Qualunque passato di un essere umano di cinquantasei anni forma un paesaggio che si va avvicinando a quello delle rovine, non nel brutto senso della parola «rovine», ma nel senso di indizio che lì c’è stata vita, vita che si è logorata, vita consumata nei compiti stessi della vita, perché le rovine sono un rifugio nobile della vita che è stata, e può benissimo coincidere il mio amore per le mie stesse rovine con le rovine che vedo qui, in Italia, e sembra che le rovine della mia memoria trovino nelle rovine di una civiltà una consolazione di natura sovrannaturale, dimodoché le mie rovine, al contatto con le rovine romane e cristiane, ne escono rinverdite, aiutate, allegre.
Le tue rovine aiutano le mie, questo sei, Italia, perché sono ancora in Italia. Domani torno a Madrid.
Nessuno ricorda com’era il tono di voce di mio nonno, quali erano le sue parole preferite, com’erano il suo timbro, i suoi gesti, i suoi occhi. Occhi che dovettero accendersi di gioia molte volte. E tuttavia, quella voce, che nessuno ricorda, per alcuni anni parlò a colui che poi sarebbe stato mio padre.
Non troppi anni, in verità. Perché ci fu una guerra, e carcere, e disgrazie. Eppure, malgrado ciò, quegli anni accaddero. Furono reali gli anni in cui stettero insieme. Mi piace immaginare mio padre per mano al suo. Forse la mia vita non ha altro senso che dare testimonianza del fatto che mio padre e il suo una volta erano insieme.
Avranno passeggiato per le strade di Barbastro, prima della guerra civile, verso il 1935. Mio padre allora aveva cinque anni. Mio nonno, non lo so. Perché non so quando è nato.
Speriamo che si perda anche la mia data di nascita.
E adesso soltanto mio fratello e io ricordiamo il modo di parlare di mio padre. Con difficoltà, lo ricordiamo, perché sono già quattordici anni che è scomparso.
Quattordici anni che non c’è più, e tuttavia non se n’è andato.
A volte io stesso ho molta voglia di scomparire, di andare con lui. Ma dove?