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Mi dà molta felicità (e anche timore) andare agli incontri con i lettori. Di solito penso che quando vedranno come sono si sentiranno delusi. E a me spiacerebbe tanto deluderli. È così triste deludere un altro essere umano. Forse per questo molti scrittori decidono di scomparire. Non soltanto gli scrittori, qualunque essere umano può scegliere di scomparire piuttosto che deludere.

Entro nella libreria e molta gente viene a salutarmi. Però c’è una persona speciale. All’inizio non la riconosco. Mi guarda come se ci conoscessimo, ma non so chi è. Forse intravedo una possibilità.

Temo sempre queste possibilità, queste carambole roventi della vita.

E dopo soltanto due parole mi ricordo.

Non la vedevo da trentacinque anni. La sua bellezza se n’è andata per sempre. La ricomparsa del passato è sempre devastante e rompe in mille pezzi il tuo sistema nervoso. E tuttavia, la mia memoria ha trattenuto il suo ricordo senza corruzione, senza deterioramento.

Provo un’indicibile tenerezza.

Cerco di tirar fuori dal suo viso attuale quello che sta nei miei pensieri. E credo che lei se ne accorga. Le confesso che l’ho sempre ammirata moltissimo. È quello che mi è venuto in mente di dirle: che l’ammiravo. Immagino che fosse il miglior verbo possibile.

Lei mi dice che il mio romanzo l’ha fatta piangere e che si ricorda dei miei genitori, che li ha visti perfettamente riflessi nel libro.

«Sono i tuoi genitori, così come me li ricordo» mi ha detto.

Io mi ricordavo perfettamente dei suoi, perché i suoi genitori e i miei erano stati amici e ricordo quell’amicizia, ricordo le loro risate, ricordo le loro cene in piccole osterie, le battute, le speranze, l’allegria.

E di tutto quello restiamo lei e io.

Mi dice che devo sentirmi felice per essere riuscito a ritrarre così bene i miei genitori nel libro. Non oso chiederle dei suoi parenti di Barcellona. Lei mi anticipa e mi dice che la zia che ci aveva accolti in casa è morta, però mi dice «magari non te la ricordi, è successo tanto tempo fa e avrai conosciuto tantissima gente, non so neanche come hai fatto a ricordarti di me».

Torno al mio albergo pensando a lei.

Non le ho nemmeno chiesto se si era sposata o se aveva figli. Credo di aver avuto paura di fare quella domanda. Come non avere paura di quella domanda? Mi sono infilato in altre conversazioni e, alla fine della cena, l’ho vista da lontano e non ho voluto salutarla. Come per restituirla integra all’abisso di oscurità da cui è uscita.

Non sembrava lei.

Chi era, allora?

Entro nella mia stanza al quindicesimo piano dell’albergo. Ho lasciato l’aria condizionata accesa e la camera è piuttosto fredda, però è una sensazione molto piacevole.

Non riesco a togliermela dalla testa. Avrei potuto darle un addio definitivo, perché quasi sicuramente non ci rivedremo più. Andavamo a sciare insieme, nel 1978 e nel 1979. Lei indossava un’attrezzatura da sci molto moderna. Non ho osato dirle che ricordo, quarant’anni dopo, la marca dei suoi sci, dei suoi attacchi e dei suoi scarponi. Erano dei Rossignol ST 650, gli attacchi erano Look Nevada e gli scarponi erano Nordica. Non ho osato confessarle tutta questa profusione di ricordi e di marche, che forse nascondono il ricordo più grave e profondo, e non è altro che questo: che la prima volta che ho visto Barcellona è stata per opera sua e di sua zia, che ormai è morta. Non le ho chiesto in che anno è morta.

Non ci aveva permesso di dormire insieme: lei aveva dormito con la zia e io avevo dormito da solo in un’altra stanza.

E adesso, trentott’anni dopo, credo che ci fosse un’enorme saggezza in quella decisione. Grazie a lei, posso cercare di dormire tranquillo, stanotte.

E con il viso di Paloma quando era giovane – così si chiamava, e così si chiama ancora – cerco di chiudere gli occhi, cerco di addormentarmi.

Era bruna, aveva occhi neri pieni di innocenza, capelli scuri e lisci, e tutti le volevano bene, perché era simpatica, dolce e buona.

Non avremmo dovuto lasciarci. Avremmo dovuto sposarci e invecchiare insieme.

Non avrei dovuto conoscerla.

Non sarei dovuto nascere, se mi toccava soffrire tanto.

Mi alzo in piena notte, non riesco a dormire, sono le tre, accendo tutte le luci e guardo lo spazio e guardo le mie cose sparse per la stanza. Domani torno a Madrid, e queste pareti accoglieranno un altro ospite, e così via fino al crollo dell’edificio, fino al momento in cui verrà riutilizzato, ristrutturato o demolito e si porterà via per sempre, in un vortice, tutto il discorso che sto pronunciando in questo preciso momento.