per un minuto i canali, dopo aver visto come l’alba comincia a farsi largo sopra Venezia.
Cooper mi ascoltava e mi voleva bene. Perché mi voleva bene? Non sono mai stato degno dell’amore di nessuno. L’amore degli altri mi ha sempre molto innervosito, perché confido nel mio demerito.
Cooper disse: «Sono tuo fratello, ti voglio bene, tutto si sistemerà».
Pensai che se la conversazione scandagliava sempre la mia vita, era perché la sua era in ordine ed era riuscito a sconfiggere la malattia.
Che egoista sono stato.
Tre settimane dopo quella conversazione, Cooper morì. La sua telefonata era un addio. Io non me ne accorsi neanche lontanamente. Non riuscii nemmeno a immaginare che si stava accomiatando da me, che quella telefonata era un addio. Però il modo di accomiatarsi fu un enigma. L’invisibilità del suo addio fu un monumento, un tempio, perché io potessi ricordarlo investito di bellezza.
Cooper scelse la bellezza e l’enigma.
Ma com’è possibile che davanti alle porte della morte provasse interesse per le mie cose, è questo che non ho mai smesso di domandarmi. Non riesco neanche a comprenderlo e tanto meno ad accettarlo.
In qualche modo, Cooper scelse che lo vedessi trasfigurato in mistero in questa notte d’inizio aprile, qui, a Venezia, accanto alle acque scure e all’ossido e alle alghe. Sono io ad aprire adesso la finestra che cade perpendicolarmente sul canale.
Non disse «la faccenda si è aggravata, non va molto bene, ma continuerò a lottare».
Non disse «sono in attesa di alcuni esiti».
Non disse «non sono molto ottimista, sai come sono i medici quando i risultati non hanno una bella faccia».
Non disse «il dolore è insopportabile, siamo agli sgoccioli».
Non disse «i medici mi hanno dichiarato inguaribile».
Non disse «vieni a trovarmi domani, siamo alla fine».
Invece disse «devi smettere di bere, lo sai che ti voglio molto bene».
Invece disse «ora sono guarito, è stato solo uno spavento».
Invece disse «mi importa di te».
Rinunciò non soltanto a pensare alla morte, ma anche a dirla alle persone che amava.
Non sono quasi riuscito a dormire, mi svegliavo in continuazione. Mi alzavo dal letto e andavo a guardare il panorama: il buio, l’acqua, di tanto in tanto una chiatta che solcava il Canal Grande. Venezia alle tre di notte, alle quattro di notte. Sempre più vicino agli artigli di Nosferatu, in una liturgia di disperazione intelligente. Cercavo di ripassare in rassegna le cose meravigliose della vita.
Nosferatu mi diceva: «Cooper ti amava e tu non amavi lui, non sei mai all’altezza degli altri, sei il peggiore degli uomini».
E sono tornato a guardare dalla finestra.
Nosferatu ha detto: «Cooper, invece di pensare a sé, ha pensato a te. Tu non l’hai mai capito, e non lo capirai mai, pensare agli altri prima che a te, su questo si basa l’amore. Ava e Cary pensavano a te, ma tu pensi soltanto a te stesso, e a furia di pensare soltanto a te stesso sono venuto io a questo mondo, perciò ti ringrazio, perché esisto e ho identità e volontà e forza grazie al tuo egoismo, che deriva dal terrore; sono il figlio della tua mediocrità umana».
Ho deciso di infilarmi nella vasca e di farmi un bagno caldo.
Venezia è meravigliosa se sei in compagnia. Non so parlare italiano, avrei potuto cercare di impararlo, avrei potuto fare tante cose che non ho fatto. Avreste potuto essere veneziani, Cary e Ava. Essere nati qui, e vi avrei seppelliti sull’isola di San Michele.
E avremmo avuto una casa qui, un nobile palazzo costruito sull’acqua, e una barca e fiori alle finestre.
Cooper sapeva che quella era l’ultima conversazione che avremmo intrattenuto in questa vita, ma non me lo disse. Non mi resi conto di niente. Forse avrei avuto bisogno di saperlo. Forse avrei avuto bisogno che Cooper mi dicesse qualcosa, ma cosa dire. Credo che avrebbe dovuto dirmelo.
Nessuno lo dice.
Neanche mio padre lo disse.
Nessuno dice che sta morendo, nessuno dice «questa è la nostra ultima conversazione, me ne vado nello spazio profondo, nel luogo dove nulla succede né succederà».
E adesso viene la domanda: cosa farò io? Farò la stessa cosa di Cooper e di Grant?
Cooper sapeva una cosa che io ho appena scoperto, cinque anni dopo la sua morte. Cooper sapeva che eravamo molto simili. Volle che il suo modo di scomparire da questo mondo si trasformasse in una mappa del tesoro, in modo che io entrassi nell’enigma e vedessi lui: alto, perché era alto; bello, perché era bello; con i capelli bianchi, perché era quello il colore dei suoi capelli fin quasi da ragazzo; magnetico, appassionato, romantico, audace, silenzioso, malinconico, pieno di dignità, perché la sua patria era la dignità.
Non ci rivedremo mai più, ma sapendo quanto amavi la vita, perché l’amavi in un modo devastante e crudele per te stesso, non capisco come tu abbia potuto andartene da lei in un silenzio così grande, così incommensurabile.
Te ne sei andato così affinché io me ne vada nello stesso modo.
Era questo che mi volevi dire?
Ridimmelo stanotte, qui, a Venezia, tu e io da soli.