Fu nel mese di giugno del 1975 che i miei genitori decisero di farmi cambiare scuola. Mi toglievano dagli Scolopi e mi portavano in un’altra scuola di preti, che comprendeva anche il liceo. Si chiamava Colegio de la Asunción. Per essere ammesso c’era un requisito preliminare, che consisteva nel trascorrere due settimane di ritiro pedagogico e spirituale in un accampamento di montagna. Era una convivenza in cui i nuovi alunni avevano l’opportunità di conoscersi fra loro e di conoscere alcuni dei nuovi professori, che erano tutti sacerdoti, tranne uno o due laici.
Quel ritiro ebbe luogo, credo, nelle prime due settimane di luglio del 1975. Non avevo ancora compiuto tredici anni. E si svolse nel monastero di Ayalante, una stupenda località dei Pirenei di Huesca, vicinissimo al paese di Benasque. Non ho mai parlato di quello che vi accadde, non ne ho mai scritto né l’ho mai detto ad altre persone. Ho tenuto quelle due settimane rinchiuse nella mia memoria. Non perché fosse successo qualcosa di brutto, ma per l’esatto contrario.
Credo che sia stata la prima volta in cui contemplai la bellezza dell’esistenza umana, vidi cosa significava esistere, vidi che io esistevo, vidi il vento, le nubi, gli alberi, li vidi esistere tutti. Vidi come esistevano i sassi, i sentieri, le acque dei fiumi.
E accadde lì, in quel luogo e in quel tempo.
Fu allora che ebbi coscienza che ero un essere umano, che avevo un’anima, un corpo, un destino. I miei non c’erano, e dovevo cavarmela da solo. Raggiungemmo il monastero con un vecchio pullman. Eravamo nel cuore delle montagne. Sebbene fosse estate, faceva freddo, bisognava indossare un buon pullover. Assegnarono una stanza individuale a ciascun nuovo alunno. Non eravamo molti. Credo una quindicina, o forse meno. Ricordo alcuni cognomi di quelli che furono i miei compagni: Casares, Solans, Ramírez, Palacio, Gurpegui.
Le camere erano spartane. C’erano un letto bianco, un armadio a muro, un lavabo con un rubinetto, un portasciugamani, un tavolo, una sedia e una finestra. Non c’era il comodino, fu tra le prime cose che notai, che non ci fosse il comodino. Mi intristì e mi spaventò il fatto che non ci fosse il comodino.
Tutto aveva un aspetto povero, come in un ospedale di montagna per tubercolotici, un misto fra monastero e terme proletarie. Quella povertà mi sembrava ostile. I ferri del letto mi facevano paura. Il legno polveroso e invecchiato dei mobili mi trasmetteva una sensazione spettrale, pericolosa.
Avevamo dovuto portarci le lenzuola e gli asciugamani. Il sacerdote che guidava il gruppo ci disse che avevamo venti minuti per disfare i bagagli e farci il letto. La maggior parte di noi non sapeva farsi il letto. E il sacerdote venne e ci aiutò. È una delle cose di cui sono stato più grato nella vita, che quell’uomo mi aiutasse. Perché mi sentivo molto bisognoso e spaventato. Il passato di qualunque essere umano si trasforma in fantasma, ma dobbiamo sforzarci e ricordare, perché ricordare ci fa più grandi, ci eleva al di là della vita e della morte, al di là della storia, della politica e dell’umiliazione.
Chi ricorda e lo fa con tutta la dovuta profondità si trasforma in un dio. Quell’uomo mi aiutò a fare il letto, a mettere la federa al cuscino, a far aderire le lenzuola al materasso.
Poi andammo a cena.
Il refettorio mi parve tenebroso, perché ci si era intrufolato un pipistrello e tutti cercavamo di sfuggirgli. A me sembrò una bestia immonda, e mi provocò una paura patologica.
Oh, pipistrello pirenaico di un’estate del 1975, dove saranno adesso i tuoi resti microscopici.
Don Rafael, così si chiamava il sacerdote che dirigeva il ritiro, rideva del nostro spavento, perché era un uomo nato nei Pirenei, conosceva le montagne e la loro fauna, e per lui quel pipistrello era qualcosa di insignificante, un uccellino notturno, innocente quanto inoffensivo.
Per cena c’erano frittate e salsicce, e acqua fredda in brocche ordinarie. Per dessert, mi toccò una brutta mela. Da quel preciso istante, ho odiato avere la frutta come dessert di qualunque pasto, non importa che tipo di frutta sia. E fu lì che ebbi la rivelazione che non si doveva mangiare la frutta. Perché era triste.
Dopo cena uscimmo in cortile. Per me tutto era sconosciuto e minaccioso: la notte stellata di luglio, le montagne, il freddo – dovemmo metterci una giacca a vento sopra il pullover –, i corridoi bui del monastero, le indicazioni di don Rafael perché ci mettessimo in cerchio... Quando lo facemmo, cominciò a cantare canzoni da accampamento. Di colpo, stavamo tutti cantando sotto il cielo illuminato. Quell’uomo sembrava sapere molte cose sulle montagne.
Le vite di tutti noi erano vuote.
Non c’erano atti.
Non era successo nulla.
Gli atti sarebbero venuti dopo, molto dopo. Non avevo mai cantato insieme a qualcuno e suppongo che fosse lo stesso per gli altri. Nel fatto che cantassimo insieme, guidati dalla voce modulata di don Rafael, vidi un riconoscimento delle nostre anime.
Credo che allora avessimo un’anima.
E a poco a poco la vita ti ruba l’anima, finché te la toglie tutta e in cambio ti dà, come consolazione o come risarcimento, un corpo.
E questo sono adesso, quarantatré anni dopo, un corpo.
Sono trascorsi ormai quarantatré anni da quella scena. È un sacco di tempo, e mi congratulo per essere qui.
Ebbi paura quando mi misi a letto. Ma provai anche eccitazione e incertezza. Quella stanza era mia. E i miei genitori, i miei adoratissimi genitori, non c’erano. Tutto era nuovo e tutto era una sfida. Per questo voglio andare lì, in quella zona della mia esistenza i cui resti devono essere da qualche parte nel mio cervello.
Se potessi vedermi nel pieno della mia purezza, se potessi raggiungere quel mese di luglio del 1975 da questo luglio del 2018, se potessi toccare la mia mano di allora, la pace tornerebbe nel mio corpo. Credo che questa si chiami unità di tempo.
La pace è un’utopia. Non c’è mai pace in chi ha vissuto ed è ancora vivo. C’è soltanto convivenza con il male, ma non c’è pace.
La pace non esiste.
È una superstizione degli esseri umani.