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È estate, è il 31 luglio e sto guardando le solite foto della famiglia reale spagnola, che in questo periodo è sempre in villeggiatura a Palma di Maiorca, nel Palazzo di Marivent. Guardo le foto delle figlie di Felipe VI e della regina Letizia. Penso spesso a quella coppia, che racchiude una perfezione che non riesco a comprendere.

Sembra una coppia di marmo.

Invidio quello splendore, quella solidità matrimoniale in cui si rispecchia la società spagnola, perché senza esemplarità il mondo svanirebbe. Tutti i paesi generano esemplarità attraverso coloro che li rappresentano. Quell’esemplarità è, tuttavia, illusoria, e questo fa sì che la guardi quasi con tenerezza.

Il matrimonio tra Juan Carlos I e la regina Sofía era imperfetto, non faceva così tanti danni. Con quella coppia mi sentivo più a mio agio.

Come spagnolo – poiché credo che sia ciò che sono – mi è stato dato contemplare tre capi di Stato. Del primo capo di Stato che ha coinciso con la mia vita ho pochi ricordi: era il generale golpista Francisco Franco. Il secondo capo di Stato è stato Juan Carlos I, e con il suo mandato o il suo governo o la sua direzione si è scontrata gran parte della mia vita. Temo che morirò con Felipe VI sul trono, perché non credo che vivrò per vedere la sua successione, anche se non si sa mai, e oltretutto gli spagnoli sono imprevedibili. Perciò in queste coordinate di storia politica rimarrà rinchiusa la mia esistenza.

Tutti noi spagnoli finiamo per vedere la stessa cosa: la traccia dei re nella storia. Di quando in quando spunta qualche generale o qualche presidente della Repubblica, ma molto di quando in quando. I più solidi sono i re, almeno in Spagna.

Mio padre non ha conosciuto l’avvento di Felipe VI, non l’ha conosciuto come capo di Stato.

Mi mette a disagio pensare che mio padre non abbia conosciuto il regno di Felipe VI, perché significa che la sua vita si è svolta in un altro spazio politico.

Poche cose ha detto mio padre della monarchia. E neanche mia madre ha detto molto. Ora che ci penso, nemmeno lei ha conosciuto l’avvento di Felipe VI, perché è morta nel maggio del 2014.

Però i nostri re sono brave persone, perché ci accompagnano dall’alto delle loro gravi responsabilità, e conferiscono veracità storica alle nostre esistenze. Milioni di morti spagnoli, se si levassero dalle tombe, direbbero «io ho vissuto sotto il regno di Carlo I», o «io ho vissuto sotto il regno di Fernando VII», e se si levasse mio padre potrebbe dire «ah, io ho vissuto mezza vita sotto la dittatura di Francisco Franco e l’altra metà sotto il regno di Juan Carlos I», e sarebbero buoni riferimenti per localizzare e comprendere le loro vite.

Sarebbero perfino buone coordinate per sapere chi sono stati.

Il nostro amato padre ha vissuto sotto il regno di Juan Carlos I e di suo figlio Felipe VI, diranno Bra e Valdi. E sarà vero. Devo ringraziarli per questi segni di identità. Perché è il caso di essere grato, giacché senza questi segni di identità mi perderei nella notte del tempo, del nero tempo.

Mi perderei nello spazio vuoto degli esseri umani che sono esistiti fuori dalle nostre cronologie.

Forse è stato questo il motivo inconsapevole per cui i grandi pittori spagnoli hanno pensato di dover ritrarre i loro re. È vero che furono pagati per i loro quadri, e che ci mangiavano. Ma al di là di questa ragione, Diego Velázquez e Francisco de Goya sapevano che dipingendo quei re suggerivano l’esistenza del loro popolo; che dietro quei ritratti reali si nascondevano i miserabili, gli assenti, quelli che erano insinuati dietro le effigi e la solennità, dietro la pompa, la magnificenza e il lusso.

Dietro l’etichetta e il lusso camminiamo noi, i governati, coloro sui quali si esercita l’azione del potere.

Loro, i re, ci strappano dal tempo biologico e ci danno la luce della storia.

Li vedo a Maiorca, come ogni anno. Felipe VI e Letizia, e le loro figlie, bionde, alte, sorridenti.

Non m’inviteranno mai al Palazzo di Marivent, e mi piacerebbe molto che lo facessero, ma non ho meriti. Non avrò mai i meriti necessari per essere invitato nella loro residenza estiva.

E se m’invitassero, sarebbe un disastro, perché non so quasi fare conversazione. Diventerei nervoso. Non saprei nemmeno come vestirmi. È molto meglio che non mi invitino. Davvero, è una fortuna che non mi invitino.

Penso ai miei figli.

Penso ai figli di migliaia di genitori che non sanno cosa dire ai figli. Padri e madri senza serenità, senza orgoglio, senza soldi, senza dignità, senza niente. Padri e madri che non sono stati dipinti né da Velázquez né da Goya né da quelli che hanno ereditato adesso il loro lascito. Quei genitori farebbero bene a guardare Felipe VI perché serva loro da faro e indichi loro come essere genitore.

Non credo che i miei figli arriveranno ad amarmi quanto le figlie di Felipe VI amano il padre, a questo penso quando vedo sui giornali le foto della famiglia reale; mi sembra un pensiero terribile, ma l’ho avuto.

Guardo di nuovo quella foto dei sovrani di Spagna con le figlie. E percepisco per mezzo della foto che Felipe VI è un genitore esemplare. Perché perfino nel fatto di essere genitori esiste il successo. E penso a noi, milioni di genitori, che abbiamo fallito come genitori. E perciò è un bene guardare quella fotografia: le figlie dagli occhi azzurri guardano Felipe VI.

Cosa abbiamo sbagliato?, pensiamo noi milioni di genitori che guardiamo quella foto. Perfino nella paternità o nella maternità la storia ci umilia.

Finisci per essere povero, e per essere un cattivo genitore.

Se sei ricco, l’essere un buon genitore ti viene dato in aggiunta, sembra una citazione biblica.

Può darsi che essere povero e cattivo genitore sia la stessa cosa.

Anche sapere che hai sbagliato tutto, tranne essere vivo, tranne sentirti vivo, tranne desiderare di non morire mai, è un motivo di rara gioia.

In questo, come in tutto, sono come mia madre.

Mia madre, di cui mio padre s’innamorò nel 1959, mia madre adesso sono io. Sempre le tue parole, papà, la tua affermazione perfetta: «Sei come tua madre».