Tornavamo in Spagna il giorno dopo. Ho detto a Valdi che doveva portare dei regali. Gliel’ho detto diverse volte, per preparare a poco a poco il suo cuore. E, naturalmente, doveva pagare lui quei regali. L’ho aiutato a sceglierli. Gli costava pensare a qualcuno che non fosse lui stesso, per questo dovevo preparare il suo cuore. E mi sono visto riflesso in lui, quando avevo la sua età.
È senza dubbio figlio mio, ho pensato.
Gli costava pensare agli altri, ma sono riuscito a farglielo fare. E ha comprato un braccialetto e una maglietta. Non è che abbia speso molti soldi, ma almeno ha portato dei regali.
Quando avevo la sua età, non ho mai pensato di portare un regalo né a mia madre né a mio fratello, ma l’ho fatto per mio padre. Almeno dal 1990.
Fino al 1990 non mi ero reso conto che esistevano i regali. Nel 1987 feci un viaggio a Parigi. Nel 1988, un altro a Londra. Da nessuno dei due portai qualcosa né a mio padre, né a mia madre, né a mio fratello. Però nel 1990 feci un viaggio a Lisbona e anche se non comprai nulla a mia madre e a mio fratello, portai a mio padre una bottiglia di vino verde, un Mateus. Gliela portai per orgoglio, perché vedesse che dominavo il mondo ed ero capace di andare a Lisbona, dove lui non era mai stato, e di portargli una bottiglia di vino.
Cercavo soltanto di fare in modo che mio padre si sentisse orgoglioso, volevo soltanto la sua felicità, perciò gli portai quella bottiglia di vino verde. Un suo sorriso sul volto. Un sorriso nobile. Un bel sorriso suo era per me il segnale che tutto era sul punto di raggiungere la perfezione.
La sua approvazione, era quello il mio desiderio.
Cercavo la sua approvazione, avevo bisogno della sua approvazione.
Lunga notte del mondo in cui un figlio cerca l’approvazione del padre. Quella ricerca è svanita. Quella ricerca non esiste più.
Non fece molto caso a quel Mateus. Lo guardò e non lo convinse la forma della bottiglia. Sono passati ventotto anni da quel giorno.
Quando saranno passati ventotto anni, nel 2046, Valdi ricorderà quel braccialetto comprato per sua madre e quella maglietta per suo fratello Bra, ed entrambi gli oggetti si trasformeranno in tenerezza.
Siamo usciti da T.J. Maxx affamati.
Gli ho proposto di mangiare in un Panda Express.
A me e a Valdi piacciono gli stessi posti.
Ne abbiamo trovato uno lì vicino, in Madison Street. Era un Panda piccolo: ce ne sono di varie dimensioni. Ci troviamo sempre d’accordo nello scegliere noodles e non riso. Poi sul companatico divergiamo: lui ha scelto pollo all’arancia e io filetto mongolo. Il filetto mongolo aveva un sovrapprezzo di un dollaro e venticinque, che mi ha fatto esitare, ma siccome ero con Valdi ho pensato che non importava. Se fossi stato da solo, avrei rinunciato al filetto mongolo per il sovrapprezzo di un dollaro e venticinque, perché io non mi merito nulla.
Valdi ordina sempre una Coca-Cola e io acqua. E finisco per bere un po’ della sua Coca-Cola. Da bambino mi piaceva da matti la Coca-Cola e vedo che Valdi questo l’ha ereditato. Siamo contenti perché, con il refill gratuito, beviamo Coca-Cola in due al prezzo di uno, questo ci mette di buon umore, ci fanno contenti questi piccoli imbrogli al grande capitalismo universale in cui gli esseri umani credono di vivere e godersela, mentre in realtà muoiono e ardono nel vuoto.
Tre volte si è alzato Valdi per riempire il suo gigantesco bicchiere di Coca-Cola.
Tre volte siamo stati più furbi del capitalismo universale.
Al capitalismo bisogna rubare sempre, perché, per quanto tu lo derubi, non potrai mai derubarlo quanto lui deruba te, perché ti ruba la gioia, e la gioia ha un prezzo incalcolabile.
Ogni volta che tornava al tavolo con il suo bicchiere enorme pieno di Coca-Cola sembrava un generale romano che entrava a Roma, vittorioso, dopo aver vinto mille battaglie in Gallia, in Germania, in Hispania.
Era così che lo vedevo.
Non c’era molta gente: c’era un uomo solo, sul fondo del piccolo rettangolo della sala, accanto alla parete, con il bicchiere di Coca-Cola gigante. Poi è arrivato un orientale, con un vestito grigio, che sembrava un monaco, o era un monaco, e si è seduto vicino a noi. Mangiava il riso con le bacchette, con un’abilità che mi ha tenuto assorto per un istante. Ho pensato ai suoi genitori, a chi gli avesse insegnato a mangiare con quella perizia. Non ha lasciato neanche un chicco di riso. Era solo, ma non sembrava uno sventurato.
Non sembrava uno sventurato, stava bene con la sua solitudine.
Quanta luce in quel Panda Express.
Quanto ci piace, a Valdi e a me, il Panda Express.
Anche se vivrò per molti anni, non dimenticherò mai la rara pienezza che mi ha commosso in quel Panda Express, un giorno di fine agosto del 2018, in Madison Street a Chicago, dove la perfezione corporea di mio figlio mi stupiva.
Mi stupiva anche il fatto che sembrassimo due vagabondi.
Un padre e un figlio con dei problemi.
Un padre e un figlio entrambi vulnerabili.
Un padre con dei problemi e un figlio che aiutava il padre.
Pensavo a tutte le combinazioni possibili delle nostre due umanità.
Estremamente magro, più che magro, Valdi era un noodle in un ristorante di noodles, con il suo cappellino, le scarpe da ginnastica che sembravano navi spaziali, i suoi capelli lunghi raccolti in una coda, le sue mani grandi e ossute (da quale nonno, nonna, bisnonno, bisnonna provengono quelle mani?), lo zainetto nuovo che si era comprato qualche giorno prima, una collanina con un crocifisso da venti dollari, e una canottiera, lunga, che gli scendeva fino alle gambe e una felpa per entrare nei negozi, per non gelare per colpa della potenza dell’aria condizionata.
Gli piace questo paese, gli piacciono gli Stati Uniti. Anche a me piacciono. E ci piacciono per le stesse ragioni.
Io non ho mai viaggiato con mio padre: noi due da soli, voglio dire. Viaggiavamo sempre in quattro: mio padre, mia madre, mio fratello e io. Non ho mai viaggiato da solo con mio padre, o da solo con mia madre. Non abbiamo mai dormito in una stanza d’albergo da soli mio padre e io. Non è potuto succedere, non ce n’è stata l’occasione. E perché non c’è stata? Non abbiamo mai fatto un viaggio in cui dovessimo condividere la stanza.
E sento di dover essere profondamente grato a non so che, a qualcosa che non ha nome, e che si eleva attraverso il tempo, un mare di spiriti umani, una lunga e intensa notte di morte e disperazione umane; a quel qualcosa devo essere grato, a quel qualcosa che ha reso possibile che stanotte mio figlio e io dormiremo nella stessa stanza, qui, a Chicago.
Ben presto verrà il giorno in cui non sarà più possibile, o perché io sarò vecchio, o vecchissimo, oppure perché non ci troveremo insieme mai più.
La nostra camera era splendida: c’erano due letti queen. A Valdi piacciono molto gli alberghi americani, perché di solito le stanze sono immense. Non so perché quest’immensità della camera ci dà un’irresistibile sensazione di libertà e di gioia.
Questo pomeriggio siamo andati in giro per Chicago.
Ridevamo insieme. A crepapelle.
Facevamo battute.
È questo il sentimento di cui ho bisogno da adesso in avanti: la gioia.