Oggi sono già a Madrid. Ho preso la metro dal Terminal 4 dell’aeroporto. Il Comune di Madrid appende ai finestrini dei vagoni volantini con poesie e frammenti di romanzo. Un modo per diffondere la letteratura e per intrattenere i passeggeri che vanno di fretta e che all’improvviso s’imbattono in parole inattese.
Mi metto a leggere uno di quei volantini. Sono versi che parlano della gioia, e il loro autore è il poeta José Hierro. Sembra un piccolo miracolo l’apparizione di quei versi in un vagone della metro. José Hierro nacque a Madrid, nel 1922. Come doveva essere nascere a Madrid nel 1922? Alla fine della guerra civile, fu incarcerato. Lo accusarono di avere aiutato dei prigionieri politici, tra i quali suo padre. Passò cinque anni in prigione. Cinque anni per avere aiutato suo padre, mi spaventa e mi commuove.
Sono entrato in casa, ho lasciato la valigia nell’ingresso. Mi pesa aprirla perché so cosa c’è dentro. Vado in cucina e preparo un caffè tanto per fare qualcosa.
Quando Hierro esce dal carcere, scrive un libro che s’intitola Alegría, un libro che viene pubblicato nel 1947, dopo aver ricevuto il premio più importante dell’epoca.
Mi chiedo se la gioia ha una storia o se è contagiosa, un contagio che si trasmetta da un essere umano a un altro essere umano, in una catena segreta.
Mi sento solo, qui, in casa, è appena uscito il caffè. Sono tornato dai miei viaggi e per il momento non ne ho nessuno nuovo in vista. Temo che l’immobilità evochi Nosferatu da un momento all’altro. Temo che si scagli contro di me con una rabbia nuova. Temo le sue mille domande. Come farla finita con lui per sempre. Perché dell’immobilità approfittano gli specchi di casa mia per ricordarmi chi sono. Mi affido ai versi di José Hierro letti nella metro di Madrid: «Sono arrivato alla gioia dal dolore».
Non si può arrivare alla gioia in altro modo.
E immagino che suoni il citofono dell’ingresso.
Sarà qualche pacchetto. Sarà un certificato, come sempre.
Mentre verso un cucchiaino di zucchero nel caffè mi dico che forse no, che può darsi che stavolta non sia un pacchetto né un certificato.
Mi riempio di contentezza immaginando di sollevare il ricevitore e di sentire due voci che sussurrano. «Abbiamo voluto farti una sorpresa, papà, sapevamo che eri a Madrid» dice Brando. E guardo lo schermo del citofono ed eccoli là, tutti e due, in bianco e nero, come nei vecchi film di Hollywood, i visi allegri, giovani e sorridenti di Montgomery Clift e di Marlon Brando.
Sono venuti a trovarmi.
È venuta a trovarmi la gioia.